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Pokémon History: Gotta catch'em all! - Part One

Per festeggiare l'uscita italiana della prima versione a 32bit di Pokémon, Multiplayer vi propone una guida al mondo dei simpatici mostriciattoli made in Nintendo, dalla loro nascita, attraverso la loro storia, e con uno sguardo al loro futuro. Nella prima parte, un excursus dalle origini fino alle versioni per Nintendo64 e al Card Game.

APPROFONDIMENTO di La Redazione   —   22/07/2003
Pokémon History: Gotta catch'em all! - Part One
Pokémon History: Gotta catch'em all! - Part One

Ma se il concept di Pokémon in se era semplice e intuitivo, disarmante nella sua linearità, Nintendo aveva altri piani a dir poco diabolici. Alcuni vedono nella genesi di Pokémon l'inizio della discesa di Nintendo nel baratro del merchandising puro, dopo anni di idee originali e rivoluzionarie; altri spiegano quest'inversione di tendenza della grande N come l'adeguamento a un mercato sempre più commerciale e spietato. Fattostà che Nintendo commercializzò in Giappone Pokémon per Game Boy, nel 1996, in tre versioni: Pokémon Red, Pokémon Blue e Pokémon Green. Sostanzialmente, la differenza dei colori (che interessavano perfino la cartuccia, così come Donkey Kong Land era giallo-banana e come prima ancora, ai tempi del NES, The Legend of Zelda e The Legend of Zelda 2: Adventures of Link erano dorate) era legata ai tre Pokémon tra i quali il giocatore avrebbe scelto, all'inizio dell'avventura, quello di partenza: un Pokémon del fuoco, uno dell'acqua e uno d'erba. Ma la vera differenza non era questa... quanto il fatto che alcuni Pokémon collezionabili in una cartuccia erano assenti in un'altra e viceversa: in sostanza, giocando da soli era impossibile collezionare tutti i Pokémon, ed era necessario pertanto scambiarli con altri giocatori dotati di una cartuccia diversa tramite il cavo link per completare il cosiddetto PokéDex, una sorta di agendina, all'interno del gioco, che segnalava il numero di Pokémon in possesso e la loro identità.
Era ovvio che Nintendo puntava su due fattori particolarmente commerciali: il primo era che il Game Boy era la console più diffusa del mondo e la più popolare in Giappone; il secondo, invece, riguardava la mentalità nipponica: se un prodotto è pesantemente reclamizzato, i Giapponesi non se lo fanno sfuggire, sopratutto se è legato alle mode del momento (come si diceva, Magic e Tamagotchi), e inoltre i giapponesi tendono ad imitare i propri coetanei, per cui era probabilisticamente certo che il fenomeno Pokémon si sarebbe diffuso a macchia d'olio. Ma Nintendo sbagliò le sue previsioni, perché non solo i bambini furono contagiati da questa nuova mania... ma perfino gli adulti. Sbagliò le previsioni in bene, ovviamente.

PokéDex


001 Bulbasaur

002 Ivysaur

003 Venusaur

004 Charmander

005 Charmeleon

006 Charizard

007 Squirtle

008 Wartortle

009 Blastoise

010 Caterpie

011 Metapod

012 Butterfree

013 Weedle

014 Kakuna

015 Beedrill

016 Pidgey

017 Pidgeotto

018 Pidgeot

019 Ratatta

020 Raticate

021 Spearow

022 Fearow

023 Ekans

024 Arbok

025 Pikachu

026 Raichu

027 Sandshrew

028 Sandslash

029 Nidoran (femmina)

030 Nidorina

031 Nidoqueen

032 Nidoran (maschio)

033 Nidorino

034 Nidoking

035 Clefairy

036 Clefable

037 Vulpix

038 Ninetales

039 Jigglypuff

040 Wigglytuff

041 Zubat

042 Golbat

043 Oddish

044 Gloom

045 Vileplume

046 Paras

047 Parasect

048 Venonat

049 Venomoth

050 Diglett

051 Dugtrio

052 Meowth

053 Persian

054 Psyduck

055 Golduck

056 Mankey

057 Primeape

058 Growlithe

059 Arcanine

060 Poliwag

061 Poliwhirl

062 Poliwrath

063 Abra

064 Kadabra

065 Alakazam

066 Machop

067 Machoke

068 Machamp

069 Bellsprout

070 Weepinbell

071 Victreebel

072 Tentacool

073 Tentacruel

074 Geodude

075 Graveler

076 Golem

[continua a pagina 4]

Red, Blue & Green

Dunque, siamo nel 1996 e Nintendo lancia finalmente Pokémon sul mercato. I giocatori giapponesi trovano sugli scaffali ben tre versioni dello stesso gioco: Pokémon Red, Pokémon Blue e Pokémon Green. Ogni cartuccia da 2mega è dello stesso colore del titolo, e sulle confezioni appaiono rispettivamente i pokémon Lizardon, Kamex e Fushigibana. Dapprima, le vendite non vanno così bene: i giapponesi non sembrano affezionarsi dei mostriciattoli tascabili e sono solo in pochi quelli che decidono di avventurarsi nel mondo portatile di Nintendo. Così, viene prodotta una serie animata in grado di spingere i telespettatori a comprare il videogioco (e della quale parleremo in seguito).
L'anime fa immediatamente breccia nel cuore dei grandi e piccini, e in meno di una settimana le vendite delle tre versioni di Pokémon salgono alle stelle, anche grazie a una campagna di marketing eccellente. Era anni che Nintendo non metteva a segno un colpo del genere, e il progetto Pokémon era diventato in breve ben più di un'intuizione: era diventato un'ancora di salvezza.
Alcuni vedono in Pokémon la soluzione miracolosa ai problemi finanziari che avevano colpito Nintendo in quel periodo. I maliziosi, sostengono che se Iwajiri non avesse inventato i mostriciattoli tascabili, ora la situazione sul mercato videoludico sarebbe stata leggermente diversa. Vero o no, i fatti andarono proprio in questo modo: Pokémon era il gioco più venduto degli ultimi cinque anni.

