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Il bello della Game Developers Conference

Una delle conferenze più interessanti di tutta la GDC. Un po' lezione di vita e un po' viaggio delle meraviglie

SPECIALE di Antonio Jodice   —   14/03/2012

La GDC, se si ha molta fortuna nello scegliere le conferenze a cui assistere, può diventare una sorta di mega concerto Rock, una specie di Gods of Metal, dove, al posto di Metallica, Megadeth e Iron Maden, ti trovi alcuni dei personaggi più importanti della storia dei videogiochi a parlare da un palco. In queste occasioni, ci si sente un po' felici anche perché ci si rende conto che c'è un motivo per cui queste persone sono riuscite a realizzare i loro obiettivi personali e professionali, motivo che spesso coincide con la capacità di dire cose interessanti, in grado di catturare l'attenzione di una platea per un'ora. In questo caso, ci siamo imbattuti in Will Wright (The Sims, Spore), Sid Meier (Civilization, Pirates, Railroad Tycoon), John Romero (Castle of Wolfenstein 3d, Doom, Quake) e Cliff Bleszinsky (Gears of War) che parlavano dei giochi che hanno segnato la loro esistenza e che li hanno resi ciò che sono. Normalmente, ci saremmo aspettati una lista di giochi strampalati, in una gara un po' snob a chi pescava il titolo più sconosciuto, invece, ognuna di queste persone è riuscita a guardarsi indietro e a capire da dove sono nate alcune delle idee alla base del loro successo.

Will Wright

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Will Wright aveva l'aria di divertirsi, anche perché, a quanto ha detto, l'invito a salire su quel palco gli è arrivato all'ultimo secondo. Parlava velocemente, quasi a voler togliere il disturbo il più in fretta possibile, saltando d'un lampo attraverso una serie di giochi che, se non diranno niente a molti di voi, con una piccola ricerca su Wikipedia, potranno aprirvi un po' di finestre sulla storia. Così, ha menzionato FS1 Flight Simulator su Apple II (ebbene sì, c'è stato un tempo in cui i computer Apple avrebbero potuto prendere la stessa strada dei PC per giocare), con grafica interamente vettoriale; Choplifter, in cui, una volta tanto, invece di sparare a qualcuno, bisognava salvare le persone raccogliendole con un elicottero; Sundog, sempre su Apple II, descritto come un antenato di Grand Theft Auto, di fronte allo sguardo perplesso di tutta la platea. Non tanto perché non fosse d'accordo, quanto perché, davvero, quasi nessuno se lo ricordava, il gioco in questione. Il titolo che, però, ha segnato il creatore di The Sims è Pinball Construction Set, un gioco in cui, avendo a disposizione un set di elementi predefiniti (dai respingenti,

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alle pale, fino ai funghi), bisognava costruire il proprio flipper personale, definendo anche le leggi della gravità, e giocarci, con un'interfaccia utente semplice e intuitiva, oltre che ben fatta. Chi scrive, a suo tempo, ha giocato per decine d'ore al gioco in questione, avendolo poi sepolto sotto una marea d'altri titoli e d'anni. Per Wright, invece, l'idea di creare titoli in grado di spingere il giocatore ad essere creative, a determinare le regole e a gestire il proprio mondo di gioco non è mai svanita ed è quella che, un giorno, gli ha fatto pensare a The Sims.

