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Diario del capitano

DIARIO di La Redazione   —   18/09/2001

Diario del capitano

Torno a parlare di Return to Castle Wolfenstein per l'n-sima volta. Sarà che questo gioco ha segnato all'epoca le mie prime esperienze videoludiche, sarà che la Gray Matter Studios è la prima software house americana che ho visitato dal vivo, con tutta la squadra al completo, sarà anche forse merito del tema della Seconda Guerra Mondiale, che da sempre mi ha appassionato. Insomma, con una redazione fatta di maniaci del 3D action, secondo voi, ieri, non c'è stato un ritorno di fiamma sulla Lan? E infatti invece delle consuete dodici ore, ieri ne abbiamo fatte otto più quattro. Poi ho proseguito da solo in tarda serata sui server stranieri, dato che il mio ping a 150 (a causa della lan, del firewall, del wireless) rimane tale in qualunque parte del mondo. Non sono mai stato un estimatore dei giochi "a classi", per capirci, con ingegneri, medici, soldati, comandanti etc. Ho sempre ritenuto che un gioco dovrebbe essere quanto più immediato possibile, per farsi consumare in fretta prima che passi la voglia. In questo RtCW mi ha fatto ricredere, e ho scoperto quanto sia divertente fare, per esempio, il medico, andando in giro a curare gente e prendersi ringraziamenti e riconoscenza. L'avere una sola arma non è penalizzante più di tanto, perchè al limite, di turno in turno, si può cambiare. Dopo aver fatto flambè un po' di avversari, si può passare al fucile da cecchino, o al mitragliatore da combattimento ravvicinato.
Nonostante tutti questi apprezzamenti, non posso fare a meno di notare che in questa modalità (lasciamo stare il singleplayer che sarà sicuramente di alta classe) Return to Castle Wolfenstein ricorda un sofisticatissimo mod di Quake 3 Arena, che a differenza di questo, è uscito perfettamente funzionante, senza eccezioni e nota bene. Non vuole essere una critica, ma una constatazione. Del resto, a forza di usare i motori della Id Software, tutti i giochi tendono ad avere un po' lo stesso sapore, come i cibi americani. Oddio, viene da pensare che sia meglio usare un buon motore testato e ritestato, piuttosto di farsene uno scarso da soli, ma è un po' come se tutti i maggiori pittori del tardo 1800 si fossero fatti preparare la base dei loro quadri da Van Gogh.
La scelta di usare sistematicamente gli engine grafici della Id Software è rischioso. Potrebbe togliere ai programmatori la voglia di mettersi in gioco, di rischiare, creando qualcosa di nuovo. Guardate per esempio i talentuosi ragazzi della Zetha GameZ, di cui ho assistito alla presentazione alla stand nVidia a Londra, durante l'ECTS. Hanno realizzato un motore grafico talmente ottimizzato e performante per le GeForce, da essere preso come esempio dalla nVidia per mostrare le meraviglie delle loro schede. Lo sviluppo dell'Ngenius Engine è costato quattro anni di lavoro al gruppo di sviluppatori italo-francesi, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Oppure, prendete il GeoMod, il motore grafico completamente "deformabile" della Volition utilizzato in Red Faction, gioco che rischia di passare in sordina, nonostante le sue prodigiose caratteristiche.
Creare un gioco è creatività allo stato puro del team che ci lavora sopra. Bisognerebbe chiedersi ben più di due volte se vale la pena fare tutto da soli, o affidarsi a prodotti esterni, che per quanto validi sono il risultato di un processo mentale altrui, di qualcun altro che pensava a un altro progetto e che aveva una sensibilità diversa.
Il mio sermone sul "self-made" termina qui. RtWC continua invece nelle impressioni di Luca Paladino, che come me, ieri, ha dedicato la sua vita al gioco del trio Gray Matter/Id Software/Nerve Software.