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Facciamolo complicato

Siete giocatori seri, vero? Mica quelli che si sparano la roba arcade per i casualoni, giusto? Benissimo, allora fatevi da parte che ci state asfissiando...

APPROFONDIMENTO di Mattia Ravanelli   —   22/01/2011

"F-Zero? Non è male, l'effetto del tracciato che ruota, poi, ti toglie il fiato. Però, oh, troppo arcade". "Ridge Racer? Mamma mia, un'ira diddio, il tornado di poligoni e texture... certo, molto semplice eh, niente di che, proprio roba da coin-op".

 Ecco, fermatevi qui: fermatevi a "roba da coin-op". Quindi? Quindi niente di male. O meglio: niente di male quindici anni fa, quando ancora i videogiochi, o almeno quelli che in buona parte arrivavano su console, avevano questa controparte tutta lustrini ed eccessi tecnologici che animava scatole di cemento buie e muffose, altrimenti note come sale giochi. I due scambi proposti in apertura non sono, naturalmente, mai avvenuti, o almeno questa è la speranza. L'idea era quella di provare a traslare ai nostri tempi l'avvento di due pezzi da novanta come il gioco di guida futuristico e dopato di Mode-7 di Nintendo e l'estasi targata System-22 di Namco. Allora nessuno li ha tacciati di eccessiva semplicità o linearità: oggi le cose andrebbero diversamente. Vuol dire che stiamo migliorando o ci stiamo solo, invece, complicando la vita?



Usa lo sforzo!

Che un passatempo complesso e (potenzialmente) arzigogolato come i videogiochi possa crescere, irrobustirsi e mettere su chili nel tempo, non solo è auspicabile, ma è anche ovvio e tutto sommato inevitabile. Visto e considerato che non si può sempre e solo continuare a riscaldare una minestra vecchia di anni, qualcosa si deve pur fare per riuscire a convincere la gente a sborsare i soldi.

Facciamolo complicato

Il dubbio (e giuro sul canguro che personalmente lo ritengo tuttora un dubbio, non riesco a prendere posizione a riguardo) è capire se ci si stia "incartando" coscientemente o sia l'unica possibile evoluzione del settore. Per dirla semplice: i giochi sono più complicati. Ma sono più complicati e "profondi" perché devono esserlo o solo perché siamo abituati a nuove riletture della stessa idea, con (però) infilata dentro una combinazione in più di pulsanti, una nuova "abilità speciale" dell'intelligenza artificiale e quell'eterna e inspiegabile necessità di realismo, di simulazione a tutti i costi?

Facciamolo complicato



Tale "Moog", giocatore evidentemente non di primo pelo, così riflette sull'attuale panorama dei videogiochi: "Trovo che oggi i giochi siano troppo simili al lavoro: tutto sforzo, zero ricompense. Per me non è un problema se i giochi sono complicati, fintanto che c'è un premio alla fine. Sinceramente riesco a individuare il cuore pulsante dei giochi, al di là di tutte le meccaniche aggiunte solo per fare quantità, e di solito non ci trovo granché. Bombardare il giocatore con un sacco di schifo extra è un metodo per far sì che chi ha il pad tra le mani non smetta di giocare. Ed evidentemente funziona, dato che è il trend di questi anni" (Fonte).

Simulazione vs divertimento?

Un paio di esempi di natura differente, tra di loro, che però possono aiutare a comprendere di cosa diavolo si stia provando a discutere.
Numero 1) compro FIFA 11, allestisco la mia bella modalità campionato, imposto tutte le seicento opzioni del caso e finalmente sono in campo. Per motivi puramente illustrativi diremo che mi ritrovo a controllare l'Inter (padre, perdonami!), mi si spalanca un bel contropiede e con Eto'o mi presento da solo di fronte al portiere avversario.

Facciamolo complicato

E spedisco la palla a lato del primo palo.

Numero 2) sono un disperato omino di città disperso in una sorta di campagna dell'orrore, nel mezzo di uno di questi pseudo-survival horror à la Alan Wake, corro, sparo, raccolgo munizioni, cerco di capire da dove arrivino i dannati cattivoni e in quei tre casi in croce in cui serve superare un ostacolo devo pure premere il pulsante del salto e/o mettermi lì a ricordarmi qualche sequenza di croce+triangolo+B+Y+Select per allacciarmi le scarpe. Facciamo che mi ammazzate e va bene così?


