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Wolfenstein: The New Order: il reboot ideale

Ormai in vista dell'atteso seguito, ripercorriamo la strada che ha fatto di Wolfenstein: The New Order un reboot di successo

SPECIALE di Mattia Armani   —   18/10/2017

Wolfenstein: The New Order è uno sparatutto in prima persona che nasce dalle radici stesse della cosiddetta vecchia scuola e, come i suoi predecessori, ci porta tra le viscere di un distopico inferno nazista tra sangue, tecnologie fantascientifiche e macabri esperimenti. Potremmo addirittura considerarlo una summa della lunga storia del franchise id Software e non sbaglieremmo di molto nel farlo, anche se il fatto che sia sviluppato da ex membri di Starbreeze ci ha messo di fronte a un titolo che per molti aspetti si distingue nettamente dal valido ma dimenticabile Wolfenstein del 2009, così come si distingue dall'ottimo Return to Castle Wolfenstein, uscito nel 2001. Ma la pur brillante stella di quest'ultimo, primo reboot dedicato alle peripezie di William Joseph Blazkowicz, si è spenta piuttosto rapidamente, oscurata da una piccola rivoluzione degli FPS che ha relegato in un angolo gli sparatutto vecchia scuola, persino quando potevano contare su un online interessante come quello sviluppato da Nerve per Gray Matter Interactive e id Software. Lo spara e impiomba vecchio stile però non è mai scomparso del tutto: tenuto in vita anche da progetti minori come Alien Rage, è sempre rimasto a galla, regalandoci anche qualche perla purtroppo finita rapidamente nel dimenticatoio.

Wolfenstein: The New Order: il reboot ideale

L'evoluzione di un classico

Che si parli di qualità o di mero riscontro commerciale, nessuno sparatutto vecchia scuola è riuscito a ripetere il clamoroso successo dei primi titoli id Software e la cosa non ci stupisce considerando che potevano contare sull'effetto novità e che non avessero a che fare con alcun tipo di concorrenza. Ma dalla loro avevano anche una forza tutta speciale, una forza fatta di tecnologia, ritmo e violenza che li ha resi indimenticabili a prescindere dal genere di appartenenza. Ed è una forza che in questo genere è mancata fino a questi ultimi anni, quando Bethesda è scesa in campo con prepotenza e ci ha riportato in grande stile sia DOOM che Wolfenstein. Nel primo, sviluppato da id Software, abbiamo trovato l'ottimizzazione tecnologica estrema e l'esaltazione della struttura arcade, potenziata da qualche extra e dal sangue. In Wolfenstein abbiamo un gioco meno spinto tecnologicamente, ma come gli originali basato sull'intensa iconografia del nazismo techno-paranormale e arricchito di una trama che pur semplice non manca di momenti notevoli.

Momenti che fanno da collante per un'esperienza contraddistinta da una buona varietà di situazioni e da un ottimo level design, ben più memorabile di quello del Wolfenstein di Raven Software. Ed è chiaro che anche su questi elementi si costruisce il successo di un reboot che, forte anche dell'essere uno dei pochi sparatutto vecchia scuola a godere di un impianto da tripla A, si è rivelato capace di portarci al primo vero sequel, già anticipato da un particolare prequel, dell'intera storia del franchise. Non male per un titolo che non è di certo perfetto anche se dal punto narrativo fa più della stragrande maggioranza degli FPS vecchia scuola, condisce tutto con un doppiaggio eccellente e ci regala ambientazioni piuttosto differenti l'una dall'altra. Inoltre dobbiamo considerare che quello di cui parliamo è uno sparatutto incentrato sull'azione, contraddistinto da un gunplay che funziona come un orologio. Per questo può accontentarsi di viaggiare sul dorso di pochi personaggi davvero riusciti, spesso capaci di distrarci da quelli più caricaturali e meno brillanti le cui apparizioni sono utili giusto a rallentare il ritmo in funzione della sparatoria successiva. Non è invece facile passare sopra al look squadrato e neutro, figlio di un modo di fare videogiochi condizionato da importanti limiti tecnologici e monetari. Un'impostazione del genere, oggi, restituisce l'idea di vecchio e non di vintage, ma vista la genesi è un compromesso di quelli che vengono accettati, tanto più se sull'altro piatto della bilancia troviamo un ottimo level design e meccaniche che funzionano alla grande. L'arsenale, considerando il genere, non è dei più ricchi, ma anche in questo caso troviamo qualcosa a compensare le mancanze: le abilità.

