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Guerra e Videogiochi - Oltre la violenza

Industria videoludica ed industria bellica: lontani parenti o fratelli di sangue? Alcune riflessioni sugli effetti della violenza nei videogiochi.

SPECIALE di Ludovica Lagomarsino   —   27/05/2006

Ci sono altri mondi oltre a questo

La vita di un videogiocatore si svolge, spesso, su due piani di realtà.
Il primo appartiene alla vita reale, quella in cui le cose accadono veramente, in cui i rapporti interpersonali sono fatti di azioni e conseguenze, in cui le pistole sparano proiettili che uccidono davvero e le guerre sono combattute facendo scorrere sangue reale. I telegiornali e le trasmissioni televisive ci portano sul piatto della vita e delle scelte una serie di consapevolezze e considerazioni di natura politica, sociale, religiosa, culturale... un magma ribollente di intersezioni, scelte e direzioni attraverso le quali si snodano le nostre vite.
Esiste poi per noi una seconda realtà, che comunemente definiamo "virtuale", ed appartiene al nostro universo videoludico. Un mondo dove si combattono guerre, si partecipa a competizioni sportive, si assiste alla narrazione di storie fantastiche e ci si immedesima nei protagonisti delle stesse, un universo in cui possiamo fingere di essere piloti di caccia della Seconda Guerra Mondiale e decidere se bombardare Berlino o Stalingrado, un mondo in cui possiamo scegliere se essere poliziotti o criminali, in cui possiamo correre con le nostre auto a velocità inimmaginabili nella realtà, o inseguire il sogno di una fata che volteggia su mondi fantasticamente sognanti. Possiamo fare ciò che più ci aggrada, perchè il sangue versato verrà ricomposto con il nuovo caricamento di una partita, le lamiere contorte verranno rese nuovamente integre senza conseguenze, le nostre pistole saranno usate per uccidere, ma senza uccidere.

Guerra e Videogiochi - Oltre la violenza
Guerra e Videogiochi - Oltre la violenza

Io vengo in pace. Blam.

La violenza, la voglia di trasgredire è parte intrinseca della natura umana, su questo sarete tutti d'accordo. Anche il più mite di noi porta dentro di sè il fascinoso seme della violenza. I videogiochi offrono la libertà di essere violenti, di trasgredire in ogni forma, senza le dirette conseguenze che nella vita reale tali azioni porterebbero. Ecco perchè anche i più accaniti pacifisti non disdegnano di fraggare a Quake, o perchè i coniugi più fedeli e morigerati non si sentono in colpa nel giocare a 7 Sins. Perchè c'è il peccato, senza le conseguenze del peccato. Il male, senza il male.
Ora, sulla base di questo mio strampalato ragionamento, provate a riflettere su ciò che fate quando, ad esempio, giocate ad un titolo multiplayer online.

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Pensate di fare una sessione di gioco e di scontrarvi all'ultimo sangue con utenti coreani, americani, giapponesi, africani, finlandesi. Immaginate voi la nazione di appartenenza che più gradite. Pensate ai vostri avversari, sconosciuti ma conosciuti, ed all'impegno che ci mettete nel distruggerli e nel non farvi distruggere, ed alla soddisafzione ed al ghigno compiaciuto e trionfante quando infine vedete scorrere il sangue virtuale del vostro antagonista. E rivolgete un pensiero anche ai compagni con cui giocate, con cui collaborate nell'inseguimento del vostro obiettivo di distruttiva competitività, anch'essi coreani, americani, giapponesi... cittadini del mondo. Ci sono forse rancore, odio?
C'è forse la sensazione che il nemico che dovete distruggere sia diverso da voi, quando giocate? E quando termina una sessione di gioco, non vi è forse quel sentimento di gratitudine per l'esperienza di una bella partita, di sana competitività, di antagonismo che non sfocia mai nel sadico piacere dell'annientamento, ma piuttosto nel piacere del "vinca il migliore, e che possa essere io"? Qualcuno di voi starà forse annuendo, leggendo queste righe, alcuni di voi staranno forse scuotendo la testa. A tutti voi chiedo: come vi sentireste se svegliandovi una mattina, dopo aver gustato una guerra virtuale appena la sera prima ed avendo poi dormito il sonno dell'innocenza, qualcuno vi dicesse che quel ragazzo contro cui o con cui avete giocato è improvvisamente vostro nemico anche e soprattutto nella realtà?

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Se qualcuno vi dicesse all'improvviso: "odialo", non vi verrebbe forse da rispondere "ma no, come posso odiarlo, abbiamo passato la sera a fare farming, ci siamo fatti un sacco di risate in un inglese zoppicante, ci siamo presi in giro sui nostri strani modi di dire, come posso ora odiarlo, lui che è così simile a me, che in qualche modo ho avuto la sensazione di toccare?" Non vi verrebbe forse di inorridire al pensiero che quello stesso giocatore con cui avete condiviso una serata, seppur virtuale, ora si sta ponendo la stessa inquietante domanda: "Devo odiarlo?". Dopo essersi massacrati con le armi più improbabili, squartati e macellati con sadica soddisfazione per giorni, mesi, anni di seguito, riusciremo ora a vaporizzarci con la pressione di un bottone che sganci una bomba tanto stupida, tanto poco poetica, tanto carente di effetti speciali e tanto, dannatamente, reale?