E non era la qualità tecnica che catturava il giocatore.
Intendiamoci, anche per quell'anno la grafica di Pokémon era decisamente spartana. The Legend of Zelda: Link's Adventure, la prima avventura del piccolo kokiri uscita pochi anni prima, era decisamente superiore a Pokémon sotto ogni aspetto tecnico.
Quello che rendeva Pokémon un gioco "speciale", aldilà del concept originale e per certi versi rivoluzionario, era il senso di libertà, la sensazione tangibile di trovarsi lì e di poter esplorare quel micromondo in lungo e in largo.
E poi, era quasi impossibile resistere all'accattivante design dei Pokémon... ben presto il giocatore tendeva automaticamente a stabilire con i suoi mostriciattoli preferiti un rapporto davvero particolare, quasi di affezione. Del resto, anche la trama era praticamente inesistente: il giocatore impersona un Trainer, e l'obiettivo del gioco è sconfiggere otto Capipalestra sparsi per il mondo per poi affrontare la battaglia finale contro i più forti allenatori del continente. Il tutto cercando di sventare i piani criminosi del Team Rocket.
Le differenze fra le tre versioni, come si è accennato prima, erano del tutto marginali. Per esempio, nella versione Blue era possibile catturare Nyasoo, ma nella versione Red no, e questo precludeva ai possessori della cartuccia rossa anche il possesso di Persian, la sua evoluzione; casi del genere si ripetevano più volte in ogni versione, e alla fine Pokémon si era trasformato anche in un gioco socializzante: vennero perfino istituiti dei club dove i giocatori potevano scambiarsi i pokémon e farli lottare contro quelli degli altri allenatori.
Per i bambini, nel 1997, il Pokémon Trainer era uno status-symbol. E in televisione, nel frattempo, Satoshi dava la caccia ai Pokémon insieme ai suoi amici, e Pikachu, il topo elettrico star dell'anime, era diventato la mascotte ufficiale della serie.

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Red, Blue & Green

Ma dopo un anno, il temporalesco fenomeno non tendeva minimamente a placarsi. Nintendo aveva visto giusto, la moda dei Pokémon non sarebbe stata una mania come un'altra, ormai aveva inciso troppo profondamente sul mercato videoludico, su quello televisivo (nonchè su quello cartaceo: riviste e manga fioccavano da tutte le parti) e sopratutto sulla società. Le vendite di Pokémon erano costantemente alle stelle, sopratutto per le versioni Blue e Red (la Green inspiegabilmente era la meno venduta, si ipotizza per il character design meno convincente del Pokémon sulla scatola).
Inoltre, su quel mondo straordinario cominciavano a costruirsi leggende e miti.
Era vero che i Pokémon non erano 150... ma 151? E dov'era il Pokémon segreto?
Come si poteva catturare l'inafferrabile Mewtwo? E cosa diavolo era quel pokémon chiamato MissingN0 che i cheater erano in grado di catturare tramite l'uso dei codici Action Replay? Quali misteri celava, ancora, quell'incredibile gioco così povero tecnicamente e dal concept semplice e infantile?
Nintendo tesse una ragnatela di misteri sempre più fitta, centellinando a poco a poco soluzioni e spiegazioni.
Il centocinquantunesimo Pokémon esisteva per davvero. Volevate Mew? Allora, dovevate presentarvi con il PokéDex completo di tutti i 150 pokémon in appositi negozi specializzati dove gli addetti ai lavori avrebbero caricato sul salvataggio della cartuccia il tenero gattino psichico. E l'inafferrabile Mewtwo, invece, poteva essere catturato con l'unica Masterball presente nel gioco. MissingN0, invece, rimaneva un mistero.

Ma ancora siamo agli inizi. Il bello deve ancora venire.
Ovviamente, una mania del genere poteva essere estesa al di fuori del Giappone... diciamo che il primo obbiettivo estero per Nintendo era l'America. Pokémon colpì gli States come una vera e propria bomba. Il gioco uscì a ridosso del 1998 (quasi due anni dopo il lancio giapponese) e fu subito un caos.
Nintendo aveva rielaborato i piani di distribuzione del progetto Pokémon, cosicchè per motivi di marketing che risultano a noi ancora ignoti, in Occidente le versioni di Pokémon disponibili furono solo due: Pokémon Red e Pokémon Blue.
Inoltre, Nintendo aveva cambiato i nomi della stragrande maggioranza di Pokémon, personaggi e locazioni, americaneggiandoli e adattandoli il più possibile alla cultura yankee.
In Giappone vennero prodotti migliaia di gadget diversi ispirati ai Pokémon, e in America il fenomeno si estese e divenne quasi autonomo ancora più velocemente. Ormai i Pokémon erano ovunque, Pikachu era diventato il testimonial dell'americanissima McDonald's e la serie animata era entrata immediatamente in fase di doppiaggio, per essere subito trasmessa e distribuita da Warner Bros.

