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VIDEOLUDICA Vol. 15 - Picchiali! Botte a scorrimento

I picchiaduro a scorrimento dai primordi a oggi: vita, agonia e miracoli di un genere che ha fatto la storia, attraverso i più illustri rappresentanti.

APPROFONDIMENTO di La Redazione   —   15/06/2005
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vol. 15 - PICCHIALI! BOTTE A SCORRIMENTO

I generi nascono e i generi muoiono, e i brawler hanno attraversato una lunga decade di letargo alla quale, peraltro, non sembrano corrispondere veri segnali di ripresa, quanto sporadici tentativi di ritorno sul mercato che sembrano sistematicamente lasciare il tempo che trovano. Le cause di questa estinzione sono molte, e includono certamente i generi direttamente rivali, le trasformazioni delle possibilità del mezzo videoludico di seguito al progresso tecnologico, le tendenze e i tipi di generi e consumatori dominanti, il declino degli ambienti sociali più consoni al consumo di questi giochi (in questo caso, le arcade), le semplici fluttuazioni nei gusti dei giocatori o delle priorità produttive dell’epoca, le più vaste tendenze del mercato e altro ancora. Un elenco completo dei giochi di questo genere (e già sarebbe difficile delimitare sensatamente questo o quel “genere”) sarebbe una vera impresa, e una storia esauriente della sua evoluzione un compito che trascenderebbe questo speciale. Quello che si vuol fare è offrire un semplice “tributo” storico ai picchiaduro a scorrimento: una storia indicativa, semplificata ma sensata, ripercorsa attraverso i rappresentanti del genere più o meni illustri (quasi tutti da sala), ma tutti importanti per la sua definizione e per la comprensione della sua nascita, della sua affermazione, del suo declino.

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I capostipiti: Kung-Fu Master (1984), Renagade (1986)

All’alba della violenza videoludica, il primo esempio compiuto di picchiaduro a scorrimento orizzontale è il preistorico Kung-Fu Master del 1984, di Irem/Data East. Probabilmente il capostipite del genere, Kung-Fu Master evoca per vie traverse una sensazione simile a quella data dagli scacciapensieri, specialmente per quanto riguarda la resistenza e i riflessi, croce e delizia del gioco. Un karateka che procede verso sinistra, armato di pugno e calcio, capace di abbassarsi e saltare anche attaccando, file di nemici che si susseguono a sinistra e a destra, cinque piani di progressiva difficoltà sono una prova di resistenza da guerriero videoludico dei primordi. L’esperienza deve ben poco alla grafica spartana e dagli effetti stereotipati (notevoli per l’epoca), moltissimo invece alla concentrazione richiesta per mantenere alto il livello di riflessi. Poche mosse, file di nemici, molto sangue freddo, Kung Fu Master è ancora oggi una prova ostica. Non ha profondità di campo e pertanto fonda e rientra in un ramo evolutivo che comprende anche Vigilante e che dai veri e propri picchiaduro a scorrimento, dotati di profondità già da Renegade in poi, si sarebbe separato, essiccandosi ancora prima. È infatti Renegade di Technos, del 1986, a essere considerato il vero e proprio prototipo di picchiaduro a scorrimento, il germe creativo che ha ispirato titoli come Double Dragon (un vero e proprio seguito non ufficiale), Double Dragon II (identico il sistema di controllo orientato alla direzione) e Final Fight (vera e propria citazione l’ambientazione metropolitana). Renegade introduce le armi, il gioco in due cooperativo, una varietà di colpi elevata e la profondità di campo, con una certa tendenza al “realismo” del controllo, e pur non essendo abbastanza frenetico da rivelarsi del tutto riuscito è un prodotto dalla complessità ben maggiore del titolo Irem.