Sono due conseguenze del videogioco che è diventato sempre più chiuso su se stesso, rivolto a un pubblico che lo conosce. Che lo conosce talmente tanto che o deve continuamente essere sfidato attraverso regole d'ingaggio sempre più esigenti o stordito con una sensazione di sfiancante complessità, per far vedere che è tutto sempre più "grosso", "organico", "sfaccettato"... "vero"!
 Però facciamo così: è più coerente con l'idea di simulazione il fatto che uno strepitoso cecchino come Eto'o sbagli da solo di fronte all'estremo difensore, anche se non ho premuto il pulsante del tiro con il perfetto dosaggio... o è invece più "vero" che Samuel la palla la insacchi lo stesso?


L'autore

Mattia Ravanelli scrive di videogiochi, nel bene e nel male, dal 1996. Ha collaborato con e coordinato svariate realtà editoriali, nel bene e nel male, tra cui: Game Power, Zeta, PlayStation Magazine Ufficiale, Nintendo la Rivista Ufficiale e GamesRadar.it.

Siamo tutti un po' casual

Ancora: è utile che Survival Horror #15, gioco che non fa certo della componente salterina il suo elemento caratteristico, mi disturbi chiedendomi pure di mettermi a superare una staccionata? Pensate a Zelda: Link salta automaticamente, eppure nessuno si sogna di sfrantumare gli zebedei a Eiji Aonuma e al suo team perché il gioco è troppo poco "hardcore" (e, se succede, la sorgente del dramma non è certo il mancato pulsante per il salto). Semplicemente nell'economia di gioco di Zelda non è importante o utile o divertente che al giocatore venga chiesto anche di preoccuparsi del salto.
 Allora perché ci si continua a preoccupare di etichettare i videogiochi come "hardcore" e (oddio, il termine è talmente ignobile che davvero viene l'itterizia anche solo a scriverlo) "casual"? Il gioco hardcore è quello che chiede di fare tutto e il contrario di tutto, di essere i soli padroni del destino che l'eroe su schermo scrive millimetro dopo millimetro. Altrimenti è facile, altrimenti è da casualoni (brividi!).


Ma da quando si è persa la capacità di credere che un videogioco sia, per l'appunto, un videogioco e non debba essere sempre e comunque spiegabile? Sospensione dell'incredulità, si chiama.

Facciamolo complicato

E allora va bene se in uno sparatutto in prima persona voglio che un vetro esploda sotto ai miei colpi (ci mancherebbe altro, quello sì che è una parte della meccanica di gioco), ma perché lamentarsi se in Resident Evil 4 ci sono scene spettacolari gestite con semplicissime sequenze di pulsanti indicate su schermo? Li chiamavamo QTE, Quick Time Event, come gli ormai storici inframmezzi voluti da Yu Suzuki per il suo Shenmue. E sono tuttora il modo migliore per non spezzare il ritmo di un gioco con mille Game Over e nel frattempo portare un po' di spettacolare dinamismo e scoppiettante azione hollywoodiana in un gioco, tanto per dirne una. Sì, anche se non è "realistico".
La questione non è, evidentemente, sconosciuta all'industria, a quelli che i videogiochi li fanno e, tutto sommato, è giusto dire che questa generazione ha fatto qualcosa di importante, con la rinnovata varietà dell'offerta garantita dagli store digitali e dai sistemi di gioco più immediati (o solo più semplici e a volte anche solo più banali) concessi da telecomandi Wii, Kinect e Move. Rimane il pericolo che si creda inevitabile dover semplicemente rendere più ostica la vita del videogiocatore smaliziato per illuderlo che non stia facendo la stessa cosa da vent'anni. D'altronde non sarà mica "sano" un mercato in cui i giochi sportivi capaci di sopravvivere al mercato si contano sulle dita di una mano, uno per ogni disciplina? Se tutti non si gridasse al miracolo ogni volta che Eto'o si dimostra più pippa del sottoscritto, forse le cose non starebbero così.

Bisogna solo capire se ci va bene che stiano così o meno.