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Diario del capitano

DIARIO di La Redazione   —   11/09/2001

Diario del capitano

Stamattina leggevo un'intervista a Nolan Bushnell, fondatore di Atari e ideatore di uno dei primi e più famosi giochi mai inventati: Pong (per i meno esperti: quel gioco con la barretta verticale e la pallina che rimbalza sullo schermo cercando di fare goal). Bushnell è, per gli addetti del settore, un genio, anche se negli ultimi vent'anni si è allontanato dall'industria dei videogiochi più volte. La sua genialità non si è espressa tanto nel gioco in sé, quando nell'aver saputo vedere qualcosa laddove nessuno aveva visto niente. Con Atari e Pong ha dato il via ad una nuova forma di intrattenimento che ha invaso i bar alla metà degli anni '80 e le case a partire dai primi anni '90. L'intervista, e Bushnell stesso, puntavano il dito contro la scarsa originalità dei videogiochi di oggi, e l'auto esclusione da larghe fette di pubblico, a causa della violenza e della difficoltà della maggior parte dei prodotti. Oggi, la produzione di titoli si concentra su una fetta di pubblico che va dai 18 ai 26 anni (con eccezioni ovviamente). Sul tema sono già intervenuto nei giorni scorsi, spendendo parole per un ampliamento dell'offerta che permetta anche ad altre fasce di utenti di godere dell'"intrattenimento elettronico".
Un moderno Nolan Bushnell potrebbe essere Will Wright, con il suo "The Sims", che ha fatto rientrare dalla porta principale tutto l'universo femminile. Oppure la Nintendo, che con il GameBoy prima e con il GameCube poi, ha fatto capire di essere interessata a tutti quei giocatori attualmente insoddisfatti dall'offerta disponibile (quindi giovanissimi, manager in pausa pranzo e famiglie nel dopo cena).
Ma a parte casi rari, tutti i giochi che vi vengono in mente, da Fifa a Doom III si rivolgono a un utente tipo ben definito, che rientra nello stereotipo descritto poco sopra.
E' bene curare i giocatori hard core, ma dovremmo anche impegnarci per crearne di nuovi, introducendo le "reclute" piano piano, attraverso vari stadi di difficoltà. Parlare di Olimpiadi va bene, ma gli atleti (sia uomini che donne) vanno presi fin dai primi stadi, altrimenti ci ritroveremo tra due-tre anni con le solite persone, a giocare i soliti giochi.