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Yakuza: Like a Dragon, intervista a George Takei

Abbiamo intervistato il leggendario attore americano George Takei, celebre per il suo ruolo nella serie Star Trek ma non solo, a proposito della collaborazione con SEGA per il prossimo episodio di Yakuza, Like a Dragon

INTERVISTA di Umberto Moioli   —   07/09/2020

Yakuza: Like a Dragon arriverà nei negozi Europei il prossimo 13 novembre, un appuntamento che moltissimi fan della saga hanno oramai da tempo segnato sul calendario. Del gioco abbiamo parlato a lungo e vi invitiamo a recuperare la nostra più recente anteprima, ma oggi possiamo aggiungere un nuovo tassello alla nostra copertura: grazie a SEGA abbiamo passato una mezz'ora in compagnia di George Takei, attore divenuto popolarissimo per serie come Star Trek e Heroes, ma anche celebre per i suoi doppiaggi. Abbiamo così conosciuto un personaggio eccezionale, un professionista con decenni di carriera alle spalle ma anche una storia personale ricca di eventi. Non è stato facilissimo farlo restare nei confini delle nostre domande ma, ad ogni deviazione, abbiamo comunque trovato sempre delle risposte molto interessanti.

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Cosa ci puoi dire del tuo personaggio, quello che interpreti nel gioco?
La yakuza è un sistema, una struttura fortemente gerarchizzata che si muove in modo parallelo a quello della società giapponese. Ha le sue regole, i suoi protagonisti. Il mio personaggio, Masumi Arakawa, è a capo della sua organizzazione e della sua famiglia. E quando dico famiglia non mi riferisco tanto a dei legami di sangue, quanto a quelli che si creano tra i membri di un clan: sono connessioni fortissime da cui non ci libera facilmente. Durante l'avventura Masumi Arakawa si legherà a un personaggio, che di fatto adotterà, e con lui svilupperà un rapporto in forte contrasto con la brutalità dell'ambiente che li circonda.

Hai avuto diverse esperienze in svariati media, pensi che il videogioco sia un buon sistema per rappresentare problemi e strutture sociali complesse come la yakuza?
Penso che qualsiasi artista, quindi inclusi i creatori di videogiochi, sia in grado di raccontare, analizzare ed elaborare a suo modo concetti complessi, portarli al suo pubblico. Per me è importante comunque far capire che la yakuza non rappresenta la società e la cultura giapponese in sé. Ne è solo un aspetto.

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Quale è stata la sfida durante il lavoro che hai fatto su Masumi Arakawa?
Oltre 60 anni fa ho iniziato la mia carriera negli studi di MGM, doppiando in inglese i dialoghi di alcuni film giapponesi. Il primo era un film su Rodan (un kaiju giapponese), un mostro che provava a distruggere Tokyo e Osaka. Quel lavoro era davvero complesso perché bisognava provare a far coincidere, in qualche modo, i movimenti delle labbra degli attori giapponesi con la nostra voce, in inglese. Un processo molto complesso.

Lavorando su Yakuza: Like a Dragon non è stato così tanto complesso perché i personaggi quando muovono le labbra lo fanno in un modo non troppo specifico, che si adatta bene a qualsiasi cosa gli si dica sopra, quindi bisogna unicamente curarsi di parlare per la quantità di tempo giusto in modo da iniziare e finire con il personaggio. Il mio background da doppiatore, anche per l'animazione, mi ha aiutato tantissimo. Poi è stato un processo molto divertente poter vedere la precisione con cui sono stati realizzati i quartieri, i ristoranti ma anche i personaggi stessi, alcuni dei quali con il corpo completamente ricoperto da tatuaggi. Quando i boss più importanti muoiono, la loro pelle viene conservata e messa in mostra, come si fa con un kimono.

Oggi è diverso che in passato, moltissimi stranieri vanno in Giapppne, il paese e le sue unicità non sono più così particolari. Però di sicuro trovo interessante la possibilità di visitare un pezzo di Giappone attraverso i videogiochi.

Che rapporto hai con il Giappone, tu che sei nato e cresciuto in America?
Parlo giapponese perché i miei genitori hanno fortemente voluto che io lo parlassi. I miei genitori sono di origini giapponesi ma loro stessi sono stati cittadini statunitensi. Mi mandavano a scuola di giapponese nel weekend: al tempo vedevo i miei amici divertirsi il sabato, mentre io frequentavo le lezioni, e li invidiavo ma guardandomi indietro hanno fatto bene e mi ha molto aiutato. Per molte parti questa cosa mi ha dato una mano perché tanti attori americani di origini asiatiche non parlano la loro lingua d'origine e, quando ci provano, hanno un pessimo accento. In Heroes, ad esempio, quasi tutte le parti che ho interpretato erano in giapponese e, se non lo avessi conosciuto bene, non avrei ottenuto lo stesso risultato.

