0

Chi ha paura del lupo cattivo?

Sicuramente la paura è uno degli stati d’animo più genuini e forse proprio per questo la si cerca in una dimensione parallela come il videogioco.

APPROFONDIMENTO di La Redazione   —   29/04/2004

Ci sono due tipi di sentimenti, quelli semplici e quelli complessi. L’amore è sicuramente del secondo tipo: sull’amore ci si interroga, ci si arrovella, si fanno mille pensieri senza mai riuscire a venirne a capo. Il fascino dell’amore sta proprio in quella condizione incerta che lascia un pensiero denso e irrisolto ad inseguirti per ore. La paura, invece, è un sentimento semplice, arriva diretta sotto la pelle e ci resta senza bisogno di spiegazioni. Fin da piccoli basta l’idea di un lupo cattivo nascosto in un sottobosco nella notte per la promessa di un sonno inquieto, da grandi, l’incertezza di un percorso di vita può portare dubbi che fanno rabbrividire. Chi ha paura del lupo cattivo, allora? Chi sono coloro che non si sentono in imbarazzo di fronte ad una frase così banale, ma che può portare in vita tante sensazioni? Alcuni vogliono avere paura per sentirsi vivi e più forti e, lasciate le fiabe e le filastrocche alle coperte delle notti d’infanzia, si affidano a quel rifugio tenebroso offerto da alcune tra le più blasonate software house dell’home entertainment. Il nostro Matteo Trinelli si lancia in una panoramica su uno dei generi più giovani e popolari del mondo dei videogame, che ha reso interattive le incertezze indotte dalle tenebre, e che vanta sempre più appassionati. Ecco a voi la paura di questi anni. . . quella dei survival horror.
Antonio Jodice

Chi ha paura del lupo cattivo? Ma soprattutto: chi si è armato di cotanta originalità per ideare questo popò di titolo? Se per il primo quesito cercheremo di dare una risposta nelle prossime righe, per il secondo è sicuramente meglio lasciare la risposta celata sotto un no comment molto convenzionale e mai così opportuno. Chiudiamo parentesi e divagazioni per addentrarci nel cupo mondo del survival horror, partendo dalle radici fino ad arrivare all’imminente futuro. Iniziamo proprio dalla frase che dà il titolo a questo speciale. Ci sono luoghi comuni dai quali non si può proprio sfuggire quando si parla di paura. Il ‘lupo cattivo’ vuole semplicemente essere l’emblematica iconografia di quelli che erano i timori legati all’infanzia e ad un certo tipo di credenze popolari. Le stesse fiabe, nella loro innocenza, riuscivano sempre a conficcare almeno un timore nella corteccia cerebrale di ognuno di noi. Che poi fosse un lupo cattivo o una strega invidiosa ha poco rilievo nel nostro contesto, poiché nella mente di un bambino tutto si amplifica inesorabilmente. Da grandicelli invece la questione paura assume, o cerca di assumere, un tono decisamente più razionale. A questo però ci arriveremo fra qualche riga. A proposito di stagioni della vita, i meno giovani di voi probabilmente ricorderanno una trasmissione notturna che andò in onda su Italia 1. Parliamo degli anni ottanta e di Zio Tibia, che fra rubriche (mitico il Festivalbara), filmati e tanto humor nero faceva da anticamera a vere e proprie maratone di film horror. Presumibilmente insignificante ai fini dei nostri discorsi, ma sicuramente indicativo se guardato sotto una sfaccettatura differente. Era, infatti, il periodo di maggiore successo per le pellicole di matrice horror, che videro poi una crisi nera e fitta nel decennio seguente, che per assurdo segnò la nascita del survival. Paradossale e contorto. La confusione che può avervi creato questa prefazione empirica cercheremo di dissolverla passo dopo passo, in un percorso che ci porterà a scoprire Chi ha paura del lupo cattivo.

I am a man who walks alone, and when I'm walking a dark road at night or strolling through the park

