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Storia del Platform - Vol.2

La seconda ed ultima parte del nostro speciale dedicato ai Platform, che ripercorre la storia di questo genere dall'epoca del Sega Saturn ai giorni nostri.

SPECIALE di Alessandro Bacchetta   —   29/07/2004
Nintendo e i platform
Nintendo e i platform
Immagini

I 32-64 bit

Questa generazione è stata all’insegna della lotta tra Nintendo, col suo Nintendo 64, e una esordiente Sony, con Play Station. La prima ad arrivare sul mercato, ma anche la prima ad andarsene, fu SEGA col suo Saturn, una console a cd. Una macchina che, nonostante alcuni capolavori, si può certamente definire fallimentare, soprattutto dal punto di vista commerciale. Il Saturn ospitò alcuni buoni platform 2d, tra i quali il bellissimo NiGHTS del Sonic Team, e alcuni pessimi platform 3d; la cosa che fece più scalpore era la totale assenza di un gioco 3d di Sonic, la mascotte storica della società, presente solamente in Sonic 3d Blast, del quale vi abbiamo parlato nella prima parte dello speciale, già uscito su Genesis, e in Sonic Jam, una collezione di giochi bidimensionali della generazione a 16 bit. Oltre a Sonic sparirono anche colonne portanti del genere come Alex Kidd e Wonder Boy, giochi che tuttora, al contrario del porcospino, non sono usciti dal dimenticatoio. Il Saturn venne presto stritolato dalla PSX che, dopo un primo periodo non esaltante, cominciò la sua ascesa verso il successo. Anche la console Sony, quella con la ludoteca più completa della storia dopo il glorioso Super Nintendo, non aveva tra le sue file un platform che sarebbe stato ricordato negli anni a venire e questa, probabilmente, è la sua più grave lacuna. Al contrario il Nintendo 64, console rinomata per la scarsa quantità di titoli posseduti, poteva contare su una folta schiera di grandi platform 3d, a partire da Super Mario 64, il gioco che inventò il genere. Sicuramente la console coi migliori Jump’n’Run di questa generazione fu proprio la terza console casalinga della Grande N, grazie alla grandiosa accoppiata Nintendo / Rareware.
Cominciamo il nostro viaggio partendo proprio dal gioco più importante dai tempi di Super Mario Bros, Super Mario 64…

Super Mario 64

Non è il primo in ordine cronologico, ma lo è in ordine d’importanza, e non si può che partire da lui: Super Mario 64, il miglior gioco di Miyamoto, il miglior gioco Nintendo di tutti i tempi. Super Mario 64 ha creato un nuovo genere, quello dei platform 3d, mantenendo intatto lo spirito dei vecchi episodi bidimensionali, ma rivoluzionandoli completamente. Non si è limitato a trasportarli in tre dimensioni, ma ha cambiato dalla prima all’ultima parte il concept del gioco. Niente più stage da percorrere dall’inizio alla fine, ma un serie di livelli da esplorare collegati da una zona base, che era il castello di Peach. Questa formula sarebbe stata ripresa da praticamente qualunque altro gioco di questo genere, ma nessuno ancora oggi è riuscito ad evolverla in qualche modo. All’interno dei livelli, che erano di vario genere (desertici, innevati, nei boschi, nelle montagne e così via), si dovevano raccogliere sette stelle che si ottenevano esplorando lo stage o completando alcune missioni assegnateci prima di entrare nel livello. Mai ripetitivo o banale, sempre originale e geniale; sia nel castello che nei livelli. Essendo un titolo Nintendo, non poteva che eccellere nel gameplay, ed è proprio grazie alla qualità di quest’ultimo che Mario 64 può essere definito probabilmente l’unico gioco perfetto, nel senso che è esente da difetti, non insuperabile, della storia. Oltre ad essere rivoluzionario come lo fu solamente Super Mario Bros. prima di lui, vantava anche una giocabilità e un level design incredibili, che dopo ben otto anni gli consentono ancora di rimanere il migliore nel suo genere, al contrario di SMB che venne superato agevolmente da diversi altri titoli. Mario poteva compiere molte azioni, cazzotti, scivolate, ma soprattutto salti, un gran numero di salti: salto in alto, salto in lungo, salto triplo e salto all’indietro; non mancavano nemmeno i power-up, rappresentati da tre cappelli che rendevano Mario metallico, invisibile e gli davano anche la storica possibilità di volare. L’interazione con il mondo circostante era semplicemente incredibile, e la grafica era semplicemente impressionante: maestose costruzioni poligonali e una camera ancora oggi invidiata da molti titoli. Oltre a presentare un nuovo genere ed essere praticamente perfetto in ogni suo aspetto, compresa la longevità, Mario 64 introduceva per la prima volta in un videogioco casalingo anche il controllo analogico, che faceva semplicemente impallidire il contemporaneo Tomb Raider. Se in tutta la vostra vita potete giocare solo ad un gioco, Super Mario 64 è sicuramente il rappresentate più accreditato. Inutile dire che chiunque non l’abbia giocato a fondo non si può definire un serio giocatore. L’ultimo gioco diretto da Miyamoto, la sua più grande opera.