I giochi erano fatti. Una volta invasa l'America con risultati più che positivi, sarebbe stato il momento dell'Europa. Nintendo aveva il monopolio, il GameBoy dopo aver schiacciato il GameGear di Sega (più potente e a colori, ma molto più ingombrante e dispendioso in quanto a batterie) adesso si preparava a sconfiggere le ultime due rivali portatili rimaste: il WonderSwan di Bandai e il NeoGeo Pocket di SNK, entrambe decisamente superiori in quanto a performance tecniche al handheld Nintendo. Ma Nintendo avrebbe dovuto fronteggiare l'accanita resistenza della concorrenza: dato vita a un'idea, è una spietata regola del mercato che a questa si attinga in un modo o nell'altro, generando i fantomatici "cloni".
Insomma, quando Nintendo lanciava Pokémon in Europa con quasi tre anni di ritardo rispetto alla versione giapponese, Bandai rispondeva al fuoco con i Digimon e Tecmo preparava il campo al suo Monster Rancher. E nel frattempo, in decine di giochi di ogni tipo (specialmente JRPG), fioccavano minigame e sezioni in cui, guardacaso, era possibile catturare e allevare delle creature più o meno mostruose. Ma c'è un colpo di scena, Nintendo rivela un particolare: ricordate MissingN0? Ne parlavamo prima, era un fantomatico pokémon nascosto recuperabile solo con dei codici speciali. Ebbene, in realtà non si trattava altro che un bug del gioco, ma Nintendo sfruttò quest'ambigua figura in modo geniale: MissingN0 era il prototipo del pokémon che Satoshi, il protagonista del cartone animato, scorgeva di sfuggita nel primo episodio. E se questa creatura non era in Pokémon Red, Blue & Green... allora dov'era?

Pokémon History: Gotta catch'em all! - Part One
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Pikachu e i suoi Rivali

Lasciamo perdere l'enigma MissingN0 per qualche momento, ora, e concentriamoci su un'altra questione.
Probabilmente in molti avranno sentito parlare dei Digimon o di Monster Rancher. E come potrebbe essere altrimenti? Per mesi le reti televisive italiane hanno trasmesso le serie animate omonime, per colmare il vuoto lasciato dalla temporanea latitanza dei Pocket Monster sui palinsesti. In effetti, Digimon e Monster Rancher sono solo due - i più importanti - tra i numerosissimi prodotti che hanno cercato, invano, di spodestare i Pokémon dal loro trono (tra questi rientrano per esempio Megami Tensei e i recenti Medabots Navi e GrandBo). L'idea in realtà è piuttosto semplice: il concept c'è già, basta solo apportare qualche modifica et voilà, ecco pronto un nuovo prodotto da propinare ai videogiocatori.
Questo non è necessariamente un male, comunque. Per esempio, i Digimon rappresentarono, al loro lancio su WonderSwan e nelle loro successive incarnazioni per PlayStation e WonderSwan Crystal, una ottima alternativa alle creaturine di Nintendo, forse diretta a un pubblico più adulto e smaliziato. Anche Digimon è una contrazione, e più precisamente sta per Digital Monster: sono delle creature elettroniche che i giocatori possono collezionare, allevare, incrociare con altre razze ed evolvere, mentre esplorano il Digiworld dove esse vivono. Come si intuisce chiaramente, il gioco di Bandai rasenta praticamente il plagio. Eppure, alla Bandai è possibile attribuire diversi meriti: per esempio, riuscì a combinare con il concept appena proposto una sceneggiatura discreta ma comunque presente e un sistema di combattimento complesso quanto quello di un buon JRPG; e inoltre, i Digimon si allontanavano dal character design "kawaii" dei Pokémon, rappresentandone l'alternativa estetica di tipo prettamente "bellico": i Digimon sono guerrieri, e le loro evoluzioni sono sempre più inquietanti, mastodontiche e minacciose.
D'altra parte, Digimon combatteva Pokémon anche sul versante televisivo: Bandai finanziò la produzione di alcune serie animate e perfino OAV (acronimo per Original Animation Video, produzioni destinate solo al mercato del home video) e film per il grande schermo, basandosi di volta in volta sui nuovi giochi in uscita e cercando di conquistare il pubblico con trame "mature", dove i Digimon e i loro possessori si scontravano con forze maligne più o meno malvagie, in una girandola di colpi di scena, trasformazioni e combattimenti che, come in tutti i casi simili, si ripetevano all'ossessione fino al termine della serie. Per quanto, quindi, le produzioni televisive dedicate a Digimon apparissero più curate dal punto di vista della sceneggiatura e talvolta perfino della realizzazione rispetto a Pokémon, mancavano comunque di quei tocchi di classe che solo Satoshi, Pikachu e i loro compagni sapevano donare allo spettatore: trame leggere, godibili, divertenti e perfino un insegnamento morale che inchiodava i Digimon di Bandai al muro, costringendoli ad affrontare il loro più grave misfatto, quello cioè di non comunicare un bel niente, se non una dose di sana violenza, laddove perlomeno Pokémon insegnava ai suoi piccoli spettatori ad avere cura delle creature più deboli rispettandole come qualsiasi altro essere umano.
Da questo punto di vista, fu Monster Rancher a rappresentare una piccola evoluzione del concetto originale. Mentre i Pokémon si esprimono per incomprensibili versi e i Digimon riflettono i sentimenti e le personalità dei loro padroni, parlando come loro e definitivamente spersonalizzandosi, i mostriciattoli di Monster Rancher di Tecmo, invece, sono caratterizzati da ben precise psicologie e personalità, ponendosi nei confronti del giovane protagonista della serie animata, Genki, perfino in netto contrasto. Questa pesante differenza tra Monster Rancher e i suoi rivali televisivi rendeva il prodotto Tecmo sicuramente meritevole di essere seguito, ma affondava inesorabilmente a causa di una sceneggiatura povera, una trama men che mediocre (incentrata sulla ricerca, da parte di Genki e la sua amica Holly, della leggendaria Fenice) e una caratterizzazione dei personaggi e dei mostri che rasentava la più insopportabile delle antipatie.
Tuttavia, i videogiochi Monster Rancher continuano a riscuotere un discreto successo in Giappone, nonostante la stroncatura dell'anime ad essi dedicato e la conseguente mancanza di visibilità di massa, tant'è che di recente ha fatto la sua comparsa il primo titolo per PlayStation2 che vede questi bizzarri mostri combattere per stabilire quale allenatore sia più forte.

