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Il quarto stato videoludico

Possono i videogiochi essere strumenti efficaci di rappresentazione di tutti gli strati della società?

SPECIALE di Simone Tagliaferri   —   01/05/2015

Trovare nel mondo dei videogiochi commerciali una rappresentazione attiva ed efficace del proletariato è difficile quanto trovare una donna ben vestita in un jRPG, nonostante siano moltissimi i videogiocatori che si possono idealmente inscrivere in quella che un tempo veniva definita la classe lavoratrice (o operaia), e che oggi non sa più bene cosa sia e, soprattutto, cosa voglia essere, visto che fatica enormemente a riconoscersi come gruppo. L'idea di dedicare uno speciale a questo tema ci è venuta con l'avvicinarsi del 1° maggio, la festa dei lavoratori. Non è inutile chiedersi il grado di attenzione dell'industria videoludica per il mondo del lavoro, pur tenendo fuori qualsiasi considerazione politica, che in questo contesto sarebbe superflua. In realtà non ci è chiaro nemmeno se la quasi totale mancanza della classe proletaria dall'immaginario videoludico attivo, ossia con ruoli da protagonista, sia un problema vero e proprio. Fa però riflettere che gli strati più bassi e più ampi della popolazione esistano nei mondi virtuali solo in forme meramente decorative, o al massimo strumentali. Eppure se in quest'epoca c'è un medium che si rivolge a tutti i livelli sociali è proprio quello videoludico!

Il quarto stato videoludico

Difficoltà espressive

Se osserviamo i protagonisti medi dei videogiochi è facile scorgere molte caratteristiche che li accomunano, anche quando sembrano completamente differenti. Prendiamo ad esempio due personaggi apparentemente all'opposto tra loro come il comandante Shepard, protagonista della serie Mass Effect (almeno della prima trilogia), e Trevor Phillips di Grand Theft Auto V. Facile notare come il primo sia un personaggio fondamentalmente positivo, anche quanto è chiamato a prendere scelte difficili durante le sue avventure, mentre il secondo è un criminale psicotico e trascurato capace di ogni efferatezza. In cosa si somigliano? In niente di ciò che viene raccontato direttamente nei videogiochi in cui agiscono.

Il quarto stato videoludico

Ciò che li accomuna non è qualcosa che si vede, ma un sistema di valori, o schemi mentali se preferite, cui facciamo riferimento per pregiudicare le loro caratteristiche. Trevor è Trevor perché Shepard è Shepard. Senza i nostri pregiudizi, che non riguardano direttamente i personaggi in questione, ma che usiamo ogni volta che dobbiamo definirne le caratteristiche nella nostra mente, non riusciremo a determinare chi dei due è il buono e chi il cattivo. Ora, stabilito che è possibile leggere e definire un personaggio (come qualsiasi altra cosa) solo partendo da degli schemi mentali, che possono variare enormemente a seconda del contesto storico e sociale di ogni individuo, è facile fare un salto verso il problema posto all'inizio dell'articolo. I protagonisti, i deuteragonisti e le nemesi del videogioco medio hanno tutti un ceppo genetico comune proveniente dalle forme dell'intrattenimento popolare, i cui tratti sono rinvenibili anche in opere molto antiche. Sono personaggi monolitici anche lì dove apparentemente hanno la libertà di scegliere. Attenti perché non vogliamo mettere in discussione ciò che sono, ma solo riflette su ciò che non sentono mai il bisogno di essere. Umberto Eco li chiamerebbe Superuomini di massa, ma noi non siamo così raffinati. Certo è che nel loro universo percettivo alcune gerarchie sono molto precise e nei mondi in cui vivono la raffigurazione del popolo è uniforme, per quanto variegata in superficie. Sono eroi popolari, ma non vengono dal popolo. I più ingenui potrebbero considerarli una forma di elevazione sociale individuale, positiva anche per le classi più basse, ma in realtà sono più assimilabili a modelli regressivi utili per l'affermazione dello status quo del potere che li esprime. Detto in altri termini sono il frutto del conformismo della classe dominante, per usare un'altra espressione ormai desueta, che detta tramite loro il suo punto di vista, anche quando in realtà sembrano abbracciare punti di vista molto diversi. Non c'è alcuna contraddizione in uno Shepard che stermina una specie galattica con uno che sceglie di non farlo. Lo schema non si esprime nel risultato, ossia nello sterminio o meno, ma nella scelta stessa, apparente quanto comunicativamente ininfluente. Il giocatore non è chiamato a rispondere delle sue azioni, se non in termini di una leggera differenziazione nelle statistiche di gioco, ma può bearsi di quella che lui percepisce come una libertà che gli è stata garantita. In un quadro del genere il livellamento è inevitabilmente verso il basso e tutta una serie di temi devono rimanere fuori dall'immaginario suggerito. Tra questi tutti quelli legati ai potenziali problemi che il fruitore medio affronta o potrebbe affrontare nella realtà. Sarà per questo che il "popolo" nei videogiochi è sempre completamente inerte? Ossia sempre vittima del potere oppressivo di turno e di quello dell'eroe stesso, spesso raffigurazione plastica del potere oppressivo dell'immaginario sull'individuo, chiamato ad agire in sua vece?

