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Vita, morte e miracoli... di The Elder Scrolls

Un viaggio per riscoprire una delle saghe fantasy più amate e vendute

RUBRICA di Marco Perri   —   20/05/2013

Ne è passata parecchia di acqua sotto i ponti. I videogiochi degli anni '80 rappresentavano l'inizio del pionierismo videoludico, un'età segnata da idee e concetti così precursori da sembrare quasi irrealizzabili. Erano anni in cui lo sviluppo di pietre miliari era spesso derivante dal sogno e dall'impegno di semplici ragazzi improvvisati scrittori, programmatori e artisti ma capaci di realizzare molte di quelle saghe che oggi portano un numero di fianco al proprio titolo. Investimenti assolutamente ridicoli se comparati alle cifre odierne, gameplay basilari e un minimalismo grafico che lasciava ampio spazio all'immaginazione, quella capacità di ricreare con la fantasia tutto ciò che non vi era a schermo e che rendeva bello perdersi nel pensiero. Non servivano motori grafici di grido per formare castelli, segrete e sotterranei nelle menti dei giocatori del tempo. Lo sapeva Gary Gygax, padre dei giochi di ruolo odierni e fermo sostenitore della splendida capacità umana di ricostruire nelle proprie teste tutti quegli elementi che la tecnologia di un tempo non poteva gestire a schermo (Castle of the Winds?). Lo sapeva bene anche Christopher Weaver, al tempo ingegnere elettronico di mezza età, che per seguire un sogno decise nel 1986 di fondare proprio a Bethesda, nel Maryland, Bethesda Softworks. Ci volle l'ingresso nel team di Julian Lefay, famoso come il "Padre di The Elder Scrolls", per dar vita ad un mondo esplorabile che potesse abbracciare tutta la voglia di fantasy occidentale dei giocatori degli anni '90, cullata nel decennio precedente da brand a visuale isometrica come Ultima e Phantasie. In quel periodo si stava vivendo l'esplosione di un genere al quale il Giappone non seppe mai rispondere a dovere, affidando a Y's, Final Fantasy e King's Field il compito di portare alta la bandiera dei fantasy nipponici degli albori. Lefay voleva qualcosa di dirompente, nell'obiettivo di portare il genere verso nuove vette d'immersione; durante lo sviluppo fu forse proprio Doom, uscito un anno prima, a confermare il suo genio visionario.

Vita, morte e miracoli... di The Elder Scrolls

Gladiatori e pixel

Perché The Elder Scrolls? La risposta è semplice, e basta metter mano a The Elder Scrolls: Arena, il primo capitolo della saga (1994), per apprezzarne il prologo narrato sotto forma di antiche pergamene (elder scrolls, per l'appunto). Il mondo fantastico di Tamriel aveva iniziato a prendere vita e probabilmente nemmeno gli stessi designer si erano resi ben conto dell'opera che avevano creato, nonostante i goliardici e infausti pronostici dei colleghi di SirTech (Wizardry). Arena introdusse un mondo composto di aree esplorabili in tre dimensioni e caratterizzate da buona ricchezza di contenuti in termini esplorativi. E' vero, la visuale in prima persona che Bethesda aveva scelto di creare non permetteva, proprio come in Doom, di utilizzare l'asse verticale per il movimento, ma non ve ne era bisogno.