Pokémon History: Gotta catch'em all! - Part One
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Pikachu e i suoi Rivali

Se da una parte, quindi, i nuovi Monsters partoriti da Bandai, Tecmo, Banpresto e altre software houses si imbattono nei Pokémon dal punto di vista mediatico, uscendone parzialmente sconfitti (ma anche vincenti, perlomeno per l'apporto di nuove idee a una struttura stantia e monotona), da un'altra possono solo sperare di riuscire a sostituire Pokémon sul versante videoludico.
In effetti, siamo nel 1998 e Pokémon è assente sul palcoscenico delle novità da parecchio tempo, mentre le versioni originali continuano a vendere, nonostante evidenti e inevitabili cali di interesse. Di conseguenza, Nintendo decide di ingannare l'attesa dei videogiocatori lanciando sul mercato un prodotto ambiguo: Pokémon Yellow.
Non c'è molta differenza tra Pokémon Red/Blue/Green e Yellow, perlomeno non dal punto di vista del gameplay nudo e crudo, e del resto i pokémon sono sempre gli stessi con la solita variante relativa alla loro presenza all'interno della cartuccia. La vera differenza risiede nell'approccio all'avventura, che segue la scenggiatura del cartone animato: così il protagonista è obbligato a prendere in consegna un Pikachu fin dall'inizio del gioco, e questo lo segue, visibile proprio sulla mappa, mostrando tramite particolari animazioni, il suo grado di affinità e simpatia nei confronti dell'allenatore.
Non c'è molto altro da dire su Pokémon Yellow, se non che si trattò di una gradita sorpresa per chi ancora non conosceva il fenomeno Pokémon dal punto di vista del videogioco o per chi non aveva mai avuto la voglia o il coraggio di giocare un titolo che rasentava lo zero assoluto per quel che concerneva trama e sceneggiatura.

Pokémon Everywhere!

I Pokémon giungono nel 2000, e in un panorama videoludico proiettato verso le nuove generazioni e il progresso tecnologico, dove le tre dimensioni e la corsa alla quantità di poligoni la fanno da padrone, fu del tutto naturale vedere i Pocket Monster in trasferta sulla console a 64 bit della Nintendo. Furono inizialmente due i giochi per Nintendo64 a presentare Pikachu e soci in tre dimensioni: Pokémon Stadium e Pokémon Snap.

Pokémon Stadium era una sorta di add-on, un titolo dal concept semplice e basilare che estendeva l'esperienza di gioco maturata su Gameboy. Sostanzialmente, come si intuisce dal titolo stesso, Stadium proponeva nient'altro che i combattimenti tra Pokémon, senza preoccuparsi troppo del contorno ludico tipicamente JRPG che caratterizzava le versione per Gameboy. L'esperienza si presentava quindi limitata e limitante fin dall'inizio, costringendo il giocatore ad affrontare decine di combattimenti, spettacolari, senz'altro, grazie all'ausilio delle tre dimensioni, ma che non dicevano altro che questo. Molto più interessanti piuttosto i mini-game di contorno, semplici quanto divertenti; ma sopratutto la possibilità di importare i pokémon catturati sul handheld Nintendo per vederli combattere in versione poligonale su un televisore, magari contro quelli di un amico. Pokémon Stadium, quindi, si rivela essere un semplice prodotto destinato agli appassionati senza troppe pretese, troppo debole per qualsiasi altro utente. Da notare che di Pokémon Stadium esiste un sequel che presenta, invece, una gran varietà di opzioni, modalità di gioco e mini-game, basato sui Pokémon delle versione Silver/Gold (vedi oltre), sicuramente più soddisfacente, nel complesso, della prova di strada rappresentata dal primo. 9 Pokémon Snap, invece, si colloca in quel ramo maledetto dei giochi coraggiosi-senza-speranza. Snap è un titolo coraggioso, perché propone un concept del tutto nuovo e originale; ma è anche un titolo senza speranza, perchè le sue caratteristiche dal feeling così marcatamente nipponico lo rendono poco appetibile a un pubblico di non appassionati. L'idea in fondo è abbastanza semplice. Nei panni di un giovane reporter, a bordo di un veicolo monorotaia costruito dal professor Oak, il giocatore viene condotto attraverso delle aree naturali popolate da Pokémon di ogni genere, dei quali dovrà scattare delle foto da collezionare poi nel proprio album. Ovviamente, le cose diventano più difficili in proporzione alla rarità dei Pokémon che si vuole fotografare, così si dovrà per esempio cercare di attirare i Pocket Monsters allo scoperto utilizzando delle ghiotte esche o innescando delle reazioni a catena che spingano le creature ad agire in modo che altre diventino vulnerabili al flash della nostra macchina fotografica.
Detta così la meccanica appare divertente e intrigante, e di fatto lo è, almeno fin quando non diventa ripetitiva, costringendo il giocatore a ripetere gli stessi pattern ancora e ancora. Per fortuna, la scarsa longevità e profondità dell'esperienza è bilanciata da una realizzazione tecnica ad hoc.