Per il 1° maggio ecco uno speciale sulla rappresentazione della lotta di classe nel mondo videoludico

Problemi sul lavoro

Se nei recenti tripla A non è di fatto possibile trovare una rappresentazione efficace della classe proletaria, raffigurata sempre e soltanto come invidiosa delle classi dominanti, non va molto meglio nella scena indie, dove gli autori si concentrano più sulle storie individuali e intime, puntando verso un'emotività e un sentimentalismo a volte riusciti, a volte davvero blandi. Le eccezioni ci sono, ma ne parleremo dopo. Eppure in passato qualche segno di maggiore attenzione verso certe fasce sociali c'è stato.

Il quarto stato videoludico

Soprattutto negli anni 80 il videogiocatore non era per forza costretto a interpretare eroi stereotipati, nonostante non ne mancassero, ma poteva scegliere ad esempio di essere un Paper Boy, divertendosi a lanciare giornali nelle cassette della posta di un quartiere suburbano, oppure poteva interpretare uno spazzino in Trashman della defunta Quicksilva, in cui bisognava svuotare dei cassonetti che tendevano a riempirsi un po' troppo velocemente. Ancora, chi avesse voluto avrebbe potuto interpretare un vero idraulico nei Super Pipeline, districandosi in labirinti di tubature da riparare. Notate che nessuno dei titoli citati aveva alcuna pretesa di realismo. Erano videogiochi come altri, soltanto con protagonisti alieni rispetto alla norma; norma che in realtà all'epoca era molto meno stringente di oggi. Pensate che anche nel mondo dei coin-op, riferimento tecnologico dell'intera industria di allora, poteva capitare di dover essere un operaio, come ad esempio in Hammerin' Harry di Irem, oppure un personaggio legato a un certo immaginario come il Che Guevara, protagonista di Guerrilla War di Taito. In fondo lo stesso Super Mario di Nintendo non è un eroe di estrazione proletaria? Il problema, se così lo vogliamo definire, di tutti i titoli citati è che in nessuno la presenza di certi personaggi è andata oltre il colore che la loro provenienza comporta, ossia non è stata utilizzata per integrare nel gameplay temi differenti rispetto a quelli standard cui siamo abituati. Anche in un titolo apparentemente più mirato come Everyone's A Wally, in cui si dovevano cercare dei soldi per pagare dei lavoratori, non si va oltre la superficie del suo stesso argomento.

I videogiochi come strumento critico: La Molleindustria

Una delle poche software house che ha provato a integrare temi economico sociali al gameplay in modo programmatico e con un certo successo è La Molleindustria di Paolo Pedercini, che spesso ha rappresentato tramite i videogiochi le condizioni dei lavoratori nella società post capitalista. Ad esempio in Tamatipico, risalente al 2003, un lavoratore flessibile viene raffigurato come fosse un tamagotchi, con il giocatore/padrone che deve decidere quando farlo lavorare, mangiare, riposare o divagare.