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Affidando alla tastiera il movimento del personaggio e al mouse il puntatore a schermo, l'esplorazione dei dungeons non risultò affatto castrata. Fu con Arena che i primi capisaldi di stile di The Elder Scrolls furono definiti. L'inizio in prigionia divenne un marchio di fabbrica della saga, così come la visuale in prima persona, figlia di evidenti limiti tecnici ma adatta a garantire immersione ludica e per questo mai abbandonata. Arena introdusse il proprio sistema di creazione del personaggio, basato sulla possibilità di scelta di classe, regione di appartenenza e dando sin da subito libertà d'azione sulla distribuzione dei punti per caratterizzare gli attributi del personaggio. Lefay ben pensò di inserire anche la possibilità di "ritirare i dadi", accontentando quel capriccio proprio dei giocatori di ruolo da tavolo e permettendo così una nuova generazione casuale dei punteggi. E' curioso notare come il primo The Elder Scrolls dovesse essere, in principio, un gioco di guerrieri in lotta tra un'arena e l'altra. Aggiungi una quest, un comprimario, una trama qua e là ed ecco che il concept si stravolse così tanto da diventare un gioco di ruolo completo, capace di trasportare grazie a storia e molteplici ambientazioni. Si, perché la distribuzione tramite floppy disk non deve trarre in inganno: Arena era un titolo immenso e differentemente dai suoi predecessori incorporava una trama che abbraccia tutte le province dell'impero di Tamriel. Centinaia di città, personaggi e dungeon riempivano quindi il mondo di gioco, che affidava molta della creazione dei contenuti e delle mappe a un motore di generazione casuale. Altro fattore silenziosamente mitigato nell'evoluzione del franchise fu quello legato alla difficoltà di gioco. Arena era molto difficile, lo stesso Ken Rolston, Lead Designer di The Elder Scrolls III: Morrowind, ricorda sempre con un simpatico aneddoto di come abbia iniziato Arena più di venti volte e sia riuscito a superare solo una volta il dungeon iniziale. Buon esempio di hardcore gaming delle origini.

Bigger, better

E' il destino dei sequel, e gli anni '90 non erano poi così diversi dagli approcci di serializzazione odierni. The Elder Scrolls II: Daggerfall fu il seguito ufficiale di Arena ma il prodotto capitanato dal Lead Designer Ted Peterson (designer del primo episodio) aveva decisamente un altro passo rispetto al predecessore. Il team di sviluppo scelse varie strade per differenziare e migliorare l'offerta della propria saga fantasy. Il primo bivio incontrato dal team di Peterson fu prettamente tecnico: continuare con un engine a 2.5 dimensioni oppure investire tempo e risorse nel creare un differente motore grafico proprietario. La scelta ricadde su quest'ultima opzione e grossa parte del tempo che passò dall'annuncio nel 1994 (poco dopo il rilascio del primo capitolo) all'uscita nel 1996 fu speso per preparare il motore XnGine che avrebbe poi mosso il tutto. La fase di creazione del personaggio fu influenzata molto dall'impianto ruolistico GURPS (sistema di gioco di ruolo universale) donando maggiore personalizzazione nella scelta di classe e abilità.

Vita, morte e miracoli... di The Elder Scrolls

Se le premesse erano già vincenti, fu dal punto di vista ludico che Daggerfall contribuì all'inserimento di elementi destinati a diventare cardine del franchise. Primo fra tutti fu l'introduzione del sistema delle gilde come entità vive, pulsanti e persistenti nel mondo di gioco. Quest uniche e interconnesse tra loro, con conseguenze reali nel tessuto di gioco, contribuirono ad approfondire ancora di più l'infrastruttura di Daggerfall e inquadrarono tutto l'ecosistema di The Elder Scrolls come tra i più completi e profondi del proprio genere. Con un sistema di gilde legate tra loro e molteplici trame a intersecarsi non potevano mancare giochi politici e religiosi di sottofondo. Daggerfall annoverava tra le sue quest più interessanti proprio quelle legate alla sfera del potere tra i regni di Tamriel, che infusero coerenza in un mondo fantasy che faceva di geografia e differenti ideologie razziali parte della sua forza. Bethesda volle andare oltre, e riempì il titolo di tante altre particolarità ed elementi. Fu in questo capitolo che nacque il sistema di creazione di magie, nelle quali infondere gli effetti desiderati e con le quali incantare le armi a disposizione, poi ripreso e raffinato in The Elder Scrolls III: Morrowind. Peterson spinse inoltre per rendere il combattimento più profondo, dando dignità ludica anche al movimento del mouse, finalmente protagonista attivo degli effetti dei colpi inferti. Differenti finali, l'inserimento nella trama delle Blades, l'ordine militare divenuto chiodo fisso nelle future trame, e la possibilità di contrarre malattie legate a vampirismo e mannarismo resero Daggerfall un vero e proprio precursore di qualità per molte delle saghe videoludiche a tema fantasy che lo avrebbero succeduto.