11 La carrellata dei Pokémon del 2000 si chiude con Pokémon Pinball, probabilmente uno dei migliori esperimenti di Nintendo nella sua missione di continuo "riciclaggio" del concept originale.
Pokémon Pinball, Game Boy Color, è per l'appunto un videoflipper. La caratteristica più interessante è senz'altro la presenza di un semplice meccanismo che permette al portatile di vibrare al momento opportuno, simulando la sensazione tattile di un vero cabinato (anche se, ovviamente, molto alla lontana!). Per il resto, la meccanica ludica è talmente divertente e geniale che il gioco è considerato, meritatamente, una delle migliori produzioni per Gameboy Color. E' flipper, abbiamo detto: il giocatore può scegliere su quale tavola giocare, fra due, Red e Blue, che presentano differenze tali da richiedere un approccio del tutto diverso per ciascuna.
A questo punto, il giocatore deve condurre una Pokéball a mo' di biglia attraverso la tavola da gioco, in modo che vengano soddisfatte determinate condizioni di punteggio o di interazione con la tavola stessa perché possa apparire al suo centro l'ombra di un Pokémon; fatto questo, al giocatore non rimane che fare affidamento ai suoi riflessi per colpire dei bersagli che andranno a illuminare la suddetta ombra e, dopodichè, il Pokémon sarà catturato.
Sono presenti tutti i Pokémon originali e l'impresa collezionistica si rivela in breve più ardua del previsto, tanto da incollare letteralmente il giocatore ai tasti del Game Boy. Pokémon Pinball, con la sua realizzazione tecnica sobria ma convincente, e con il suo sistema di gioco a dir poco geniale, rappresentò una vera rivelazione, un piccolo gioiello che fece da preludio a quel Pokémon, Silver/Gold, che avrebbe scosso come un terremoto il mercato dei videogiochi. 10

