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Diario del capitano Blazkowich

DIARIO di La Redazione   —   27/11/2001

Diario del capitano Blazkowich

Il capitano Blazkowich ha invaso non solo il castello Wolfenstein ma anche la mia scrivania. Ho infatti in mano una copia americana del gioco che uscirà lunedì prossimo nella nostra madrelingua. Inutile dire che un po' tutti qui in redazione si stanno dando da fare con uno dei titoli action più attesi dell'ultimo biennio, tuttavia in questa sede sarò un po' avvocato del diavolo e dirò quello che non mi è mai piaciuto. In fondo, i lati positivi sono stati a lungo sciorinati in ogni rivista cartacea e online: bello, ben fatto, addictive, texture impressionanti, etc etc. Ora dirò però, da appassionato e fan sfegatato delle creazioni Id, cosa secondo me non è andato bene e che fa sfiorare al gioco l'eccellenza senza, purtroppo, raggiungerla.
Premetto, ad onor del vero, che non ho potuto gustare al massimo dei dettagli grafici perchè il mio pc comincia a dimostrare i suoi due anni, e il motore di Return to Castle Wolfenstein per poter dare gusto alla vista merita di più, molto di più.
Involontariamente ho citato il primo difetto: l'esosità tecnologica. I maniaci dell'upgrade hardware mi daranno addosso su questo tema, ma se c'è un aspetto che deve essere considerato nello sviluppo di un gioco "universale" come questo, è proprio l'adattabilità ai vari sistemi, senza eccessivo sacrificio.
Tuttavia non è su questo punto su cui vorrei puntare il dito, ma sulla pesante eredità di Quake 3 Arena, da cui il gioco ha preso tutto l'engine, e anche di più. La prima volta che vidi un'alpha di Castle Wolfenstein fu a Los Angeles, nel maggio 2000. Non solo. Dopo aver gustato il gioco in fiera (all'Electronic Entertainment Expo appunto), ebbi anche l'occasione di compiere una soddisfacentissima visita alla sede della Gray Matter, la software che si è occupata per conto di Id Software del vero e proprio sviluppo del gioco. Credo di essere stato uno dei primi mortali a meravigliarmi dei concept art di William J. Blaskowich, il protagonista del gioco, direttamente su un album di fogli di carta disegnati a china, sfogliato da Greg Goodrich in persona, producer del gioco. Ragazzi simpaticissimi, in gamba e pienamente consapevoli (e terrorizzati) della responsabilità di cui si erano fatti carico proponendo a Activision e Id di far resuscitare il capitano dall'olimpo dei videogiochi a cui era stato consacrato dieci anni prima.
Perchè parlo di "pesante eredità di Quake 3 Arena"? Utilizzare l'engine dell'ultima fatica Id, se da una parte ha consentito al team di concentrarsi sul plot del gioco, dall'altra ne ha marchiato strettamente le caratteristiche fisiche. Da quel famoso maggio la mia più grande speranza è stata che si riuscisse a dare quel tocco di realismo a Castle Wolfenstein che a Quake 3, per ovvie ragioni, manca. Troppa velocità, tanta frenesia, l'impressione di volare nei corridoi come con una macchina di GT3 in un tunnel a 250 kilometri orari. Se in Quake 3 queste caratteristiche hanno un senso, in Castle Wolfenstein ce l'hanno un po' meno.
Purtroppo la mia speranza tenuta in vita negli ultimi due anni si è infranta nella realtà del gioco.
Il secondo (o il terzo) appunto che voglio fare è sull'old-concept style del gioco, a punteggio, con caccia ai tesori e ai segreti nascosti. In questo il nome del gioco non poteva essere più azzeccato: Ritorno al Castello Wolfenstein. Più ritornato di così, si muore. Ma non avevamo bisogno di qualche vera innovazione?
Allora, se andiamo oltre l'impatto grafico, che ho comunque apprezzato sui pc dei vari Almor e Uoz, rimane un gran bel gioco prigioniero di sé stesso e delle sue enormi aspettative. In questo momento mi sento come uno di quei noiosissimi critici cinematografici appassionati di Stanley Kubrick che, guardando la sua opera incompiuta A.I. - Intelligenza Artificiale completata e diretta da Steven Spielberg, hanno detto "manca la mano del maestro". Eppure il film è bello. Ma è così, e poco ci posso fare.