Il quarto stato videoludico

Pedercini è tornato più volte a occuparsi del tema del lavoro, ad esempio in Turboflex, dove viene messa in scena l'alienazione del lavoratore moderno nel suo essere diventato soltanto una risorsa dislocatile seguendo semplici principi di efficienza economica, oppure in McDonald's Videogame, che esplora il processo produttivo della catena di ristoranti più famosa e potente del mondo. Stesso tema, ma riguardante un tipo di prodotto differente, è quello di Phone Story, che esamina il processo produttivo degli smartphone in particolare e degli apparecchi tecnologici in generale, mostrando lo sfruttamento che rende possibile l'attuale mercato, a partire dall'estrazione delle materie prime. Di base la critica al sistema economico che domina l'occidente e che ha creato disparità enormi nella popolazione è l'oggetto privilegiato della produzione di La Molleindustria, che lo affronta da punti di vista differenti in molti altri titoli. Ad esempio in Every day the same dream gli effetti di una certa concezione del lavoro vengono osservati con occhio poetico quanto tragico, legandoli alla vita degli individui, mentre in Kosmosis vengono espressi i processi di aggregazione sociale e politica attraverso meccaniche da shooter che mirano a rompere gli schemi dettati dagli arcade classici, traduzioni in pixel dell'ideologia militarista dominante. Anche To Build a Better Mousetrap è un mini saggio in forma videoludica su come sia l'attuale sistema produttivo l'agente principale della precarizzazione e svalutazione del lavoro.

L'industria che non c'era

Nell'ultimo paragrafo siamo costretti in parte a contraddirci, di fatto andando a confermare la bontà dell'assunto di base, ossia la poca importanza che viene data alla rappresentazione del proletariato all'interno dei videogiochi. L'esempio più rilevante, quanto unico, di tripla A in cui i problemi del lavoro e i rapporti tra le classi sociali trovano un improvviso risalto è BioShock Infinite di Irrational Games, in cui Columbia, la città volante in cui è ambientato il gioco, è strutturata in modo tale da rendere evidenti le gerarchie sociali e più naturale il movimento rivoluzionario che tenterà di sostituirsi al governo cittadino in una celebre sequenza di gioco.

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Da notare però che, nonostante l'apparizione del conflitto sociale, la trama tende a mantenere il protagonista, Booker DeWitt, in un certo senso equidistante dagli eventi che avvengono sotto i suoi occhi, facendogli compiere sì delle scelte politiche, ma sempre ruotanti intorno agli schemi di quel supereroe medio di cui abbiamo parlato in uno dei paragrafi precedenti, nonostante vada detto che l'opera di Levine provi a scavare più a fondo nell'individualità rappresentata. BioShock a parte, il mondo dei tripla A sembra essere completamente impermeabile a qualsiasi problematica sociale. Anche titoli in cui teoricamente si sarebbero potuti affrontare certi aspetti della vita collettiva, come ad esempio Watch Dogs o anche il recente Assassin's Creed Unity, hanno invece scelto di lasciare ogni possibile conflitto sullo sfondo di trame dalla natura più fantastica che realistica. Ovviamente non pretendiamo di esaurire un discorso di tale portata in un testo così breve. In realtà è anche difficile stabilire se i videogiochi non tanto possano, quanto vogliano davvero affrontare certi argomenti. Tanto dipende non solo dalla volontà degli autori, quanto dalla domanda dei videogiocatori, che in molti casi si sono dimostrati freddini, quando non ostili verso certi temi. Non mancano esempi di segno opposto come "Papers, Please", che ha saputo rendere in modo profondo un aspetto tragico della realtà, pur rimanendo appetibile a livello popolare. Si tratta comunque di singoli casi, non indicativi di una tendenza di mercato vera e propria, tanto che tra le uscite più recenti e quelle dell'immediato futuro non ci sono esempi concreti di titoli che trattino temi sociali forti, tranne forse Sunset dei Tale of Tales. Insomma, se ci sia o meno spazio per i temi sociali e la rappresentazione attiva degli strati più bassi della popolazione nei videogiochi è ancora tutto da verificare.