Il genere dei survival horror nacque in un periodo di scarso interesse da parte dell’utenza mondiale per mostri e affini vari, almeno nel campo del cinema. Sorprendente invece fu il successo scaturito dai primi esperimenti buttati con una certa voglia di sperimentazione nel campo videoludico. Il primo nome a saltare alla memoria è senza ombra di dubbio Alone in The Dark, al tempo etichettato sotto la voce adventure dalla stampa specializzata di tutto il mondo. L’inconsapevolezza ed il senno di poi, ci si potrebbe scrivere un libro. Ma il boom vero e proprio arrivò grazie alla mano esperta di Capcom ed il primo, leggendario, Resident Evil. Era il lontano 1996, ma gli echi di quell’impresa ancora rimbombano assordantemente nei prodotti attuali. Le geniali trovate di Mikami e soci fecero da battistrada ad un genere che, nonostante non presenti uno stato d’anzianità come quello dei platform o dei picchiaduro, divenne uno dei principali del settore. Resident Evil è sempre stato contraddistinto dal fattore sorpresa, legato perlopiù ad entrate shock dal tempismo pressoché perfetto, e dal principio di non voler lasciare troppo spazio all’immaginazione del giocatore, con scene a dir poco raccapriccianti. Purtroppo la saga, che annovera oramai ben cinque episodi, è andata via via spegnendosi soprattutto a causa della scarsa intraprendenza di una Capcom troppo legata alle radici del suo primo survival horror. Non passò comunque molto tempo perchè le altre softco intravedessero un autentico filone d’oro nel genere, e soprattutto Konami riuscì nell’ardua impresa di combattere ad armi pari con il franchise Capcom senza però fotocopiarne i cromosomi. Parliamo ovviamente di Silent Hill e del suo distintivo aspetto malato, caratterizzato dall’immagine sporca e la nebbia sempre presente, anche per motivi diversi dalle scelte prettamente stilistiche. Nacque così un secondo filone, formato principalmente da un’atmosfera tetra e distorta. Due precisi e differenti modi di portare l’horror nel media ludico dunque: da una parte la violenza visiva di Resident Evil e dall’altra il terrorismo psicologico di Silent Hill. Ai due tronchi principali si sono aggiunte le diramazioni del caso, con molte major impegnate nell’ardua battaglia all’ultimo sangue… e non è un eufemismo. Gli ultimi anni hanno portato sul campo Tecmo, Sony e Nintendo stessa. Titoli come Project Zero, Forbidden Siren ed Eternal Darkness hanno deliziato gli amanti del genere senza far troppo rimpiangere i capostipiti, con trovate che sicuramente porteranno sviluppi negli anni a venire.

When the light begins to change, I sometimes feel a little strange

Associare videogame tanto a produzioni cinematografiche quanto ad opere letterarie risulta un’operazione piuttosto semplice, proprio per gli spunti che i coder hanno preso da questo film o quel libro. La saga di Resident Evil ne è zeppa, soprattutto di quella parentesi cinematografica di quasi trent’anni fa. Il più importante franchise Capcom da sempre abbina alle vecchie e gloriose produzioni di Romero - La Notte dei Morti Viventi ed il seguito Zombi su tutte- i B Movie di stampo splatter degli anni ottanta come Halloween e Venerdì 13. Vedere Raccoon City, la città non troppo ridente in cui è ambientato Resident Evil, infestata di zombie ad occuparne le strade nell’inizio del secondo episodio avrà sicuramente portato alla mente dei fan di Romero le sue illustri opere. Accomunabili invece al cinema dei giorni nostri sono i titoli più sottili, quali Silent Hill e Project Zero. Sembrerà bizzarro, ma un paragone piuttosto plausibile dei giochi sopraccitati è un film molto recente, Darkness. Associare i giochi psicologici del celebre film e la sua splendida trama ai titoli Konami e Tecmo viene quasi spontaneo, nonostante non si palesino spunti o citazioni di sorta. Semplicemente è un binomio piuttosto naturale. Per il gioco Tecmo il discorso si amplifica proprio per le leggende popolar- nipponiche legate ai fantasmi da cui trae a più riprese spunti. A piene mani hanno attinto invece i Silicon Knights dai libri di Edgar Allan Poe nel realizzare il loro controverso ‘capolavoro a metà’ Eternal Darkness, che con la sua meravigliosa narrazione –dislocata in oltre 2000 anni di vicende- è riuscito a catalizzare l’attenzione della gran parte dei giocatori. Le citazioni, oltre a quella testuale d’apertura, sono innumerevoli ed il risultato è un master piece di sceneggiatura.

A little anxious when it's dark

L’anno in corso ci porterà tre sequel di titoli blasonati dall’importanza significativa. Parliamo logicamente di Resident Evil 4, Silent Hill 4 e Project Zero 2. Per quanto la par condicio risulti fondamentale anche nel nostro settore, è insindacabile che il gioco più atteso dei tre sia proprio il ‘numero quattro’ della saga ideata da Mikami-san. I motivi, per quanto numerosi, convergono tutti nella stessa direzione: dev’essere il capitolo della svolta. Dopo anni di pappine riscaldate Capcom ha finalmente deciso di mettere la freccia e di dare una poderosa sterzata al suo franchise principe, soprattutto per l’impostazione (finalmente) full 3D improntata dagli sviluppatori sin dalle prime stesure del progetto. Per il titolo Konami non c’è che da augurarsi la felice continuazione di questa saga sempre più importante, a patto che non venga messa nel cassetto la sperimentazione. Certo che quei pochi elementi sin qui trapelati fanno ben sperare soprattutto per la trama, da sempre punto di forza della saga. Imprigionato inspiegabilmente fra le mura domestiche del suo appartamento, il protagonista cercherà per giorni una via di fuga trovando solamente un mondo parallelo infestato di creature indicibili. Infine arriva anche il seguito di Project Zero, con una Tecmo forte dell’esperienza sul campo accumulata col primo episodio. Non sembrano esserci particolari variazioni, ma solo rifiniture e uno storyline non molto dissimile dal predecessore. Tornerà dunque la macchina fotografica come arma e una protagonista femminile alla ricerca, anche stavolta, di un proprio caro. E se nel primo episodio della saga era un fratello, qui sarà una sorella gemella.

