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Faccia da cinema

Clint Eastwood presenta il suo Flags of Our Fathers...

RUBRICA di La Redazione   —   25/10/2006

Adesso lo stiamo attendendo con trepidazione, Clint e la sua ultima e doppia fatica. Negli Usa è già uscito, da noi sarà in sala il 10 novembre prossimo, Flags of Our Fathers, distribuito da Warner Bros.
Partendo dall’immagine famosa, scattata per caso da Joe Rosenthal, di sei marines impegnati a issare una bandiera sull'isolotto di Iwo Jima, una delle icone più celebri della Seconda Guerra Mondiale, Clint ripercorre con la sua macchina da presa le vicende cruente della battaglia, nel febbraio del 1945, tra americani e giapponesi. E non si accontenta: all’inizio del 2007 uscirà Letters from Iwo Jima: lo stesso scontro visto con gli occhi dei giapponesi (tra gli interpreti Ken Watanabe). Clint vuole dare un’occhiata da entrambe le parti. Con la rettitudine morale che lo contraddistingue. E già si parla di Oscar...
E dopo Eastwood? Sapete indicarmi un erede? Una nuova faccia da Cinema?

Sarà un parere personale, ma è difficile trovare qualcuno che sembra rappresentare il cinema in carne e ossa.
Clint Eastwood per me è il Cinema: il cinema che invecchia, che cambia genere, cade e si rinnova, risorge sempre dalle ceneri coma la Fenice. E non molla mai perché ha sempre qualcosa da dire.
Clint ha la faccia da Hollywood, ma che da Hollywood spesso si allontana. Per seguire strade tutte sue, progetti su cui nessuno avrebbe mai scommesso.
Forse non avremmo un Clint senza gli spaghetti western e Sergio Leone, senza i suoi poncho di lana, il sigaro in bocca, il cappellaccio e il volto spigoloso e ancora senza rughe di una gioventù trascorsa in California, nella natia San Francisco. Clinton, il suo vero nome, ci guarda dai suoi quasi due metri d’altezza, gli occhi azzurri diventati acquosi, sornione verso chi lo definisce “una leggenda vivente”.
Eastwood è di quella razza di individui fortunati che con gli anni acquistano, forse perché guadagnano anche in sicurezza personale, oppure imparano a osservare ciò che li circonda con occhi ironici, con un distacco ‘compassionevole’.

Non sbaglia un film il nostro Clint: ha girato, tra gli altri, quello che poteva diventare il più stucchevole e zuccherino film d’amore, I ponti di Madison County, tratto da un best seller mediocre e ne ha fatto una delle storie sentimentali tra adulti maturi più profonde e vere della storia del cinema. Clint non evita di mettere a nudo i propri sentimenti: la scena del suo addio sotto pioggia e lacrime è tra le più strazianti che il cinema possa ricordare.
E chi non rammenta con una stretta allo stomaco Mystic River: la crudeltà, le azioni che sembrano seguire una loro escalation per non essere più fermate, le espressioni di Sean Penn e Tim Robbins?
Tutti sconsigliavano a Clint di fare un film sul mondo della boxe: non interessa più a nessuno, dicevano. Ma Clint il cowboy, l’ispettore Callahan, l’agente dei servizi segreti, il detective col cuore trapiantato, Clint e le sue decine di interpretazioni, sapeva quello che voleva fare: non solo un film di ambiente pugilistico, ma per giunta un film in cui la protagonista è una ragazza, sfortunata e testarda, battuta dal destino: Maggie/Hilary Swank. Ne è nato quel capolavoro che è Million Dollar Baby.
Film asciutti, senza una scena o una parola di troppo, un’inquadratura che non serva a uno scopo: film in cui più che le azioni ci si concentra sui personaggi e le loro storie, in cui gli individui portano con sé un loro segreto, c’è sempre qualcuno che muore drammaticamente e il riscatto avviene attraverso un pessimismo nei riguardi dell’esistenza mai superato. Clint pare dirci: “Ok ragazzi. Tutto fa schifo, ma l’essere umano ha il dovere di provarci.”
Nessuna indulgenza, nessuna pietà per lo spettatore. Se devono essere pugni nello stomaco, che inducano a pensare, che pugni siano.