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The Suffering: Ties that Bind - Recensione

In alcune prigioni la pena di morte non è il peggio che possa capitare…

RECENSIONE di David Falzarano   —   26/10/2005
The Suffering: Ties that Bind - Recensione
The Suffering: Ties that Bind - Recensione

A volte ritornano… uguali a prima!

Il primo The Suffering, uscito nel mese di marzo 2004, è stato un gioco poco pubblicizzato, attorno al quale non si era formata alcuna particolare aspettativa, e forse anche per questo è riuscito invece ad impressionare positivamente critica e pubblico. Uno dei punti di forza di The Suffering era l’ambientazione altamente horror e splatter, con una forte atmosfera che riusciva a tenere il giocatore costantemente in tensione. Il titolo Midway non era riducibile ad un genere ben preciso: nei primi minuti il ritmo era abbastanza lento e invogliava all’esplorazione, cosa che grazie anche alla possibilità di giocare in terza persona faceva sembrare di aver fra le mani un vero e proprio survival-horror, poi invece l’azione la faceva da padrona e il gioco diventava una sorta di action/FPS a tratti piuttosto frenetico, a tratti un po’ più ragionato ed esplorativo. Per chi non conoscesse la storia originale, la trama di The Suffering è incentrata su Torque, un uomo condannato alla pena capitale per l’omicidio della sua intera famiglia. In attesa dell’esecuzione nel braccio della morte della prigione di Abbott, Torque si ritrova al centro di un vero e proprio attacco sferrato da misteriose creature dalle sembianze mostruose che uccidono a vista ogni forma di vita.

uno dei punti di forza di The Suffering era l’ambientazione altamente horror e splatter, con una forte atmosfera che riusciva a tenere il giocatore costantemente in tensione

A volte ritornano… uguali a prima!

Inizia così una disperata fuga verso Baltimora, la città natale del protagonista, che non termina prima di aver coinvolto Torque in un intreccio di subdole cospirazioni ed esperimenti paranormali, con continui collegamenti all’uccisione della sua famiglia. Durante The Suffering si potevano operare delle scelte morali, le quali si riducevano sempre ad aiutare o uccidere alcuni personaggi non giocanti, ed in base all’allineamento morale che si aveva alla conclusione del gioco veniva visualizzato uno dei tre diversi finali (malvagio, neutrale, buono) con conseguente cambiamento della trama, che poteva vedere l’energumeno come un’innocente vittima delle circostanze o come spietato assassino assetato di sangue (conservando il salvataggio originale del primo The Suffering anche la sequenza iniziale di Ties that Bind cambia di conseguenza). Dopo un breve flashback antecedente alla storia del primo episodio, ritroviamo Torque che al termine della sua rocambolesca fuga si ritrova sulle sponde di Baltimora, ed è qui che inizia questo secondo capitolo. O continua il primo?

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Horror alla seconda

In questo sequel Torque deve tornare nei luoghi dove si svolgeva la sua vita prima dell’incarcerazione, e fare i conti sia con Blackmore, il quale pare in buona parte responsabile di tutto l’inferno che è stato scatenato, che naturalmente col Dottor Killjoy, il folle scienziato che sta dietro alla creazione delle creature demoniache. Anche stavolta si deve scegliere se percorrere la strada della moralità, ascoltando i suggerimenti ultraterreni della defunta moglie Carmen, oppure l’altra voce, quella demoniaca, ed impersonare il macellaio senza scrupoli. La giocabilità è pressappoco identica a quella già vista con The Suffering, e la trama viene incanalata su dei binari risultando molto lineare, tanto che le uniche scelte possibili sono quelle riguardanti l’allineamento morale. In Ties that Bind si è scelto di adottare un sistema di inventario realistico, cosicché ora non è possibile portarsi dietro più di due armi, e le bottiglie di Xobium (il “medikit” ufficiale del gioco) possono essere raccolte solo quando effettivamente manca dell’energia. Man mano che va avanti, il gioco perde sempre più l’impronta da survival horror e da action/adventure, diventando quasi completamente uno sparatutto, o più precisamente un FPS, poiché se rimane vero il fatto che The Suffering può essere giocato in terza persona, è molto più comodo e naturale utilizzare la classica visuale in soggettiva per la maggior parte del tempo. I combattimenti con i nemici, che ora sono più coriacei e difficili da abbattere, si svolgono principalmente a distanza, ed i vari mostri necessitano di approcci alla lotta leggermente diversi, poiché ogni tipo di creatura ha sue caratteristiche di attacco e difesa ben precise ed originali. A differenza del prequel, i movimenti effettuabili da Torque non cambiano in base alla visuale scelta, ed ora è possibile effettuare anche in prima persona le capriole laterali, molto utili nei combattimenti corpo a corpo quando si vogliono risparmiare munizioni (seppur rimangano molto più efficaci giocando in terza persona).