DLC di una volta

Ted Peterson si allontanò subito dopo l'uscita di Daggerfall, lasciando il team libero di proseguire con altri progetti. Bethesda, per dirla tutta, ne aveva in mente non uno, ma ben tre. Morrowind doveva infatti essere, assieme a Battlespire e Redguard, un'espansione di Daggerfall. Alla luce dei fatti immaginare oggi Morrowind come semplice espansione risulta paradossale, ma al tempo la cosa doveva sembrare naturale a Bethesda se, dopo la release di Daggerfall, la software house stava progettando tre espansioni per arricchire e monetizzare il successo del franchise. Il problema fu nei concept con i quali il team decise di caratterizzare gli episodi, pensati come espansioni ma poi rilasciati come pacchettizzati stand-alone. An Elder Scrolls Legend: Battlespire fu il primo. Uscito un anno dopo, nel 1997, oltre ad una storyline molto debole ciò che offriva era un sistema di player-vs-player basato su dungeons labirintici, che non fece assolutamente breccia nel cuore dei fan. L'anno successivo fu il turno di The Elder Scrolls Adventures: Redguard ma ancora una volta Bethesda sbagliò nettamente il tiro. Il team americano volle tentare la carta dell'action-adventure in tre dimensioni con personaggio impostato, chiamato senza troppa fantasia Cyrus The Redguard. La visuale alle spalle in terza persona mise a nudo tutti i problemi tecnici, di giocabilità, di Intelligenza Artificiale e di coerenza del mondo di gioco, risultando in un vero disastro in termini di recezione, vendite e feedback. Due esperimenti decisamente negativi, che fecero mettere da parte il Morrowind concepito come espansione per prepararlo ad essere protagonista della prossima release ufficiale. Il terzo capitolo di The Elder Scrolls aveva il pesante fardello di riconquistare la fiducia degli appassionati con una performance sopra le righe.

Un’isola atipica

Fu Todd Howard, in qualità di Executive Producer, ad essere incaricato del compito di riportare la saga verso la vetta, affiancato dal sempre affidabile Ken Rolston, saldamente ancorato al ruolo di Lead Designer. Howard sapeva benissimo che l'avanzamento tecnico della concorrenza aveva alzato il livello delle produzioni videoludiche e fu anche per la costante ambizione di essere primo della classe che scelse di investire pesantemente sul nuovo motore grafico. Un team triplicato lavorò per un intero anno alla costruzione dei tool che avrebbero poi composto Gamebryo, un motore che univa molte di quelle tecnologie che al tempo rappresentavano l'avanguardia. I risultati furono sorprendenti sia su PC, dove le animazioni facciali, gli shader acquatici interamente ridisegnati, le textures particolarmente definite e un'ottima profondità di orizzonte visivo garantivano un grandissimo salto in avanti rispetto al passato, sia su Xbox, che ebbe il privilegio di ospitare per la prima volta un episodio su console della saga. Visti i muscoli a disposizione, Rolston decise di abbandonare definitivamente l'algoritmo di generazione casuale degli ambienti interni ed esterni, affidandosi al design manuale di ogni singolo oggetto e sotterraneo nel gioco. Un lavoro non indifferente ma ripagato da una consistenza ludica importante, che garantiva un peso anche alle più piccole azioni.