Sid Meier

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Il buon Sid, piuttosto che una carrellata con un epilogo scoppiettante, ha voluto rendere omaggio a un amico, Dan Bunten, noto per M.U.L.E. e per aver detto molte cose importanti nella genesi dei giochi multiplayer, anche online, e prima che fosse realmente necessario. Oltre a questo, però, Bunten, programmò Seven cities of Gold nel 1984 e, nella memoria di Meier, è da qui che arrivano la maggior parte delle idee che son finite in Civilization e Pirates. Un gioco enorme, per gli 8 bit su cui girava, che dal 1492 al 1540 dava al giocatore la possibilità di partire dalla Spagna, parlare col Re e farsi mandare a scoprire il nuovo continente, da colonizzare, combattendo anche con gli indigeni. Grafica rudimentale, funzionale o, secondo gli standard attuali, semplicemente, inguardabile. Però, funzionava. Quando si incontravano gli indigeni, fatti di pochi scarni pixel, sul joystick si poteva premere un solo pulsante, il protagonista alzava le braccia e su schermo apparivano tre parole "Impress The Natives", fai impressione agli indigeni. E questi indietreggiavano. Ora abbiamo migliaia di volte quella potenza di calcolo, schede grafiche incredibili, ma Meier si domanda se qualcuno riesca ancora a rendere quel senso di meraviglia che quelle tre semplici parole erano in grado di scatenare nel giocatore, che si immaginava combattimenti e interazioni con i selvaggi che, su schermo, non venivano neanche rappresentate. L'immaginazione è il tool più potente a disposizione dei game designer e giochi come CIvilization e Railroad Tycoon vengono proprio da lì. Come le mappe random di Seven Cities of Gold, cosa che garantiva una rigiocabilità infinita e che Meier annotò mentalmente per riutilizzarla a sua volta per tanti dei giochi Firaxis. Il titolo di Dan Bunten aveva anche il primo Open World,

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una terra vasta da esplorare e che si portava dietro sensazioni finite in Pirates e persino in Grand Theft Auto. Meier ha chiuso il suo affettuoso ricordo di Bunten e di quei tempi, facendo spuntare una foto in bianco e nero che ritraeva lui e gli altri designer dei tempi di EA, in bianco e nero come fossero rockstar. Un'operazione di marketing, il primo tentativo di sdoganare i videogiochi come qualcosa di cool, di figo. Quasi per convincere più loro stessi, che non la gente, d'essere delle rockstar, quando, invece, erano dei geek incalliti. Prima di lasciare il microfono, Meier s'è girato verso Romero, seduto lì accanto, e ha chiuso con un "Qualcuno poi c'è riuscito davvero a far passare i game designer per delle rockstar... essendo semplicemente sé stesso".
Ps. Vi invitiamo, già che ci siete, a leggervi la biografia di Dan Bunten su Wikipedia

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Cliff Bleszinsky

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Cliff Bleszinsky, quando parla, sembra uno dei lancer dei Gears of War, lo fa a raffica, quasi senza prendere fiato. Qui se l'è preso qualche istante per rifiatare, emozionato per essere stato chiamato sul palco insieme a quelle che per lui sono state leggende per tutta l'adolescenza. Cliff è nato a Boston, nel New England, ricordato con una serie di foto di prati verdi, cimiteri antichi, palazzi neoclassici e distese di foglie autunnali. Era un ragazzino strano, che passava le giornate a catturare rane, serpenti e tartarughe, che si avventurava nei boschi alla ricerca di tesori immaginari. Era un fan boy Nintendo. Non dimenticherà mai quando ha trovato il primo mattoncino invisibile in Super Mario, saltando, e raccogliendo monete nascoste. Nei videogiochi ci sono segreti... cose nascoste da scoprire e questo gli ha cambiato la vita. Poi è arrivato un gioco accompagnato da una cartuccia tutta dorata, Zelda. È arrivata anche la prima lezione di marketing, perché un gioco con una confezione così preziosa doveva essere per forza imperdibile.

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Poi c'era il manuale, con dei disegni che l'hanno segnato per sempre e che ancora riguarda di tanto in tanto. E poi c'era pure il gioco con i suoi misteri, segreti , prati e foreste da esplorare, che permetteva, in pratica, di fare davanti a un televisore quelle cose che aveva fatto per tutta l'infanzia in giro per le campagne di Boston. Lì, probabilmente, ha deciso di fare il game designer, grazie a una serie di sensazioni che solo Skyrim, di recente, gli ha fatto provare dopo anni e ci ha passato ore e nottate. E abbiamo la sensazione che non sia il solo...