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Ci si fa male davvero: Double Dragon (1987)

Seguito non ufficiale di Renegade, Double Dragon di Technos lancia ufficialmente i beat’em up verso l’orbita alla quale aspiravano, sottraendo al suo predecessore la fama di fondatore del genere. Rispetto a Renegade, Double Dragon si dimostra non solo tecnicamente superiore, ma dotato di una pulizia di controllo e di un potere di intrattenimento di gran lunga superiore. La varietà di colpi performabili, generalmente il punto dolente della maggioranza dei futuri titoli del genere, è alta e suggerisce stili di gioco e letture dei combattimenti differenti e personali. L’estetica emana un fascino particolare, con delle suggestioni visive e sonore la cui prova di valore è il fatto di non essere state soppiantate o rese ridicole dall’evoluzione tecnologica: con i suoi personaggi stilizzati e leggermente sproporzionati, con le tinte uniformi e pulite della palette che dona agli occhi dei personaggi uno sguardo fisso nel vuoto, con ambientazioni di crescente inquietudine e una colonna sonora varia e atmosferica, Double Dragon rimane valido anche come opera estetica. È un classico al quale si perdonano facilmente tutti i suoi indubbi difetti, su cui spiccano la brevità, la facilità del gioco adottando un paio di tecniche in ripetizione continua e, viceversa, la frustrazione che deriva dal non adottarle contro nemici altrimenti troppo difficili da sconfiggere. Storico, cinico e spietato il finale, in cui i giocatori combattono per la soave pulzella salvata dai cattivi nonostante una cooperazione durata per tutto il gioco.

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Un'altra scuola: Shinobi (1987), Ninja Gaiden (1987), Bad Dudes (1988)

Accanto al predominio di Double Dragon, il genere prospera di cloni, sperimentazioni e variazioni sul tema spesso molto originali, e perlopiù caratterizzate dall’influenza della lezione a scorrimento di Kung-Fu Master. Shinobi di Sega, del 1987, è uno dei più illustri esponenti di questo genere, ancora fondato sul semplice scorrimento a due dimensioni, privo di profondità ma in questo caso dotato di vari livelli di altezza e di una sviluppata componente platform. Decisamente un capolavoro, con sezioni bonus pregevoli, un controllo perfetto e una grande presentazione visiva, Shinobi non è affatto assimilabile al genere che trova in Renegade il suo capostipite: più tattico che frenetico, più platform e shooter che “di contatto”, rimane uno dei più grandi esponenti di una “scuola” – questa si – totalmente estinta (e che include anche Altered Beast). Nello stesso anno, Ninja Gaiden di Tecmo riscuote un grande successo nelle sale giochi. Suggestivo e spettacolare, Ninja Gaiden è però, probabilmente, abbastanza sopravvalutato: molto ripetitivo, lento nei comandi e a volte impreciso, presenta idee estremamente valide e una vocazione alla spettacolarità che si perdono nella realizzazione del controllo. Diverso il caso di Bad Dudes vs. Dragon Ninja, sempre di Tecmo, che nel 1988 si presenta come una specie di clone di Shinobi, filtrato dall’esperienza di Ninja Gaiden: molto giocabile ma a volte impreciso, è un titolo frenetico che segna la vera e propria estinzione del modello a scorrimento alla Shinobi (canto del cigno: il futuro Shadow Dancer). Tecmo, peraltro, non sogna neppure cosa Sega ha in cantiere per l’anno successivo.

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Il superior-style Sega: Golden Axe (1989), Alien Storm (1990)

Riletture originali del genere e indubbi capolavori, le due gemme di Sega chiudono gli anni ottanta e inaugurano i novanta suggellando il successo del genere e contemporaneamente sfondandolo verso direzioni raramente percorse con eguale finezza. Golden Axe e Alien Storm, l’uno a breve distanza dell’altro, calano il concetto di combattimento a scorrimento (che da qui inizia anche a definirsi hack and slash) negli universi estetici rispettivamente del fantasy e dei b-movies fantascientifico-orrorifici (non a caso per il cinema sono gli anni successivi a Conan il Barbaro e del remake de La Cosa di Christian Nyby ad opera di John Carpenter), e li rendono giocabili con una concezione dello scontro originale, sezioni bonus divergenti dal gioco principale (particolarmente validi i livelli shooter in soggettiva di Alien Storm), idee mutuate da altri generi videoludici. Alla solida struttura di gioco - lievemente ripetitiva, ma rinfrescata dall’uso delle magie in Golden Axe e dalle sezioni speciali di Alien Storm - si unisce così una eccezionale identità estetica che ha reso praticamente inossidabili le armi ludiche di questi due classici.