I have constant fear that something's always near

Dopo aver intrapreso un percorso piuttosto lungo, anche se minimizzato all’inverosimile, nell’universo tenebroso dei survival horror ritorniamo sull’infausto titolo di quest’articolo: Chi ha paura del lupo cattivo? O meglio, cosa spinge il giocatore medio a addentrarsi nelle scure lande di questo genere di giochi? La risposta non è certo semplice, e per darla –o quantomeno tentare- servirà una spietata generalizzazione. Sicuramente la paura è uno degli stati d’animo più genuini e forse proprio per questo la si cerca in una dimensione parallela come il videogioco. Sempre viaggiando sull’onda delle ipotesi, il poter togliere le cinture alle repressioni di sorta può avere come effetto principale quello di liberarsi di un fardello. È normale vergognarsi di avere paura di una cosa qualsiasi? Certo, ma è altrettanto normale sfogare i propri timori in un ambiente che esige la paura senza restrizioni. Forse è per questo che un giocatore impugna il pad mettendo nella console un survival horror. Oppure è semplicemente la voglia di emozioni forti, di adrenalina, a spingere la fruizione di questo particolare genere di giochi. O forse è la volontà di testare i propri limiti. Troppe risposte per una sola domanda, tutte legittime e allo stesso tempo fuorvianti. Perché alla fine il survival horror non è altro che un’esperienza che non vorremmo mai vivere nella realtà. In fondo tutti abbiamo un lupo cattivo che ci tormenta i sonni.

Fear of the dark, fear of the dark

Passata la lunga, e doverosa, carrellata di cenni storici e citazioni fin qui sfoderata, arriviamo finalmente a quello che in termini cinematografici potremmo definire il momento clou. Ovvero quell’accozzaglia di elementi che, messi insieme a regola d’arte dagli sviluppatori più subdoli, riescono ad infiltrarsi nelle nostre menti finalizzando l’obbiettivo primario: spaventarci. In altre parole, quando gli elementi tecnici diventano parte integrante del gameplay. Perché nella sottile rincorsa a chi terrorizza maggiormente sono tanti i fattori da tenere in considerazione, ed ognuno pronto a solleticare le parti più esposte delle nostre caratteristiche emotive e ricettive. Pensate ad esempio ad un fotogramma messo apparentemente privo di un senso logico in una sequenza di gioco, un frame dalla violenza visiva così elevata che come un flash di una macchina fotografica stordisce l’occhio e, in questo specifico caso, anche il nostro stato d’animo. Oppure, andando dal lato opposto della barricata, un effetto sonoro che in un determinato frangente di calma (apparente) riesce nel suo fine principe di inquietarci. I trucchi del mestiere sono innumerevoli e sempre più raffinati. La stessa sequenza di caricamento fra una stanza e l’altra proposta nei primi Resident Evil della passata generazione -per intenderci il primo piano della porta che si apriva- riusciva a sobbarcare il giocatore di una tensione notevole, proprio perchè dopo una lasso di tempo relativamente breve l’attesa veniva strozzata dall’inquietante immagine del nuovo schema. Logicamente con tutti gli annessi del caso. Infatti gli ambienti di gioco generalmente vengono studiati con tanti piccoli particolari che contribuiscono ad agevolare lo stato di inquietudine. Nella stanza tipo troveremo pareti coperte di muffa e sangue, un po’ di ragnatele qua e la, una zona d’ombra che incuriosisce e al contempo spaventa; poi vediamo, qualche scritta minatoria, una manciata di insetti a provocare tediosi rumori ed un bel muro squarciato proprio nel mezzo. Quasi li posso immaginare i designer, che divertiti s’illuminano di un’ulteriore idea per terrorizzarci mentre magari si aprono una bibita. E noi poveri, timorosi giocatori ad indugiare sull’antiporta di una stanza ancora da esplorare. Già, perché alla fine qualsiasi gioco del genere deve fare i conti con la sensibilità del singolo individuo e la sua predisposizione verso l’approccio alla paura dettato dagli sviluppatori. Quante volte vi siete trovati nel bel mezzo di un survival horror a dover posare il pad, tirare un sospiro per poi riprendere? Non fate i ganzi perché tanto non ci credo. Magari arrivando ad un punto morto in cui si sta per scoperchiare un background totalmente nuovo, con un nodo in gola che sembra stretto da una cravatta troppo tirata. Oppure con quel groppo allo stomaco che generalmente si ha una sola volta l’anno, più precisamente dopo il pranzo di Natale. Si potrebbe quasi asserire che certe emozioni si provano solo nei survival horror, ma alla fine di questo poco importa.