The Suffering: Ties that Bind - Recensione
The Suffering: Ties that Bind - Recensione

in Ties that Bind ritroviamo tutti, ma proprio tutti i cliché del gioco horror elevati alla potenza

The Suffering: Ties that Bind - Recensione
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Horror alla seconda

Inoltre, con la visuale in soggettiva e le armi da mischia, non si sferra più un solo attacco alla volta ma sono disponibili le stesse combo di tre colpi concatenati che troviamo con l’altra visuale. Uno degli elementi non propriamente “FPS” è la trasformazione: quando la barra “insanity meter” (che aumenta ad ogni uccisione di un nemico) è piena, Torque può trasformarsi nell’enorme ed orrido mostro che popolava spesso le sue deliranti visioni nel prequel. In questo caso la visuale viene forzata in terza persona e non si possono usare armi, ma si hanno bensì a disposizione tre diversi attacchi corpo a corpo (devastanti). Uno di questi, poi, ha un suo personale “livello di esperienza” che se aumentato rende la mossa più spettacolare e letale. La trasformazione può essere mantenuta per un periodo di tempo limitato, pena la perdita di energia vitale. Gli enigmi che Torque deve man mano risolvere (se posso azzardare il termine “enigmi”) sono piuttosto banali e facilmente risolvibili, ma hanno il merito di essere credibili e più o meno realistici, evitando quelle forzature poco verosimili che spesso infestano i titoli del genere. Ribadisco alla grande quel che ho pensato giocando al primo episodio: se The Suffering fosse meno sparatutto e più survival horror, se Torque fosse un po’ più debole e difficile da far difendere (proprio come accade ai personaggi dei s.h.), credo che questo videogame sarebbe il più spaventoso mai creato. In Ties that Bind ritroviamo tutti, ma proprio tutti i cliché del gioco horror elevati alla potenza: atmosfera opprimente, ambienti bui, musiche angoscianti, estrema violenza, sangue ovunque, mostri aberranti che sbucano fuori all’improvviso, effetti sonori sinistri, creature dall’aspetto rivoltante e, tanto per mettere la ciliegina sulla torta, continue allucinazioni e visioni splatter. The Suffering non molla mai la presa, e tiene il giocatore continuamente sul chi vive, preoccupato di individuare cosa si sta muovendo nel buio intorno a lui e martellato dalle improvvise e fastidiose visioni provenienti dal passato di Torque. La longevità è buona e c’è anche un minimo fattore di rigiocabilità, ma purtroppo non esiste una modalità multiplayer.

Un po’ di rosso qua e là

Anche dal punto di vista grafico permane quel fortissimo senso di de javu che contraddistingue l’aspetto giocato. In più di un anno e mezzo, soprattutto per quanto riguarda le versioni console, non sono stati fatti che piccoli passi avanti; considerando quindi il fatto che già il prequel non sorprendeva per impatto visivo, si può dire tranquillamente che Ties that Bind non dà all’occhio tutta la famosa parte che solitamente esso esige. Moltissimi oggetti e modelli sono stati riciclati in toto dal primo capitolo, e altri ancora hanno goduto solo di aggiornamenti poco sostanziosi. Sia chiaro però che non stiamo parliando di una produzione scarsa. Il character design di mostri e personaggi umani fa ancora il suo dovere, e le animazioni delle creature (un misto tra motion capture e tradizionale) sono eccellenti: gli slayers in particolare sono resi parecchio inquietanti dalle loro movenze innaturali, esageratamente dinoccolate quando deambulano su due gambe e simili a quelle di un ragno quando si muovono “a quattro zampe”; anche Torque può vantare il suo bel set di movenze, peccato però per l’assenza della vecchia e minacciosissima camminata lenta (che ricordava l’incedere di Kenshiro), ora sostituita con una un po’ più borghese. L’atmosfera è resa ottimamente e l'impatto visivo è fortissimo (forse a tratti addirittura troppo marcato).