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Ma cosa rese The Elder Scrolls III: Morrowind un episodio ancora oggi così apprezzato? Largo merito va sicuramente all'architettura delle sue città, la quale basandosi sull'ambientazione desertico-orientaleggiante dell'isola di Vvardenfell permetteva un'espressione artistica molto singolare e differente dai consueti canoni di fantasy, stesso discorso applicabile all'offerta faunistica e paesaggistica unica. Il sistema di avanzamento fu modificato e adattato all'esecuzione effettiva di specifiche azioni da parte del personaggio, come una sorta di persistente allenamento pratico di questa o quell'abilità che portava il giocatore a sentirsi protagonista attivo della crescita del suo alter-ego. Viaggiare, crescere, dormire, combattere: un flusso di azioni spinto dal piacere della scoperta, in Morrowind non era difficile lasciarsi andare all'esplorazione. La ricchezza della mappa fu un pretesto per popolarla non solo di caverne e vecchie tombe, ma anche per rendere reale e coerente l'immane quantità di testo inserita (si stimano circa 300 volumi distinti all'interno, che se uniti formerebbero non meno di 6 romanzi completi). Il principio cardine di sviluppo del gioco voluto da Howard ruotava attorno alla libertà di girovagare per il mondo, e proprio per tale motivo fu applicata una velata costruzione di design che tolse la capacità di default di Arena e Daggerfall di viaggiare velocemente tra le città. Uno degli obiettivi del team era proprio accompagnare a passeggio il giocatore per l'isola, dandogli sì metodi per andare da una parte all'altra in breve tempo, ma in qualche modo nascondendoli, quasi mettendoli da parte ed evitando volontariamente di promuoverli. Parte dell'eredità di Redguard fu assimilabile all'aggiunta, per la prima volta in un capitolo ufficiale, della visuale in terza persona alle spalle del personaggio, divenuta elemento costante di ogni release futura. A livello contenutistico, questa volta Bethesda scelse di arricchire l'esperienza di Morrowind rilasciando nei mesi successivi due grosse espansioni, Tribunal e Bloodmoon, integrandole intelligentemente nella trama e nell'ambientazione, senza stravolgerne il gameplay. Gli errori del passato avevano insegnato un'importante lezione al team.

Aprite i cancelli

Nonostante la profondità, la saga di The Elder Scrolls si era ormai imposta come un baluardo tecnico, pronto ad affrontare ad armi pari le maggiori produzioni ludiche del suo tempo. A ogni genere videoludico il proprio condottiero, e per quanto ogni categoria abbia degli elementi caratterizzanti rispetto alla concorrenza, la sfida grafica è stato un confronto che Bethesda ha sempre preso sul personale. Al team capitanato nuovamente da Howard e Rolston non sarebbe bastato creare un mondo ancora più avvolgente e intrigante. Il nuovo territorio doveva essere incredibilmente bello da vedere, da giocare e da vivere. Pubblicato nel 2006, The Elder Scrolls IV: Oblivion non spiccò per particolare originalità delle idee inserite né per una trama convoluta, ma ci furono elementi nascosti nel substrato di gioco che gli permisero di essere il giusto ponte verso l'alta definizione.