Immaginate.

Ora, io mi chiedo... io vi chiedo: osate.
Osate immaginare un mondo in cui i conflitti vengono risolti in un torneo di Quake. O di Battlefield. O di WarCraft. O di quel che più vi aggrada.
Immaginate delle squadre nazionali, di videogiocatori scelti, al posto dei soldati, che dispieghino le loro forze in combattimenti all'ultima virtuale goccia di sangue.
Immaginate la fine dell'industria delle armi, spostata con tutto il suo potere economico sull'industria videoludica, grandiosi spettacoli per le masse, nuovi eroi, nuovo pathos, nuovi conflitti e nuovo valore.
Immaginate la naturale violenza dell'uomo che trova sfogo virtualmente e ponetevi un'ennesima domanda: la violenza nei videogiochi, è davvero un male, o può forse essere un BENE? Che sia la molla che ci permette di risolvere i nostri conflitti, le nostre competizioni, perfino le nostre pulsioni e frustrazioni, lasciandoci più miti nella vita reale, meno inclini ad atti di violenza consumati, le cui conseguenze ci affondano nell'orrore?

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Non come mezzo di ottundimento dei sensi, non come panacea di tutti i mali, ma semplicemente come virtuale punching ball a cui tutti coloro che per scelta o per necessità non possono avere accesso nelle reali palestre cittadine, possono attingere per poter scaricare ogni tensione accumulata, ogni frustrazione lavorativa e familiare. Lo stress del traffico, della vita quotidiana, nevrotica e nevroticizzata. E perchè no, per potersi sentire protagonisti di un'avventura, per potersi sentire eroi, pirati, principesse e guerrieri, grandi piloti e temibili criminali.

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Certo, non dimentichiamolo, esistono fenomeni di dipendenza dai videogiochi, di disturbi emulativi, di distacco dalla realtà; li abbiamo visti accadere, sappiamo che esistono, ma è forse il mezzo ad esserne responsabile o l'uso che se ne fa? I giovani ne sono i più colpiti, ma il loro controllo e la loro esperienza sociale non dovrebbe essere garantita e guidata, forse, da noi adulti?
La violenza chiama violenza, è un assunto che pochi sarebbero in grado di negare. Nella vita reale la violenza accende spirali di violenza senza termine. Nella vita virtuale la violenza esaurisce sè stessa, non trova apertura a faide e distruzione dell'essere reale.
Il popolo dei videogiocatori è un popolo pacifico. Un popolo competitivo, ma che non odia. C'è odio, invece, fra le parti contrapposte nella reale polemica sulla violenza virtuale.
Quale delle due violenze porta con sè beneficio e quale invece conseguenze di ulteriore odio, violenza e divisione?

Non è il mezzo, ma l'intento

Io credo, fermamente, che non esista il male nei mezzi, ma negli intenti.
Sono cresciuta circondata da libri, cinema, videogiochi e fumetti violenti, ma non ne sono stata traviata.
L'esperienza videoludica, affiancata alla cultura in ogni sua forma ed all'imprescindibile esperienza di una vita sociale, mi hanno plasmata con una mente più aperta e forse meglio disposta alla fantasia ed all'immaginazione.

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Credo che tale testimonianza possa essere ritenuta comune ad una vastissima schiera di utenti. E forse le masse di ragazzi che vivono in strade violente, abbandonati a loro stessi dalla società degli adulti avrebbero solo di che guadagnarvi se venisse data loro la possibilità di riempire i muri di graffiti virtuali e sparare a gangster altrettanto virtuali, nella piena sicurezza, legalità e serenità delle pareti di una casa.

Polemiche e barricate

Da diverso tempo ormai, assistiamo alle polemiche che infuriano tra l'industria dei videogiochi e le associazioni più o meno ufficiali che tentano di mettere un veto alla diffusione di titoli con contenuti violenti. L'emblema di questa lotta è il titolo di Rockstar, GTA: San Andreas, anche se recentemente i riflettori si sono spostati su Mark Ecko's Getting Up, che ha avuto la censura totale su territorio australiano a causa del suo mondo graffitico e della presunta istigazione ad atti criminali che in maniera più o meno esplicita raggiungerebbe le giovani, influenzabili utenze.

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I motivi dei ribollimenti che hanno portato a scontri legali, manifestazioni, propagande politiche e scandali nei salotti benpensanti, oltre che preoccupazione, perplessità e dibattito fra gli utenti, sono da ricercarsi nell'antico interrogativo che gli educatori di tutto il mondo si sono sempre posti: i giochi violenti possono potenzialmente provocare atteggiamenti emulativi, o al contrario hanno il potere di funzionare come valvola di sfogo per le nostre pulsioni e, di conseguenza, renderci più miti e meno inclini a gesti violenti nella vita reale?
Chi vi scrive non possiede le qualifiche nè le conoscenze adeguate per poter intraprendere un percorso di analisi approfondito sui meccanismi psicologici e sociali che menti brillanti stanno in questo momento studiando ed analizzando, ma nel mio umile mi sono permessa di fare un paio di riflessioni, perciò provate per un attimo, se vi aggrada, a seguirmi in questo viaggio.
Solo per gioco, come siamo abituati a fare.

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