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Diario del Capitano

DIARIO di La Redazione   —   27/09/2003

Diario del Capitano

Il gameplay è tutto. Mentre venerdì sera in ufficio della gente giocava a Call of Duty, tra esplosioni e contraerea, riflettevo proprio su questo punto: il gameplay è tutto. In un'epoca come questa, in cui stiamo assistendo ad una specializzazione nei ruoli delle software house (c'è chi si specializza in motori grafici, chi in motori fisici, chi nella storyline e nel prodotto finale acquisendo tecnologie dalle prime due) per distinguere un buon gioco da un cattivo gioco non ci può più basare sul colpo d'occhio.
Ormai i produttori di videogiochi hanno mangiato la foglia e la prima cosa di cui si accertano è di avere dei prodotti belli da guardare. In molti hanno dimenticato che il gioco è una forma d'arte espressiva ma interattiva. Il gioco dev'essere bello da giocare più che da guardare. Poi ovviamente ci sono anche le eccezioni: giochi brutti e ingiocabili - Enter the Matrix su PC? -, ma questo al momento non interessa il discorso.
Se basassimo la nostra osservazione sulla beltà grafica non potremmo giudicare in modo imparziale i vari giochi. Cosa hanno in comune Quake 3 Arena, Call of Duty, Medal of Honor, Star Trek: Elite Force 1 e 2? E ancora Unreal Tournament 2003, Rainbow Six Raven Shield, Unreal 2, XIII e Postal 2? E Half-Life 2, Call of Duty e Max Payne 2?
I vari gruppi, tra di loro, hanno delle "basi" o se preferite, delle "fondamenta" in comune. Se non è la tecnologia che fa la differenza tra un buon gioco e un cattivo gioco, allora cosa crea la differenza? Se si procede per esclusione, sono il team creativo, la regia, la storia, la giocabilità, la freschezza delle idee che differenziano il bello dal brutto, l'originale dal banale.
Del resto questa tematica è stata affrontata anche in campo cinematografico, con medesime conclusioni: i budget stellari e gli effetti speciali non colmano la mancanza di idee. Se così non fosse "Terminator 3" sarebbe il film dell'anno e "Io non ho paura" di Gabriele Salvatores sarebbe spazzatura.
Nel campo dei videogiochi ci sono però ulteriori variabili da tener presente: l'evoluzione tecnologica che rende obsoleto l'hardware e il relativo software, le piattaforme disponibili, le tendenze in voga (oggi va il gioco d'azione, domani il genere arcade).
Per questi ulteriori motivi la produzione di un videogioco è stata sottoposta ad una forte irregimentazione aziendale, con budget ferrei, tempi di sviluppo prefissati, penali per sforamenti, processi operativi standardizzati. E con la professionalizzazione del lavoro di game developer sono state importate anche alcune metodologie classiche dei progetti complessi, come il meccanismo degli appalti.
Ecco dunque spiegato il progetto di un gioco come Call of Duty: 1) l'idea che rispecchia un genere e un argomento in voga in questi ultimi anni (gioco d'azione + revival Seconda Guerra Mondiale), 2) il motore grafico di Quake 3 Arena adeguatamente aggiornato, 3) il motore fisico Havoc, per tutto quello che riguarda la fisica del gioco (movimenti, cadute, comportamento degli oggetti, materiali). L'appaltatore, Activision, non ha fatto altro che acquistare tutti i pezzi, li ha incollati insieme e ha tirato fuori un discreto gioco che venderà un adeguato numero di pezzi. E la creatività che fine ha fatto?
Oggi il processo di realizzazione di un videogioco non risponde più a quell'idea poetica e romantica di dieci-quindici anni fa, di un gruppo di amici che si mettono insieme con l'idea definitiva, sfornando così il gioco del secolo. Oggi il videogioco è prima scritto dai ragionieri, e poi dai creativi. Un buon motore grafico richiede il lavoro di 40 persone (grafici, programmatori, ingegneri, fisici) per 12, 18 o anche 24 mesi. Come può il famoso gruppo di amici competere con il team di Valve Software?
Ecco spiegato perchè il Dino Dini del 2003, dopo venti anni dal primo Kick Off, non si ritrova più nell'attuale sistema, in quanto il sistema stesso è cambiato più velocemente di lui.
Pur comprendendo l'esigenza di razionalizzazione del sistema, prima troppo eterogeneo e troppo impreparato al mercato (a rischio quindi di estinzione), è necessario fare uno sforzo di originalità e creatività, e cercare di restituire del potere decisionale alle software house. Da parte nostra invece cercare di fare sempre più attenzione a cosa c'è dietro il trucco di scena, dietro i pixel, per giudicare infine i videogiochi per quello che devono fare veramente: divertire.

Andrea Pucci, editore Multiplayer.it

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