PokéDex


077 Ponyta

078 Rapidash

079 Slowpoke

080 Slowbro

081 Magnemite

082 Magneton

083 Farfetch'd

084 Dodou

085 Dodrio

086 Seel

087 Dewgong

088 Grimer

089 Muk

090 Shellder

091 Cloyster

092 Gastly

093 Haunter

094 Gengar

095 Onix

096 Drowzee

097 Hypno

098 Krabby

099 Kingler

100 Voltorb

101 Electrode

102 Exeggcute

103 Exeggutor

104 Cubone

105 Marowak

106 Hitmonlee

107 Hitmonchan

108 Lickitung

109 Koffing

110 Weezing

111 Rhyhorn

112 Rhydon

113 Chansey

114 Tangela

115 Kangaskhan

116 Horsea

117 Seadra

118 Goldeen

119 Seaking

120 Staryu

121 Starmie

122 Mr. Mime

123 Scyther

124 Jynx

125 Electabuzz

126 Magmar

127 Pinsir

128 Tauros

129 Magikarp

130 Gyarados

131 Lapras

132 Ditto

133 Eevee

134 Vaporeon

135 Jolteon

136 Flareon

137 Porygon

138 Omanyte

139 Omastar

140 Kabuto

141 Kabutops

142 Aerodactyl

143 Snorlax

144 Articuno

145 Zapdos

146 Moltres

147 Dratini

148 Dragonair

149 Dragonite

150 Mewtwo

151 Mew

Il Gioco di Carte Collezionabili

E come se non bastasse l'invasione di Pokémon in televisione, nel mondo dei videogiochi, tra i manga e in ogni casa sotto forma di merchandising puro (dalle caramelle alle merendine, dai quaderni ai diari scolastici), Nintendo si lanciò in un'operazione apparentemente suicida che gli fruttò un bel mucchio di profitti e che, sopratutto, diede una bella spinta economica alla Wizard of the Coast. Per chi non lo sapesse, la Wizard of the Coast è la casa editrice che da anni produce decine di giochi di carte da tavolo dalle regole sempre più astruse e raffinate, e che ha lanciato una moda contraddittoria e piuttosto malvista dai benpensanti. Il concept di base è semplice: giocare a Magic the Gathering, vero paradigma del genere e primo successo della Wizard of the Coast, è un po' come giocare a Scala40, Scopa, Ramino o Poker, con la piccola differenza che i mazzi non sono prefissati, e sta al giocatore portare con sè le sue armi da guerra sotto forma di carte da gioco.
Non è possibile spiegare nel dettaglio il sistema di gioco generale di queste produzioni ludiche, in quanto non esiste una formula fissa che ne detta la forma. Per quanto riguarda Magic, per esempio, i giocatori si improvvisano stregoni e mettono in scena terribili battaglie, scandite in turni, fatte di incantesimi arcani ed evocazioni, contrapponendo alle carte avversarie le proprie, seguendo precise regole e una semplice distribuzione del punteggio.
I mazzi dei giocatori, tra l'altro, potevano essere modificati acquistando apposite bustine di espansione, dal contenuto casuale, in grado di regalare carte potentissime quanto inutili, un po' come quando si acquistavano le figurine, nella speranza di scartare la piccola confezione e trovare la tanto agognata figurina numero 101 per completare l'album di turno. Il piccolo problema era però che non solo queste buste presentevano costi elevati, costringendo i giocatori a dilapidare piccoli patrimoni per costruire il proprio mazzo su misura, ma presto le carte cominciarono ad essere vendute singolarmente in uno squallido giro di compravendite che trasformò una bella e divertente idea in un sistema fondamentalmente capitalistico, precluso ai giocatori occasionali.
No, non stiamo divagando e l'esempio è calzante: del resto, Nintendo cedette a Wizard of the Coast i diritti per la produzione di un gioco di carte basato sul mondo dei Pokémon.
Follia? E perché? In fondo, esisteva un card game più o meno per ogni fenomeno di massa che potesse essere adattato o venduto. C'erano i giochi di carte basati su Star Trek o X-Files e quelli dedicati a Dragon Ball e ai Power Rangers. Di che stupirsi dunque?
Fortunatamente il Trading Card Game dedicato ai Pokémon si rivelò fin dall'inizio una variante, semplice e non troppo dispendiosa, ai fratelli maggiori. Certo, non ne condivideva la complessità strategica, ma presentava una buona profondità, in grado di regalare anche ai giocatori più smaliziati ore di gioco più che piacevoli.

Pokémon History: Gotta catch'em all! - Part One
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Il Gioco di Carte Collezionabili

Il sistema di gioco era del resto abbastanza semplice.
Posto un tabellone per delimitare il proprio spazio sul tavolo da gioco e un mazzo di sessanta carte a testa, i due giocatori, a turni, mettono in gioco le loro carte, pescate casualmente dal mazzo ben mescolato, e ne seguono letteralmente le regole, combinandole o alterandole in base alle situazioni che si presentano via via durante la partita.
La maggior parte delle carte rappresenta i Pokémon e le loro abilità da combattimento; le evoluzioni vengono attivate solo se è in gioco il Pokémon di base predisposto all'evoluzione in mano. Il mazzo non è accessibile in toto: il giocatore pesca una carta per turno, giocando quelle che ha in mano (un massimo di sei) e facendo combattere il Pokémon sul tavolo. Le sfide comunque non si limitano a un tet-à-tet fra il proprio Pokémon e quello avversario: è possibile mettere "in panchina" un massimo di cinque Pokémon, scambiandoli con quello in gioco tramite alcune carte speciali o, in alternativa, la perdita di un certo numero di carte "Energy". Quest'ultime sono un po' il motore del gioco, sono in pratica il "carburante" dei Pokémon, che senza di esse non potrebbero compiere alcuna azione; per questo è importante, durante la costruzione di un mazzo, calibrare bene il rapporto fra carte da gioco e carte "Energy", che a loro volta sono divise in varie categorie, esattamente come nel videogioco esistono vari tipi di Pokémon: fuoco, acqua, erba, fulmine, psico, combattimento.
Inutile dire che il gioco finisce quando un giocatore riesce ad annientare tutti i Pokémon dell'avversario oppure quando questi non ha più carte da giocare (in ogni senso possibile).
Con il passare del tempo, la Wizard of the Coast ha reso disponibili sempre più mazzi preconfezionati, lanciandosi poi in un infinito numero di espansioni: Jungle, Team Rocket, Fossil, New Generation... Ce n'è davvero per tutti i gusti, e attualmente il numero di carte disponibili sfiora la cifra delle seicento, con alcune introvabili che, acquistate singolarmente, richiedono la spesa di piccoli patrimoni (un esempio pratico è la prima edizione di Charizard, che vale addirittura più di 100$!). In Italia, la maggior parte di queste carte è ormai disponibile da tempo, e il gioco dopo un'iniziale diffusione caotica ed esplosiva ha subito un'improvviso calo d'interesse da parte dei consumatori, forse troppo presi dalla miriade di nuovi card game ed expansion set usciti in seguito. Curiosamente, anche l'Italia, in preda al fenomeno Pokémon, ha proposto una graziosa iniziativa legata ai film cinematografici dedicati a Pikachu e soci: in pratica, insieme al biglietto per lo spettacolo veniva distribuita una carta da gioco da collezione, pescata a casa fra quelle disponibili per l'evento corrente. Inutile dire che sono tra le carte più rare e costose in assoluto, e chi le possiede può ritenersi davvero fortunato.