John Romero

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Romero è un mito. Non solo per quel che ha fatto coi videogiochi, ma proprio per quello che aveva detto Sid Meier poco prima. Uno che ha dimostrato che, se non sai cantare, la rockstar la puoi fare lo stesso inventandoti qualcos'altro. È salito sul palco per fare la prima conferenza mai fatta con slide in partenza da un iPhone, visto che l'iPad s'era incastrato nell'aggiornamento del sistema operativo. Dove voleva andare a parare con il suo intervento? Nessuna anticipazione, tanto ci avrebbe fregato comunque, a suo dire.
Il suo viaggio è iniziato coi Flipper, inventati negli anni '30. Lui li ha conosciuti nei '70 e ci ha passato decine d'ore in sale buie con tintinnii,

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luci intermittenti e fumo di sigaretta. Negli anni '70 i Flipper erano ovunque, dai dischi dei gruppi rock (The Who, Pinball Wizard) ai film. Nel frattempo era arrivato Speedway, nel '69, una macchinina rigagliata su una gelatina colorata che correva lungo una strada nera, illuminata da un proiettore posto dietro la pellicola con l'asfalto che scorreva. Nel '72, Dune Buggy, un disco circolare in rilievo che girava e sul quale bisognava spostare un'altra macchinina, evitando gli ostacoli fisici. Un plastico interattivo e un altro gioco elettromeccanico (tenta la definizione Romero), come i Flipper. Tutti spazzati via dai videogiochi con Pong nel 1972. Poi Space Invaders e tutti gli altri famosissimi, da Galaga a Gyruss e Missile Command... un gran sparare agli alieni in mille salse diverse.
1980, Pac-Man e Romero è rimasto folgorato, anche se non ricorda dov'era la prima volta che l'ha visto. Per la prima volta si giocava senza sparare agli alieni e senza guidare una macchinina. I fantasmi avevano ognuno una loro personalità, programmata da Toru Iwatani con immensa fatica, e avevano un nome e un colore diversi. Era il primo vero videogioco a colori. Era il primo gioco con le cut scene, le scene d'intermezzo, quelle che, ogni tot di livelli ripuliti, vedevano Pac-Man e i fantasmini attraversare lo schermo. C'erano i bonus, la frutta da acchiappare e i punteggi su schermo quando li raccoglievi. Non c'era mai stato niente di simile prima d'allora ed era la prima volta che Romero capì che col game design potevi fare qualsiasi cosa, bastava "vederla". In un anno e mezzo, un miliardo di dollari d'incassi in quarti di dollaro, una cifra che, se ricalcolata tenendo conto dell'inflazione, varrebbe 2.4 miliardi di dollari d'oggi. Nel 1982, dopo due anni, 7 miliardi di gettoni erano stati inseriti nei cabinati di Pac-Man e c'erano più di 30 milioni di giocatori solo negli Stati Uniti. Nel 1999, Pac-Man era il gioco ad aver fatturato, al lordo, più di tutti gli altri nella storia dei videogame. È stato il primo titolo ad avere una vera e propria mascot, ha segnato l'esordio dei giochi a labirinto, ha fatto giocare per primo anche le ragazze (bella forza, per la prima volta non bisognava né guidare macchinine, né sparare), inventandosi anche la prima mascot femminile

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(Ms. Pac-Man), i power up, le cut scene, come detto, e pure il genere stealth. Visto che, sostanzialmente, dai fantasmi bisognava sempre scappare. È stato anche il primo gioco a dare vita i traffici di licenze oggi famosissimi, visto che in USA era uscito su licenza di Namco Bandai e non per mano della stessa software house. E dice Romero, volete sapere alla fine cos'è Doom? Un labirinto coi demoni al posto dei fantasmi e le armi al posto delle pillole energetiche per farli fuori, come Pac-Man. V'ha fregato Romero? A noi, sì... anche perché, a ripensarci, mica l'avevamo mai viste tutte queste cose in quel gioco. Romero sì, e questo ha fatto la differenza, a conti fatti.