Wolfenstein: The New Order: il reboot ideale

Il reboot che serviva

Le abilità di Wolfenstein: The New Order non rivoluzionano nulla nel mondo dei videogiochi, ma grazie alla quantità e all'implementazione intelligente rendono il gameplay più ricco e complesso, prendendo ispirazione dai giochi di ruolo e dagli achievement. Parliamo di trentadue skill, in gran parte passive, divise nei rami tattico, furtivo, assalto e demolizione che si sbloccano ripetendo per un determinato numero di volte specifiche azioni che vanno dallo specifico tipo di uccisione fino all'utilizzo con efficacia di una determinata arma. E l'intero impianto è pensato in funzione del gameplay che del titolo MachineGames è senza dubbio il nucleo intorno al quale gira tutto il resto, forte di armi dal feedback credibile e convincente che fanno da spina dorsale per un gunplay adrenalinico ma preciso tra orde di nazisti inferociti e boss piuttosto impegnativi. In tutto questo eliminare schiere di soldati a suon di granate ci permette di imparare a rispedire al nemico le bombe che ci ha tirato e, sempre giocando, possiamo anche sbloccare la modalità akimbo per quasi ogni arma e ottenere svariati altri vantaggi. Tutto ciò influenza nettamente il ritmo e l'intensità del gameplay potenziandone una base già ottima che si evolve anche in corrispondenza di un drammatico bivio narrativo, permettendoci di scegliere se scassinare serrature o far saltare circuiti. Il risultato è uno sparatutto che funziona alla grande, imperfetto ma capace di essere dannatamente soddisfacente grazie alle meccaniche stealth intuitive, grazie a sequenze caratterizzate da variazioni importanti del gameplay e grazie alle numerose trovate capaci di rompere quella monotonia che degli FPS classici è il tallone d'Achille.

Ed ecco che da radici classiche è venuto al mondo un qualcosa di molto particolare di questi tempi, una dimostrazione del fatto che esperienze esclusivamente single player di questo genere possono ancora funzionare, a patto ovviamente di prendere quanto di buono da formule simili, per quanto più orientate al gioco di ruolo, che hanno già dimostrato come il multiplayer non sia obbligatorio per avere successo nel mondo dei videogiochi. Lo è, invece, la soddisfazione nell'uso delle armi, almeno parlando di sparatutto in prima persona, ed è una lezione che Starbreeze ha imparato come altre software house da id Software che da questo punto di vista non ha rivali. A questo Starbreeze ha aggiunto un pizzico di The Chronicles of Riddick: Escape from Butcher Bay regalandoci, complice il già menzionato stealth che pur facoltativo ha un ruolo importante, un'illusione di libertà che passa per ambienti enormi, per le abilità, per le ambientazioni differenti e per un hub pieno di segreti, regalandoci un qualcosa che pur circondato da confini ben precisi riesce a superarli, almeno illusoriamente. Ed è grazie a tutto questo che ci siamo trovati di fronte primo Wolfenstein ad essersi aggiudicato un seguito vero e proprio, viaggiando a cavallo tra le corsie dello sparatutto vecchia scuola e del gioco di ruoolo. Detto questo è bene ribadire che Wolfenstein: The New Order non è perfetto, ma probabilmente è proprio il reboot che serviva per riportare in pista un franchise che fatto da trampolino di lancio per il genere degli sparatutto in prima persona.