Dal videogioco al card game il passo è stato abbastanza breve, va' detto, ma è davvero bizzarro il processo inverso che ha portato allo sviluppo di un videogioco dedicato allo stesso trading card game di Pokémon. Non bisogna fraintendere: l'idea di un videogioco di carte non era certo una novità nel 2000, considerando le varie versioni di Magic e Mutant Chronicles già disponibili, per non parlare dei giochi creati appositamente per sfruttare questo peculiare sistema ludico. Ma è comunque curioso notare come Nintendo sia riuscita a rilanciare in formato videoludico lo stesso concept, ormai trito, rendendolo appetibile ed appagante come pochi.
Pokémon Trading Battle Card Game, per Gameboy Color, è una versione digitale del gioco di carte omonimo, applicata però al gameplay classico della serie: in pratica il giocatore ha la possibilità di viaggiare per le varie località di un'isola, sfidando gli NPG proposti dal codice in vere e proprie partite a carte, sfruttando uno dei mazzi scelti all'inizio (che guardacaso presentano le effigi di Charmander, Squirtle e Bulbasaur) e vincendo delle buste di espansione con le quali personalizzare o creare da zero mazzi nuovi di zecca. La possibilità, quindi, di poter giocare questi assuefanti quanto divertenti giochi da tavolo senza spendere denaro in più di quello necessario per l'acquisto della cartuccia, e di poter, di riflesso, sfidare gli amici in possesso di un altro Gameboy e relativa cartuccia, si rivelò un'idea geniale quanto basilare, per la quale era lecito chiedersi come nessuno ci avesse mai pensato prima. Ma del resto, in questo genere di trovate Nintendo aveva dimostrato, ormai già da tempo, di essere a dir poco imprevedibile.
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A pochi giorni dall'uscita italiana di Pokèmon Ruby/Sapphire, Multiplayer.it vi guida alla scoperta della storia del fenomeno commerciale e videoludico del decennio. Scoprite con noi, in questo mastodontico speciale in due parti, come sono nati i Pocket Monsters, quanti e quali giochi ad essi sono stati dedicati, esplorate il mondo del cartone animato e preparatevi a capire perchè le versioni Advance di Pikachu e soci hanno schiacciato ogni record di vendita, sotterrando gli incassi di qualsiasi altro titolo uscito nell'ultimo anno e dimostrando che il fenomeno Pokèmon è più vivo che mai!

La Geniale Intuizione di Iwajiri-san
C'era una volta una software house giapponese chiamata GameFreaks.
Era una società piccola, non troppo importante nè conosciuta. E questo ovviamente era un male, in un mercato che punta sopratutto sui nomi e sui marchi. All'interno della GameFreaks lavorava un comune giapponese, un certo Satoshi Iwajiri. Satoshi era un programmatore piuttosto giovane, inesperto e molto fantasioso. Per farla breve, un bel giorno Iwajiri, durante una passeggiata, si fermò davanti a un distributore automatico di insetti. Per chi non lo sapesse, in Giappone va' di moda collezionare insetti veri, vivi, che vengono rilasciati da apposite macchinette dentro delle confezioni di plastica trasparente. Insomma, come dei distributori di CocaCola, solo che al posto della lattina vi ritrovate tra le mani uno scarafaggio o un cervo volante. Era il 1995 quando Iwajiri-san si fermò davanti a quel distributore, senza sapere che da lì a poco gli avrebbe cambiato la vita, e in Giappone cominciavano a imperversare due mode: Tamagotchi e Magic. Il Tamagotchi era un'idea della Bandai, nota produttrice di giocattoli e videogiochi: in sostanza, si trattava di una sorta di portachiavi elettronico che permetteva di allevare virtualmente un pulcino. In Giappone e nel resto del mondo il Tamagotchi sarebbe diventata una vera mania, sarebbe stato venduto per qualche anno in ogni forma e funzione diversa, e poi sarebbe collassato come tutte le mode passeggere. Magic, invece, era il noto gioco di carte collezionabili dell'americanissima Wizards of the Coast: basato sui miti fantasy e sopratutto su Dungeons&Dragons, tramite l'acquisto di mazzi e buste d'espansione, Magic consentiva ai giocatori di mettere in scena veri e propri duelli tra stregoni, seguendo le regole indicate sulle varie carte. Anche Magic divenne una mania (piuttosto capitalistica, per la verità) in tutto il mondo, e le sue regole vennero applicate con decine di soluzioni diverse. Insomma, Satoshi Iwajiri, essendo un comunissimo impiegato giapponese, era anch'esso preda di queste mode scacciatempo, e mentre guardava quel distributore... ebbe un'idea. Tornò a casa, e cominciò a disegnare come un pazzo sul suo taccuino vari insetti, ritoccandone la fisionomia e trasformandoli in buffi esseri fumettosi. In breve, quello che era stato uno scarafaggio divenne un mostriciattolo tenero e squisitamente "kawaii" (trad. "carino", in giapponese). Iwajiri-san applicò la stessa soluzione grafica a qualche altro animale: a un topo, a un pesce, a un orso... E disegnò decine e decine di piccoli mostri. Ma questo era solo l'inizio: la geniale intuizione di Satoshi Iwajiri non era legata alla resa visiva dei suoi mostri, quanto a quello che poteva esserci dietro. Immaginò un semplice videogioco, in cui il giocatore poteva collezionare questi mostri e farli combattere tra loro. Un'idea dannatamente semplice. Condì il tutto con le regole dei japanese role playing game, in quel periodo particolarmente popolari, e decise che i giocatori avrebbero potuto scambiare tra loro i mostri per completare la collezione. Presentò l'idea alla GameFreaks, piuttosto incerto e insicuro... e l'anno dopo era diventato uno degli uomini più ricchi e famosi del Giappone. Satoshi Iwajiri aveva dato vita ai Pokémon.