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La Rivoluzione del dolore: Final Fight (1989)

Lo scettro di Technos, ceduto a Sega, sarebbe passato nelle mani di Capcom con il suo Final Fight del 1989, capace di costruirsi una fama e un posto nella memoria collettiva ancora maggiore di quello di Golden Axe. Final Fight è prodotto da un nome già dietro titoli di eccezionale fattura, ora ibridanti shooter e platform (Ghost’n Goblins e seguito sopra tutti) , ora incredibilmente originali (Forgotten Worlds), ora potenzialmente e successivamente rivoluzionari (Street Fighter) o nettamente avanti sui tempi (Dynasty Wars). Capcom è anche dotata di un supporto tecnologico dalle potenzialità nettamente superiori alla media, sfruttato a fondo per una grande ricerca estetica che è debitrice di stili da action comic e influenze incrociate tra manga e tratto occidentale. Final Fight irrompe nelle sale giochi radicalizzando la lezione di tutti i giochi che lo hanno preceduto verso una direzione precisa: asciuga al massimo le mosse disponibili, e al contempo sfrutta questa iper-semplificazione (calcio, calcio volante, presa, mossa rotante e poco altro) per portare all’estremo la quantità e qualità degli scontri: non più uno alla volta, ma decine di nemici possono essere fronteggiati e picchiati in massa, con una rapidità e una ferocia prima sconosciute al genere. I pestaggi di Final Fight scorrono rapidi, frenetici e iper-affollati, in una caratterizzazione suburbana fatta di metropolitane piene di graffiti, arene clandestine di lotta con energumeni esotici, strade affollate e uffici della mala organizzata: una dimensione figurativa non certo originale, eppure dotata di uno spessore estetico di un livello superiore a titoli come Renegade e alla media dei giochi da sala. La maggiore introduzione nel genere è la differenza sostanziale dei personaggi selezionabili, dotati di caratteristiche interattive diverse quanto basta per fornire profondità maggiore all’esperienza. I seguiti di Final Fight sarebbero comparsi solo su SuperNES, senza neppure sfiorare i pregi dell’originale, recentemente convertito per GameBoy Advance. Final Fight sarà preso di ritorno per PS2, in scintillante (e forse preoccupante) 3D.

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Konami, licenze di successo: Ninja Turtles (1989), Aliens (1989), Moonwalker (1989), Turtles in Time (1991), The Simpsons (1991), Asterix (1992). E Vendetta (1992)

Un grande groove che unisce o alterna a piacere il tratto nipponico e l’occidentale e il multiplayer in quattro giocatori lanciano lo stile Konami dei picchiaduro a scorrimento, fatto di grossissime licenze dell’industria dell’intrattenimento a testimonianza del successo e della popolarità del genere nelle sale giochi. L’estrema semplicità nell’utilizzo (fino alla snervante ripetizione, alleviata dalla qualità della grafica e della sceneggiatura dei livelli) accomunano titoli come Ninja Turtles, Turtles in Time, Asterix e The Simpsons, prodotti da Konami tra il 1989 e il 1992. Vere e proprie versioni giocabili dei fumetti e cartoon di riferimento, e dotati di cabinati a quattro giocatori, i titoli Konami sono lo stato dell’arte del picchiaduro orientato ai giovanissimi. Un esempio a parte è costituito dal singolare Aliens, più shooter che picchia-picchia, disturbante e valido ma un po’ troppo fumettoso rispetto al film; e da Michael Jackson’s Moonwalker, un delirante misto tra shooter e beat’em up (da non confondere con l’omonimo titolo per le console Sega) il cui punto di forza è nell’isometria, scelta del tutto inusuale per il genere. La politica dei brand Konami (simile a quella “di gusto” di Sega e ispiratrice della futura svolta di Capcom) porta il genere verso diverse direzioni, ma la più interessante è proprio quella che non si fonda su alcuna licenza e che produce Vendetta, del 1992. Con uno humour e una caratterizzazione estetica sopra le righe e una grandissima interazione con l’ambiente di gioco, Vendetta ridefinisce il paradigma “tecnico-esecutivo” dei picchiaduro a scorrimento in sala giochi sul piano della varietà e qualità dell’interazione, proprio mentre Streets of Rage di Sega per il suo Megadrive si appresta a diventare il miglior rappresentante in assoluto del genere sul solo mercato delle console.

Capcom crea, Capcom distrugge: Captain Commando (1991), King of Dragons (1991);; Warriors of Fate, Cadillacs and Dinosaurs, Dungeons and Dragons, Aliens VS Predator, Shadow of Mystaria.