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Gli strumenti di programmazione si erano ormai raffinati e Bethesda ben sapeva come agevolare lo sviluppo del franchise. Fu grazie ad un nuovo tool di modifica degli ambienti, completamente personalizzabile in tempo reale, che il team realizzò la flora di Cyrodiil, più bella che mai in virtù della risoluzione aumentata e delle novelle features d'illuminazione dinamica, rese possibili dalle nuove tecnologie fisiche e di rendering. Un bel colpo d'occhio, che assieme ad un ridisegnato sistema comportamentale per gli abitanti del mondo di gioco (denominato Radiant A.I.) garantiva buona copertura per le poche, reali novità introdotte in Oblivion. La possibilità di entrare, tramite i portali dell'Oblivion, nel mondo dei Daedra (la razza demoniaca dell'ambientazione) fu la caratteristica cardine del titolo in quanto prima assoluta nella saga e ottimo spunto per donare un lato oscuro e grottesco ad un mondo di gioco luminoso e lussureggiante. La quarta iterazione del franchise fu caratterizzata anche dall'inserimento di un doppiaggio completo, che coprì ogni singola linea di dialogo, apportando maggior spessore all'esperienza. Rolston, in realtà, non fu mai orgoglioso di questa scelta imposta dall'alto (Morrowind aveva i testi solo parzialmente doppiati) e le critiche della stampa per il contenuto cast di doppiatori e la poca ispirazione della maggior parte dei dialoghi gli diedero ragione. "È quello che vogliono i ragazzini!" spiegò ironicamente interrogato sull'argomento. Ci fu un fattore però che Rolston non riuscì mai a chiarire, ed era legato all'evidente incoerenza di densità della popolazione di Cyrodiil rispetto a quanto narrato nei libri trovati all'interno dei precedenti capitoli della saga. Dettagli di pignoleria.

Urlare salva la vita

Oblivion e successive espansioni (Knights of the Nine, Shivering Isles) furono un ottimo successo di critica e di vendite, ma non riuscirono nell'obiettivo di Bethesda di sdoganare il proprio open-world, fallendo nel tentativo di portarlo anche nelle case dei meno avvezzi al genere. I fan continuavano ad apprezzare l'impostazione, la profondità e l'impegno tecnico profuso dal team americano, ma serviva un modo per catturare l'attenzione anche di chi non avesse mai preso in mano un gioco di ruolo. Todd Howard scelse di rimanere e guidare nuovamente Bethesda nella realizzazione di un nuovo The Elder Scrolls, con tutta l'ambizione necessaria per farne il capitolo definitivo. Quando nel 2008 iniziarono i lavori di sviluppo di The Elder Scrolls V: Skyrim, Howard non considerava l'attuale generazione come un collo di bottiglia. Per tale motivo non ci furono dubbi: la tecnologia a disposizione avrebbe permesso di soddisfare tutti i desideri di design del team, non vi era quindi motivo di posticipare i lavori. Il titolo uscì nel 2011 e, come in ogni episodio che lo aveva preceduto, il motore grafico fu rinnovato completamente e reso capace di portare la saga ancora più in alto.

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Il Creation Engine permise un miglioramento sostanziale della draw distance, ora estremamente fedele al campo visivo proposto a schermo, e delle ombre, create dinamicamente da qualsiasi oggetto animato e inanimato presente in relazione alla fonte di luce. Considerando che la flora dei capitoli precedenti era disegnata utilizzando un tool denominato SpeedTree, software specificatamente creato per tale obiettivo, fu quasi ironico per il team scoprire che il Creation Engine appena partorito permettesse, nella sua generalità, una gestione della flora di gran lunga superiore allo SpeedTree stesso. I nuovi strumenti permisero quindi di trovare in Skyrim più coerenza nel mondo circostante rispetto a Oblivion. Se nel quarto episodio i dialoghi zoomavano nei volti dei dialoganti, sospendendo l'azione attorno il giocatore, in Skyrim tutto il flusso scorreva indifferentemente dalle singole azioni o dai dialoghi, producendo la giusta credibilità nell'ambientazione circostante. Il Radiant AI fu migliorato considerevolmente, permettendo finalmente l'interazione completa tra personaggi in maniera del tutto estranea alle azioni del giocatore e capace di creare dinamicamente in differenti contesti situazioni ludiche inaspettate, che potevano anche avere come soli protagonisti i personaggi del mondo di gioco. Escludendo l'interfaccia, interamente ridisegnata ed estremamente più fruibile, Skyrim non introdusse sostanziali novità alla struttura di gioco, limitandosi a prendere quanto di già costruito ed assodato negli anni e approfondirlo. Ed esattamente come i portali di Oblivion, Skyrim scelse di prendere i nuovi elementi di ambientazione inseriti e farci ruotare la struttura ludica dell'intero episodio. Gli elementi in questione furono legati alla presenza, finalmente attiva e consistente, dei Draghi come elementi vivi del mondo, capaci di apportare il giusto contributo di epicità reso possibile dalle moderne tecnologie. Legato al nuovo bestiario fu inserita la capacità del protagonista di apprendere particolari abilità chiamate Urli del Drago, su cui è basata la trama principale e sulla quale si dipana tutto lo sforzo di Bethesda nel rendere storicamente credibile queste aggiunte. Per la creazione dei Draghi e del loro linguaggio Howard creò infatti un team apposito, che affiancato da un algoritmo di generazione casuale dei Draghi nella mappa rese pulsante e gratificante la loro minaccia e relativa vittoria in combattimento da parte del giocatore. Skyrim, come da tradizione, non si concluse al capitolo principale, ma fu supportato nei mesi da diverse espansioni (Dawnguard, Heartfire, Dragonborn) che conclusero il ciclo delle terre nordiche del mondo di Tamriel.