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Astal

Torniamo indietro nel tempo, all’epoca ante-Mario 64, quando ancora i platform 3d non esistevano. Il Saturn era un console creata per generare un’ottima grafica 2d, e anche questo contribuì al suo insuccesso, visto che il 3d e i poligoni presero inevitabilmente il sopravvento; fatto sta che la console SEGA in ambito bidimensionale era una spanna sopra la rivale a 32 bit di Sony. Uno dei platform 2d più belli, pubblicato da SEGA stessa, era Astal, passato un po’ inosservato proprio a causa della sua natura bidimensionale.
La storia era piuttosto originale rispetto agli standard abituali del genere: Astal, il protagonista, partì alla ricerca della sua bella, Leda, rapita da un demone, Geist. Il prode riuscì a salvarla senza molte difficoltà, ma per farlo uccise molti nemici, facendo così imbestialire il creatore di quel mondo, che per punizione lo fece incatenare. La povera Leda però venne rapita di nuovo, e Astal si liberò dalla prigionia per partire alla sua ricerca.
Il concept era quello classico dei platform 2d, bisognava attraversare il livello da sinistra verso destra. Il protagonista poteva ovviamente saltare, ma per uccidere i nemici la mossa principale era quella di raccoglierli e scaraventarli via, un po’ come in Super Mario Bros. 2 USA. Ovviamente c’erano altri attacchi, come un salto che permetteva di far tremare il terreno e uccidere i nemici “ad area”. Astal era costantemente accompagnato da un volatile, che aiutava il nostro amico attaccando anch’esso gli avversari, a patto di aver raccolto dei determinati oggetti lasciati dai nemici. L’uccello poteva essere usato anche in altri modi, come per volare o al posto di una piattaforma per saltare burroni altrimenti invalicabili. Il titolo SEGA era composto da sedici livelli, sedici livelli purtroppo abbastanza lineari. Non c’erano strade alternative, solo un sentiero che bisognava percorre dall’inizio alla fine, purtroppo senza dover raccogliere niente o scovare qualche segreto, poiché il gioco ne era privo. Insomma, una volta, finito, Astal non offriva più nulla il giocatore; nonostante questo il level design, pur non essendo originale e riproponendo ostacoli e meccaniche già viste in precedenza, era ben fatto. Buona anche la giocabilità ed il sistema di controllo, affidabile e preciso.
La grafica era sicuramente la parte migliore del gioco, Astal era uno dei primi giochi a mostrare la potenza della console che lo ospitava. Ottime animazioni, niente rallentamenti, scenari dettagliati e bello stile. Lottare contro i giganteschi boss, tra l’altro animati da favola, era una della parti più soddisfacenti del gioco. Un gioco non innovativo, ma sicuramente un buon rappresentate del genere.

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Silhouette Mirage

Uno dei miglior platform 2d per Saturn, se non in assoluto. Silhoutte Mirage uscì nel 1997 grazie alla bravissima Treasure, già autrice di un altro grande platform chiamato Dynmite Headdy uscito su Genesis. Il giocatore prendeva il controllo di una strega, che aveva il vestito diviso in due colori, rosso e blu. Alcuni nemici potevano essere uccisi solo con una parte del suo vestiario, perciò era il giocatore che tramite il suo intuito doveva capire qual’era il modo più opportuno di attaccare. C’erano molte armi che consentivano vari tipi di attacco, come la pistola laser. I controlli erano precisi e l’interazione con gli oggetti su schermo molto buona. Pur non essendo particolarmente originale ne tantomeno innovativo, Silhoutte Mirage era una grande platform, perché, proprio come i giochi Nintendo, lasciava molta libertà al giocatore. Non c’era mai un solo modo per uccidere un nemico, il giocatore non era obbligato a fare quello che gli era imposto dai programmatori, ma stava a lui decidere quando ed in che modo attaccare. C’erano quindi più modi per raggiungere uno stesso obiettivo e questa caratteristica, aggiunta all’ottimo level design e all’impeccabile sistema di controllo, faceva di Silhoutte Mirage un gran gioco. Anche la grafica, come di consueto in un gioco Treasure, era di ottima fattura… un altro gioco che dimostrava l’alta potenza del Saturn nel genere grafica bidimensionale. Sprite grandi, dettagli, coloratissimi e animati in maniera eccelsa, peccato per alcune situazioni troppo caotiche che, oltre a infastidire il giocatore, rallentavano anche il gioco; lo stesso difetto che aveva l’antenato Dynmite Headdy.