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Captain Commando
Captain Commando
King of Dragons
King of Dragons
Cadillacs and Dinosaurs
Cadillacs and Dinosaurs

[/C] Sulla scia della svolta stilistica di Sega e della politica di grandi licenze di Konami, e ancora inebriata dal successo di Final Fight, Capcom cala la meccanica di gioco del suo picchiaduro di successo in una vasta serie di universi estetici, che spaziano dal fumetto fantascientifico al romanzo fantasy, dal grand-guignol dei samurai medievali al crossover di Alien e Predator. I primi esempi sono il fantastico Captain Commando, dotato di una esaltante realizzazione grafica e di una serie di soluzioni assolutamente originali, e King of Dragons, che inaugura l’implementazione di un modello di miglioramento in stile gioco-di-ruolo per i personaggi del picchiaduro. Ma se da una mano Capcom dispensa manna agli amanti del genere, con l’altra infligge involontariamente il colpo di mannaia che decapita l’intera scuola a scorrimento. Street Fighter 2 esce sul mercato e lo rivoluziona, creando un’isteria della critica e del pubblico che sfonda la cerchia degli appassionati e diventando uno dei più grandi casi videoludici di tutti i tempi. Con la sua concezione tecnica e complessa dello scontro, trasferito tra due opponenti e divenuto non più cooperativo ma oppositivo, eclissa e rende obsoleto il grado di complessità dei brawler orizzontali, che perdono in appeal per il pubblico. Mentre infuria la tempesta Street Fighter 2, il genere a scorrimento inizia la sua lenta agonia commerciale. Giochi di elevatissima fattura di genere a scorrimento continuano a essere prodotti da Capcom, ma rivelano la propria irrilevanza commerciale nei confronti dello schiacciante appeal di Street Fighter 2. Warriors of Fate e soprattutto Shadow of Mystaria testimoniano il grado di complessità raggiunto dall’ibrido tra il genere a scorrimento e gli RPG, mentre Cadillacs and Dinosaurs e Aliens VS Predator sono alcuni degli esempi stilisticamente più interessanti di conversione in videogioco dello spirito estetico dei fumetti americani: esaurite queste spinte, però, il genere tende inesorabilmente alla stagnazione e all’estinzione commerciale.

Polygons killed the beat'em up stars

Generi nascono, generi muoiono. Le cause sono molte, e includono generi rivali, cambiamenti tecnologici, tendenze del mercato, declino dell’ambiente più consono al consumo di questi giochi, semplici “dimenticanze” generalizzate o più vaste tendenze di gusto del mercato. I picchiaduro one-on-one, ben rappresentati da Street Fighter II, entro il 1994 hanno del tutto sostituito i brawler come giochi più richiesti dai gestori delle sale, dirottando verso di loro le code di ragazzini con le tasche piene di gettoni a tutto svantaggio di Final Fight e soci. Giochi come Final Fight iniziano improvvisamente ad apparire ripetitivi e seriali, stancanti oltre la soglia del finale, privi di longevità e fattore di sfida a lungo termine nei confronti del concetto di sfida tra umani che Street Fighter incarna e consente a un livello superiore. Il secondo e il terzo colpo letale inflitti dalla storia al dinosauro a scorrimento in estinzione, subito dopo l’avvento di Street Fighter 2, sono però eventi come l’avvento dei poligoni e delle console da casa a 32 e 64bit e il declino –in parte conseguenza diretta delle prime - delle sale giochi.

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Polygons killed the beat'em up stars