The Suffering: Ties that Bind - Recensione
The Suffering: Ties that Bind - Recensione

Un po’ di rosso qua e là

[C]

Morire in un vicolo puzzolente con la testa mozzata. Cose che de-capitano. Ah ah ah.
Morire in un vicolo puzzolente con la testa mozzata. Cose che de-capitano. Ah ah ah.
Tasse asfissianti, rapine a mano armata, mostri affamati di carne umana: la vita del negoziante è davvero dura
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[/C] In generale lo stile grafico ha una personalità tutta sua, ben delineata, ma di certo The Suffering: Ties that Bind non brilla per complessità poligonale, dettaglio delle texture, effetti e via dicendo. Specialmente su PC, pur avendo il merito di girare alla grande anche su sistemi poco potenti, il titolo Midway non riesce a reggere il confronto con i prodotti recenti di media fattura né con i migliori di uno o anche due anni fa, mentre su console il gap qualitativo è molto ridotto, ma pur sempre presente. In ogni caso per farvi rendere conto della leggerezza del motore grafico, posso dire che ho provato la versione PC con una 9600 liscia (scheda video le quali prestazioni sono ormai sotto la media) e il gioco faceva circa 40 frame al secondo tenendo la risoluzione a 1280x1024 e anti-aliasing a 2x. Il sonoro, pensate un po’ che sorpresa, è anche lui allo stesso livello del predecessore: ottimi doppiatori (originali, il gioco non è localizzato in italiano), buone musiche ed effetti sonori nella media. Fra gli attori che hanno prestato la voce ai personaggi poligonali possiamo individuare Michael Clarke Duncan (che ha recitato ne “Il miglio verde”) nel ruolo di Blackmore e Rachel Griffiths (Six Feet Under) nel ruolo di Jordan, l’avvenente scienziata senza scrupoli.

Multipiattaforma

Ties that Bind è disponibile anche per Xbox e PS2, e ad essere sinceri mi sono trovato molto meglio con in mano un joypad piuttosto che mouse e tastiera, vuoi per i controlli che su console sono parecchio intuitivi, vuoi perché la versione PC mi ha dato l’impressione di uno dei soliti porting contraddistinti da una gestione del mouse leggermente approssimativa (soprattutto nei menu). Su PS2 il motore 3D sembra essere un po’ più incerto, e la versione Xbox vanta sia una maggiore pulizia grafica che texture più definite. Per il resto, nulla di particolare da segnalare.

Commento finale

The Suffering Ties that Bind ripropone sfacciatamente la formula che un anno e mezzo fa ha portato il primo capitolo della serie ad essere una piccola rivelazione nel panorama videoludico, ma purtroppo questo non basta per raccogliere gli stessi consensi di allora. Poco o nulla è cambiato, e nonostante il gioco sia godibile e gli elementi horror funzionino davvero alla grande, Ties that Bind sembra più un set di livelli aggiuntivi che un vero e proprio sequel, mostrando anche un comparto tecnico ormai datato e un game design pigro e per nulla innovativo. Chi ha amato il primo episodio non sarà certamente deluso da questo pseudo-sequel, gli altri potrebbero invece pensare di investire i propri risparmi in maniera diversa, soprattutto considerando l’altissimo numero di grandi titoli che da qui a Natale affollerà gli scaffali dei nostri negozi.

Pro

  • Ottima atmosfera
  • Fortissimo carattere horror
  • Divertente anche se senza troppe pretese
Contro
  • Concettualmente identico e tecnicamente molto simile al predecessore
  • Molto lineare
  • Graficamente un po’ datato

La vita da galeotto è senza dubbio dura: poca luce, poco spazio, pessima compagnia, imboscate sotto le docce e rancio da schifo. Ne sa qualcosa il nostro amico Torque, che per qualche strana coincidenza sembra non rassegnarsi alla vita da normale prigioniero e sceglie accuratamente solo le carceri dove, oltre a sopportare quanto di cui sopra, si devono fare i conti con orde di ripugnanti demoni deformi venuti fuori dal nulla che passano il tempo a mozzare teste e squartare secondini e galeotti senza discriminazioni di sorta. E pensate che anche quando è fuori dalla galera, le cose non cambiano di molto.