Durante la tua vita sei diventato un attivista molto importante e riconosciuto nella comunità LGBT. Pensi che anche i videogiochi possano giocare una loro parte in questo processo comunicativo?
Tutti i media sono diventati sempre più importanti per comunicare e riflettere le differenze e le diversità all'interno della nostra comunità. Oggi le persone di qualsiasi orientamento sessuale sono libere di esprimersi negli Stati Uniti ma non è sempre stato così.

Sono cresciuto sentendomi trattato in modo diverso. Quando avevo cinque anni i giapponesi hanno bombardato Pearl Harbor. Io e la mia famiglia siamo americani di discendenza giapponese e, per il solo fatto di avere le stesse sembianze di chi aveva attaccato gli Stati Uniti, siamo stati discriminati ed etichettati come nemici, travolti da un'isteria collettiva che ha attraversato tutto il paese. Io sono nato a Los Angeles, mia madre a Sacramento mentre mio padre si è trasferito giovanissimo dal Giappone a San Francisco, dove ha frequentato tutte le scuole. Nonostante questo, alla nostra porta si sono presentati dei soldati americani armati di fucile e ci hanno intimato di uscire, prima di portarci in campi di prigionia con il filo spinato attorno. Sono stato imprigionato in questo campo fino all'età di otto anni e mezzo: una volta finita la guerra siamo stati liberati ma nel frattempo il governo ci aveva tolto tutto, le nostre attività ma anche conti correnti e case.

Sono cresciuto in questo tipo di contesto. Quando avevo nove o dieci anni, poi, ho capito di essere differente dalla maggior parte dei miei amici: in classe avevamo una compagna, Monica, che attirava l'attenzione di quasi tutti i miei compagni che impazzivano per lei... a me interessava molto di più Bobby! Lo trovavo carinissimo ma l'ho nascosto, ero giovane ma ero già stato punito per essere diverso. Mi sono sentito a lungo diverso da tutti, sia per il mio aspetto che per il mio orientamento, e ho provato grande solitudine. Crescendo ho scoperto i locali gay di Los Angeles dove ho potuto essere me stesso, parlare apertamente. Al tempo bisognava però stare attenti, la polizia di sovente faceva delle retate, portava alla stazione e schedava tutti quanti per il solo fatto di essere gay.

Nel tempo la mia carriera da attore è decollata ma ho temuto a lungo che, rivelando la mia omosessualità, non avrei più lavorato. Sono stato un attivista politico a lungo per i diritti civili, ho incontrato Martin Luther King e ho protestato contro l'impegno americano in Vietnam. Ma a lungo non sono stato accanto a quelli che si battevano per la causa che più mi era vicina. Nel 2005, poi, era stata votata una legge che eguagliava tutti i tipi di matrimoni: in California perché venisse applicata mancava solo la firma del governatore, Arnold Schwarzenegger. Durante la sua campagna elettorale, Schwarzenegger aveva detto di capire e conoscere molte persone di diverso orientamento sessuale grazie alla sua esperienza a Hollywood, e io ci avevo creduto. Nel momento di firmarlo però si è tirato indietro e ha posto il suo veto. A quel punto non potevo più stare in silenzio e ho parlato, raccontando a tutto il mondo quello che ero e perché fosse importante quel tipo di provvedimento, abbracciando la causa e diventandone uno dei portavoce.

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Hai una voce molto riconosciuta e spesso imitata a Hollywood, ti inorgoglisce?
Essere copiati, si dice, è la più grande forma di riconoscimento, ne sono molto contento!

Star Trek è un brand che funziona ancora molto bene. Ti piacerebbe tornare a lavorarci sopra?
Ovviamente sì, se mi invitassero a farlo! Star Trek ha 54 anni ma trovo che, ora come allora, sia attualissimo. Gli anni '60 in America sono stati molto turbolenti, come ora ci sono state molte proteste e la guardia nazionale sparava sui manifestanti. In tutto questo, la serie e poi i film si sono posti l'obiettivo di dare un messaggio inclusivo. Penso che questo messaggio così positivo, anche in un periodo folle come questo, con una pandemia globale e un presidente che è un fallimento sotto ogni punto di vista, sia moderno e determini la longevità del brand.