Questi mutamenti dell’industria sono i principali motivi per la quasi totale estinzione del genere. Dopo l’esperienza pionieristica di Virtua Figher di Sega, anche i picchiaduro a due dimensioni sono messi in pericolo da quelli a rappresentazione poligonale. Giochi come Virtua Fighter 2 e soprattutto la serie di Tekken di Namco rivoluzionano i beat’em up nella seconda metà degli anni novanta, e le loro conversioni per console potenti e capaci di rappresentarli nei propri salotti riducono il gap tradizionalmente enorme tra potenzialità del gioco in sala e in casa, determinando – insieme con altri e complessi fattori - il declino delle arcade. In questa nuova situazione, in questa frattura epocale nella rappresentazione videoludica, i brawler 2D non sembrano solo obsoleti, ma sono deprivati del loro naturale ambiente di fruizione. Tracciare una storia dei picchiaduro a scorrimento diventa, da questo momento in poi, decisamente difficile. L’unico esempio di riproposizione fedele del genere secondo la specie delle possibilità dei poligoni arriva da Sega, che con SpikeOut del 1997 (con un seguito per X-box nel 2005) fornisce un’ottima rilettura del genere, forse l’ultima dotata di un senso. Un tentativo di rinascita della dimensione più caotica e frenetica del brawler è il mediocre State of Emergency, che del genere eredita ed esaspera solo la più totale, esasperante tendenza al caos e all’accumulo di nemici, senza offrire uno spessore di interazione interessante oltre alla suggestione politicamente scorretta della lotta al sistema. Altre volte la lezione del genere e la sua tradizione in termini di game design non si incarna più in un genere preciso ma si spezzetta in molteplici direzioni, al servizio di idee radicalmente diverse. È questo il caso di Viewtiful Joe di Capcom per GameCube, che del brawler, nel 2003, recupera solo i colpi, la vocazione fumettistica e la connivenza con i linguaggi del mezzo su carta, ibridandolo con il platform e corredandolo con un impatto visivo ed effettistico che riempie ed esorbita lo schermo, e si unisce a una sperimentazione sul tempo del gioco destinata a lasciare un segno nella storia. L’eredità dei picchiaduro a scorrimento è evidente (dopotutto si parla di Capcom), ma è chiaro che dello stesso genere non si può più parlare.

Il futuro delle botte a scorrimento

D’altro canto, i picchiaduro a scorrimento stanno conoscendo un contenuto momento di revival. Il lancio di una console portatile come il GameBoy Advance, ancora eccellente nella sola rappresentazione bidimensionale, ha determinato una mediazione commerciale tra il mercato odierno e un genere d’altri tempi, e questa bolla del tempo ha potuto risvegliare un certo interesse nei produttori. Con i remake di Final Fight, Double Dragon e Guardian Heroes, per non parlare di molti altri titoli imparentati a questo stile di gioco e del più generale ritorno a una produzione bitmap, il portatile nintendo ha risvegliato un interesse sopito e, recentemente, il genere sembra essere tornato nell’agenda dei produttori. Tuttavia, nella sua versione moderna l’eredità del picchiaduro a scorrimento non riesce a tradursi interamente, e preferisce dirottare sull’hack and slash. Nei remake di Ninja Gaiden e Shinobi, che pure erano giochi in un certo senso fuori dai generi e diversissimi da Final Fight, la gran parte dell’eredità degli originali sembra perduta. E anche Gekido: Urban Fighters di Interplay, del 2002, si promette come picchiaduro a scorrimento dell’era poligonale, ma si sbilancia presto su elementi hack and slash e da shooter. Le botte a scorrimento vecchio-stile sembrano, insomma, difficilmente convertibili con successo nella terza dimensione, proprio mentre il genere hack ‘n slash riscopre il ritmo del vecchio arcade con l’eclatante God of War.

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Il futuro delle botte a scorrimento

A questo punto, ha una certa rilevanza la decisione di Capcom di ritornare a cimentarsi sul genere, recuperando la licenza di Final Fight per trasformarla nella terza dimensione: il progetto dovrebbe vedere la luce tra poco su Playstation2, ed è certamente importante per il futuro eventuale dei picchiaduro in stile brawler. Il ritorno a un modello di gioco abbandonato da parte di un produttore potente che ha pure contribuito a creare, dopo anni in cui la compagnia è sopravvissuta indenne a molti dei suoi defunti concorrenti ai tempi di Final Fight, ha il sapore di un anello storico che si chiude. Resta da vedere se il genere riuscirà ad uscirne verso nuove direzioni o se ne rimarrà inevitabilmente strangolato.

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Sega, il trionfo su console: Streets of Rage 1, 2 e 3 (1991, 1992, 1994)

