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Il difficile rapporto tra videogiochi e Islam

Alla GDC 2016 si è parlato anche della rappresentazione dei musulmani all'interno dei videogiochi, dei frequenti errori da parte di sviluppatori e utenti, e le prospettive per il futuro

SPECIALE di Vincenzo Lettera   —   20/03/2016

"As-salam Alaikum", saluta qualcuno dal pubblico durante uno degli incontri tenuti alla Game Developers Conference di San Francisco. "Wa Alaikum Salam", rispondono all'unisono i quattro relatori. Il giornalista Imad Khan, la docente di game design Romana Ramzan, la grafica Farah Khalaf e lo sviluppatore indipendente Rami Ismail rappresentano ciascuno una diversa voce dell'industria dei videogiochi, ma hanno una cosa in comune: seguono tutti la religione islamica. Il dibattito a cui abbiamo preso parte aveva l'obiettivo di discutere proprio il modo in cui i musulmani vengono rappresentati all'interno dei videogiochi, spaziando da blockbuster a titoli indie, e prendendo in considerazione gli stereotipi, le problematiche e le possibili soluzioni.

Tutti gli stereotipi, errori e problematiche del rappresentare la cultura musulmana nei videogiochi

No, quello non è arabo

L'intervento si è aperto con una diapositiva che, a caratteri cubitali, ricordava a tutti la definizione della parola musulmano: "Qualcuno che segue il messaggio del Corano e gli insegnamenti del profeta Maometto". La precisazione è dovuta al fatto che molto spesso (nei media in generale, non solo nei videogiochi) si tende a confondere la fede con la provenienza geografica.

Faridah Malik è un esempio di 'buon musulmano'
Faridah Malik è un esempio di "buon musulmano"

"È assurdo che i musulmani non vengano rappresentati per la loro nazionalità", afferma Romana Ramzan. "C'è sempre il personaggio musulmano, non quello proveniente dal Pakistan, dalla Tunisia o dal Marocco. Eppure questo non accade con i cristiani: nessuno si sognerebbe mai di decidere come dev'essere fatto un personaggio cristiano". Secondo Rami Ismail, il problema è legato in gran parte a una questione numerica: "Sono talmente pochi i personaggi musulmani nei videogiochi, che è impossibile rappresentare la diversità di una comunità composta da 1.6 miliardi di persone. Ed è lo stesso problema che si è avuto, e si ha ancora oggi, coi personaggi femminili". Per questo motivo, si tende a cadere erroneamente nei soliti stereotipi, con personaggi dalla pelle scura, con la barba e con un certo modo di vestire. "Magari anche con un cammello", scherza Ismail. Il risultato è che si finisce per confondere il mondo musulmano con quello mediorientale e quello arabo, senza sapere bene di cosa si sta parlando. "Se chiedi a qualcuno di menzionare un gioco con un protagonista arabo", spiega Ismail, "è solo questione di secondi prima che citi Prince of Persia. Peccato che il principe sia persiano, non arabo. Dovrebbe essere chiaro dal titolo". Forse l'eroe arabo più famoso, quando si parla di videogiochi, resta Altair Ibn-La'Ahad, l'incappucciato protagonista del primo Assassin's Creed.

Uno dei tanti errori dei giochi di guerra
Uno dei tanti errori dei giochi di guerra

Ismail racconta come Ubisoft abbia azzeccato per buona parte la caratterizzazione del personaggio, a partire dalla scelta del nome: Ibn La'Ahad vuol dire "figlio di nessuno", in riferimento al fatto di essere rimasto orfano. Peccato che successivamente si è scoperto che anche suo padre, Umar, si chiamava "Umar Ibn La'Ahad". "Le cose sono due", spiega ironico Ismail "o anche il padre era rimasto orfano, oppure Altair ha ereditato il cognome; ma tramandare il cognome da padre a figlio è una cosa molto occidentale". Tra i tentativi di realizzare personaggi musulmani positivi spiccano Adala bint Khalid di Dreamfall Chapters e, soprattutto, Faridah Malik di Deus Ex: Human Revolution, uno dei personaggi preferiti tra gli appassionati del gioco sviluppato da Eidos. "Malik è lo stereotipo del buon musulmano", aggiunge Ismail. "È un passo avanti, ma è pur sempre uno stereotipo. Comunque è interessante vedere finalmente un personaggio che sia UN musulmano, e non IL musulmano". Durante l'intervento, Imad Khan ha evidenziato come, con personaggi come Rashid di Street Fighter V e Shaheen di Tekken 7, il genere dei picchiaduro sia una fucina di stereotipi. Prevedibilmente però, a prendersi la stragrande maggioranza delle critiche è stato il franchise Call of Duty, in cui la regola di base è una: sparare all'arabo. Oltre a porre costantemente gli arabi come nemici da eliminare, la serie di Activision commette una gran quantità di errori d'immagine e linguistici. Molte parole scritte apparentemente in alfabeto arabo contengono errori o, più spesso, non significano nulla, e in un blockbuster da decine di milioni di dollari, non coinvolgere una persona di quella cultura per assicurarsi che quello che si sta facendo sia corretto viene vista come una profonda mancanza di rispetto.

Una corretta preghiera in The Sun Also Rises
Una corretta preghiera in The Sun Also Rises

"Magari investissero nelle ricerche anche solo una piccola parte di quello che investono nella tecnologia...", afferma Ismail. Farah Khalaf vorrebbe invece vedere un gioco sullo stile di This War of Mine e Sunset, che racconta la comunità musulmana composta dai civili che non prendono parte attiva alla guerra, ma che proprio dalla guerra cercano di rifugiarsi: "Il modo in cui i media rappresentano i musulmani finisce per condizionare le persone. Mostrare il conflitto da una parte e dall'altra non fa che enfatizzare la negatività". A dare speranza potrebbero pensarci gli sviluppatori indipendenti, e diversi sono i progetti attualmente in sviluppo che, almeno nelle intenzioni, sembrano voler rappresentare in maniera corretta la comunità musulmana: The Sun Also Rises è un'esperienza multiplayer fortemente introspettiva che affronta il tema della guerra prendendo in considerazione i racconti di cittadini afgani e soldati statunitensi. Dujanah è un'avventura esplorativa che prova a raccontare l'Islam attraverso situazioni astratte e un'ambientazione di fantasia. Infine, Saudi Girls Revolution è un gioco che vede protagoniste otto eroine vestite in abaya (il tipico indumento nero indossato dalle donne musulmane) che sfrecciano in motocicletta in un'ambientazione devastata come quella di Mad Max. In medio oriente sta crescendo anche l'interesse verso lo sviluppo di videogiochi, e il fatto che la sede in Cairo della Global Game Jam sia stata tra le più numerose al mondo dovrebbe essere un indicatore positivo. "La diversità è un grande problema", ha concluso Khalaf, "ma una volta risolto potremmo cominciare davvero a fare giochi con entusiasmo e creatività".