La parola Pokémon è in realtà un'abbreviazione. Seguendo le frenetiche abitudini della propria società, i giapponesi tendono ad abbreviare un po' tutto. Le "Ols" sono le "Office Ladies"... le segretarie, per esempio. Le creature di Iwajiri erano dei mostriciattoli, e sarebbero state anche un videogioco per GameBoy, la console portatile più famosa del mondo: erano, quindi, dei "pocket monsters", abbreviato in Pocke- Mon-, che i giapponesi pronunciano "pokétto monstaa" e, abbreviandolo, traslitterano in katakana come Poké- Mon-... Pokémon.

Iwajiri e il suo staff di artisti crearono centinaia di mostriciattoli, ma fra questi solo 151 vennero selezionati e inseriti nella versione definitiva del gioco. Ad ognuno di essi venne dato un nome apparentemente senza senso, ma che in realtà non era altro che un geniale gioco di parole, perlopiù intraducibile in una lingua diversa dal giapponese: ricordiamo, infatti, che il senso degli ideogrammi nipponici è concettuale, non grafico, motivo per il quale in America (e nel resto del mondo) i nomi vennero successivamente cambiati, ma di questo ne parleremo al momento opportuno.
Visto che il target del progetto Pokémon era rappresentato specialmente da bambini o adolescenti, Iwajiri decise di abbandonare in parte l'elemento jrpg-istico, adottando per gli scontri tra Pokémon una sorta di regola del "carta-forbice-sasso": decise, infatti, che i Pokémon sarebbero stati divisi in gruppi di elementi, e più precisamente in Pokémon del fuoco, dell'acqua, dell'erba, dell'elettricità, da combattimento e di tipo psichico. Ogni elemento avrebbe influito più o meno pesantemente su un altro: per esempio, un Pokémon di fuoco avrebbe provocato più danni a un Pokémon d'erba, così come un Pokémon psichico sarebbe stato praticamente immune ai danni di un Pokémon da combattimento. Per aumentare questo fattore strategico, si decise che il giocatore avrebbe potuto comporre una squadra di sei Pokémon al massimo fra i tanti posseduti: nacquero così le Pokéball, in pratica i "contenitori" nei quali sarebbero stato inseriti i Pokémon dopo la cattura. Più semplice di così non si poteva fare... Ma vennero mantenute le statistiche numeriche che indicavano le varie caratteristiche dei Pokémon: valore di difesa, valore di attacco, percentuale per colpire eccetera. Combattendo, un Pokémon avrebbe ottenuto dei punti esperienza, accumulandone un certo numero avrebbe raggiunto un nuovo livello di potenza, esattamente come nei role playing game, e a precisi livelli il Pokémon avrebbe ottenuto degli attacchi speciali da usare contro i nemici, alcuni di questi in grado di modificarne le prestazioni (per esempio, alcuni attacchi avrebbero addormentato il nemico, altri lo avrebbero paralizzato e via dicendo). Niente di nuovo, certo, ma Iwajiri ormai era un folle a piede libero, ed ebbe un'altra idea: e se alcuni Pokémon si trasformassero? Decise così che alcune delle sue creature, raggiunto un certo livello, si sarebbero evolute a uno stadio superiore di potenza, che avrebbe influito anche sulla loro resa visiva. Insomma, ormai era fatta, i Pokémon avevano tratti distintivi, combattevano, si evolvevano e rimaneva solo un problema: già, ma questi Pokémon... dove li mettiamo?
All'inizio Iwajiri pensò di ambientare il gioco in Giappone, poi in pieno estro creativo diede vita a un mini-mondo che chiamò Indigo; piazzò strategicamente un certo numero di città, separandole fra loro con boschi, strade, montagne, mari e torrenti. Il giocatore avrebbe viaggiato da un luogo all'altro per collezionare i Pokémon, e per aumentare il fattore di sfida Iwajiri inserì in ogni città una palestra dove ad attendere il Pokémon Trainer ci sarebbe stato un vero e proprio boss, con una squadra di Pokémon pronta a sconfiggere il protagonista. Battuto il Capo-palestra, il giocatore avrebbe ottenuto un bonus necessario alla prosecuzione nell'avventura, legato ovviamente ai Pokémon: la capacità di tagliare gli alberi, di nuotare, di volare e via dicendo (un altro evidente richiamo ai jrpg). Ovviamente, in tutto questo caos, Pokémon rimaneva un gioco kawaii e per bambini: niente morti nè violenza, sconfitto un Pokémon (tramite l'azzaremtno del valore numerico rappresentate l'energia vitale), sarebbe bastato curarlo per farlo tornare in campo. A questo punto, Nintendo decise che c'erano abbastanza elementi ludici per sfornare un videogioco, e che una eventuale trama sarebbe stata superflua ai fini del gioco in sè, nè avrebbe interessato i giocatori: il protagonista divenne impersonale, e il giocatore avrebbe anche scelto il suo nome, e quello di un improvvisato rivale.
Come si suol dire... le jeux son fait.