Streets of Rage per Megadrive, prodotto da Sega nel 1991, era un picchiaduro interessante per gli spunti originali sulle mosse eseguibili, per il controllo accurato, per la cura nella realizzazione dei personaggi (con una combattente femminile di estremo… carisma). Sega non è però contenta: Final Fight è uscito solo per il Super Famicom di Nintendo, con un seguito in lavorazione, e il suo Megadrive ha bisogno di un concorrente commerciale per mantenere alta la richiesta da parte dei ragazzini che stanno preferendo Sonic a Mario. Streets of Rage, convertito nel frattempo anche per Game Gear, viene ripreso da zero, e le sue idee trasportate su una piattaforma operativa di ben altro calibro. Streets of Rage 2, alla sua uscita, porta alla perfezione tutti gli aspetti del primo esperimento, diventando sicuramente il miglior esponente del genere su qualsiasi console, e senza dubbio uno dei migliori picchiaduro a scorrimento di tutti i tempi. La complessità raggiunge un livello perfetto senza andare a detrimento della semplicità. La quantità dell’aggressione videoludica (anche qui masse e masse di nemici) si commisura solo alla qualità della sfida fornita dalla CPU e alla varietà di ambientazioni e nemici prodotti. La caratterizzazione estetica e musicale, con le musiche di Yuzo Koshiro, dona al gioco una distinta personalità. Soprattutto, Streets of Rage è un gioco intuitivo ma tecnico, che nelle mani di giocatori smaliziati rivela tutta la sua complessità e spettacolarità. Tutto ha un livello nettamente superiore al rivale commerciale Final Fight 2, prodotto da Capcom per SuperNES. Il seguito, Streets of Rage 3, avrebbe smarrito il livello di bilanciamento tra le varie componenti del suo predecessore, rimanendo un ottimo picchiaduro capace di offrire una velocità più sostenuta all’azione (unico punto criticabile di Streets of Rage 2). La lotta dei beat’em up a scorrimento, mentre incombe la rivoluzione-Street Fighter 2, si trasferisce quindi dalle sale giochi alle console a sedici bit, con titoli come Sonic Blastman, Final Fight 3, Turtles in Time e altri che prosperano sulla console Nintendo rivaleggiando con la serie di Sega.


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In questo numero: VIDEOLUDICA vol. 15 - Picchiali! Botte a Scorrimento. Un genere scomparso per un'era videoludica destinata forse a non ripetersi. Videoludica vi porta indietro nel tempo in un viaggio alla scoperta dei picchiaduro a scorrimento: tra sale giochi fumose, console a grafica bitmap e milioni di gettoni inseriti negli slot...

vol. 15 - PICCHIALI! BOTTE A SCORRIMENTO

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I cosiddetti picchiaduro a scorrimento sono un genere videoludico in fortissimo declino, del tutto dimenticato nel corso dell’ultima decade. Double Dragon, Final Fight, Streets of Rage e soci sono serie praticamente da museo, così lontane dal gusto del giocatore medio di oggi e delle agende dei produttori di giochi elettronici da essersi trasformati in fossili ludici per pochi appassionati non vincolati alla solo consumo di contemporaneità. Diffusi e affermati specialmente tra la seconda metà degli anni ottanta e l’inizio dei novanta, i brawler si sono estinti sul finire del secolo con una rapida parabola discendente. Genere di resistenza, spesso fortemente ripetitivo - ma in cui la ripetitività, se bene implementata come meccanismo, riusciva a rendersi uno strano fattore di eccellenza al servizio del divertimento – quello del beat'em up a scorrimento prende generalmente la forma di un assalto reiterato, pervicace e generalmente cooperativo (uno, due o più giocatori insieme) a schiere, masse, ondate di nemici, da affrontare con un arsenale generalmente molto contenuto di colpi a disposizione. Lo schermo scorre, il personaggio viene guidato, i cattivi vengono pestati ed eliminati uno ad uno, gerarchicamente, con una struttura che a ogni sezione prevede una soglia di difficoltà che si incarna nel famigerato “boss di fine livello”. Una volta questi percorsi guidati di rissa continuata si chiamavano semplicemente beat’em up, un termine della stampa inglese la cui traduzione letterale suona più o meno come “picchiali”, trasformato da parte della critica videoludica italiana degli anni ottanta e novanta in picchiaduro o picchia-picchia. Beat’em up, oggi, è però un termine-ombrello che copre tipi diversi di meccaniche ludiche improntate al pestaggio. Di beat’em up ne esistono sottogeneri svariati, mutazioni e incroci; inoltre, sotto la pressione dei picchiaduro a incontri, appartenenti a un genus ancora dominante nella categoria e veri e propri killer storici di quelli a scorrimento, questi ultimi hanno dovuto spostarsi su un termine specifico come scrolling beat’em up o, più semplicemente brawlers: letteralmente, e con una traduzione un po’ irriverente, “rissaioli”.