Post-Daggerfall 2.0?

E' indubbio che Bethesda stia da tempo già pensando, e magari sviluppando, gli strumenti che andranno a comporre le basi del prossimo The Elder Scrolls ufficiale. A meno di una struttura stravolta, è lecito fantasticare su quale sezione di Tamriel sarà confinata la futura release numerata e in che modo gli sviluppatori trarranno giovamento dai muscoli dell'imminente refresh generazionale di console. La speranza rimane ancorata a una differenziazione ancora maggiore dei contenuti esplorativi inseriti, così da rendere l'offerta fresca durante tutta l'avventura, magari affiancandola a nuove features che rendano ancora interessante perdersi nelle flore lussureggianti, dopo due episodi che ne han fatto grande sfoggio. Oppure sarebbe auspicabile vedere arricchite quelle meccaniche che, per quanto nell'immediato ancora divertenti, iniziano irrimediabilmente a tingersi di déjà-vu, deperendo in freschezza con maggiore rapidità.

Vita, morte e miracoli... di The Elder Scrolls

Sognare non costa nulla ed è dovere di un videogiocatore farlo, anche di fronte ad evidenti progetti che rischiano di essere figli di errori del passato. Osservando l'evoluzione di quello che è confermato essere il prossimo spin-off del franchise, ovvero The Elder Scrolls: Online, il pensiero torna irrimediabilmente a quelle espansioni di Daggerfall di fine anni '90, esperimenti fallimentari poiché troppo slegati da ciò che era effettivamente la saga dalla quale prendevano il nome. Il nuovo MMO di Bethesda legato al proprio universo fantasy più famoso dovrebbe uscire nella fine del 2013 e promette di includere tutto il continente di Tamriel. In realtà, all'inizio ve ne sarà solo una parte, con le rimanenti già pianificate per essere aggiunte da future espansioni (a pagamento?). In sviluppo da ormai 6 anni dal team ZeniMax Online Studios, un sussidiario di ZeniMax, attuale proprietaria di Bethesda, l'episodio avrà una struttura che abbraccerà le logiche da gioco di ruolo online, prendendo in prestito l'ambientazione nella sua interezza. Geografia e razze saranno elementi già noti, di meno lo sarà il contorno storico poiché il titolo sarà un prequel a tutti gli effetti, ambientato diverse centinaia di anni prima gli episodi già narrati. Se la saga di The Elder Scrolls riuscirà a conquistare anche la vetta dei giochi online sarà il futuro a dirlo, le premesse sono ancora nebulose e vi sono pochi elementi oggettivi sui quali discutere. Pessimismo a parte la storia, si sa, è famosa per ripetersi. A Bethesda l'arduo compito di riscriverne lo svolgimento.