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Clockwork Knight 1 e 2

Abbiamo raggruppato i due Clockwork Knight pubblicati da SEGA in un unico paragrafo perché estremamente simili tra loro: Clockwork Knight 2 non era altro che il primo gioco con stage differente, non c’era nessuna aggiunta tale da modificarne il gameplay, e anche la grafica e il sonoro rimasero sostanzialmente gli stessi. In questo platform 2d il giocatore impersonava un giocattolo dal nome impronunciabile, Pepperouchou, alla ricerca della ricerca della principessa dei giocattoli. Il gioco si sviluppava attraverso una decina di livelli tutti ambientati in differenti parti di una casa, come la cucina o il bagno, non pericolose per noi ma piene di inside per un giocattolo alto qualche centimetro. Tom & Jerry per NES, nonostante avesse un gameplay leggermente scadente, aveva la stessa ambientazione di Clockwork Knight, pertanto chi aveva giocato il titolo Kemco poteva farsi di un’idea degli ostacoli presenti in quello SEGA: mattonelle scivolose, animali domestici, molliche, forni, lavandini, tappetti, tubature, soldatini di piombo e via dicendo. Anche Clockwork Knight, come molti altri platform usciti per Saturn, non proponeva nulla di originale, ma era semplicemente un gioco realizzato come si deve in ogni suo aspetto, dal sistema di controllo alla grafica. Quest’ultima, nonostante non fosse dotata di strutture poligonali, ricreava egregiamente l’effetto delle due dimensioni e mezzo introdotto da Klonoa, gioco che tratteremo più avanti.
L’interazione con gli oggetti era ben fatta, e soprattutto la fisicità dei contatti coi nemici ben riprodotta. Il sistema di controllo, di stampo classico, era comunque preciso. Impegnativo nonostante il numero non esagerato di livelli, dotato di molteplici vie da seguire e segreti, Clockwork Knight era lungo e rigiocabile.

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Sonic Jam

Nel 1997, ovviamente pubblicato da SEGA, uscì l’unico gioco in esclusiva su Saturn, esclusi spin-off, di Sonic. Come già accennato all’inizio dell’articolo, anche Sonic Jam non era certo un titolo totalmente originale, ma più semplicemente una raccolta dei primi quattro giochi dell’adorato e leggendario porcospino blu: Sonic the Hedgehog, Sonic the Hedgehog 2 (entrambi versione Genesis), Sonic the Hedgehog 3 e Sonic & Knuncles, con la possibilità di collegare quest’ultimo per generare il gioco che si otteneva dall’unione delle due cartucce. Per ulteriori delucidazioni su questi giochi non vi resta che leggere i paragrafi a loro dedicati nel primo volume dello speciale, poiché le differenze tra i titoli originali e quelli riproposti in Sonic Jam sono minime. La difficoltà di tutti e quattro i titoli venne leggermente abbassata, e vennero tolte anche alcune delle sezione bonus segrete. Completando i vari giochi si sbloccava materiale bonus su Sonic, come i manuali delle versioni originali dei giochi, sia Giapponesi che Americani, delle parti tratte dal cartone animato o dal fumetto, e altri extra di questo tipo. Anche in questo caso SEGA si ispirò a Nintendo, che aveva già fatto una raccolta di questo tipo su Super NES, Super Mario All-Stars, gioco che conteneva i primi tre Mario più Lost Levels. Peccato che Sonic Jam non apportasse miglioramenti grazie alle maggiori potenzialità del Saturn rispetto al Genesis, come invece fece Super Mario All-Stars coi suoi giochi. Insomma, un disco da avere sia per chi non aveva giocato questi bellissimi giochi su Genesis, sia per i collezionisti, ma decisamente non abbastanza per sfamare la fame di Sonic dei fan del porcospino. Un nuovo episodio 2d non arrivò mai su Saturn, tantomeno uno poligonale in 3d, tutti i fan avrebbero dovuto aspettare l’era del Dreamcast, l’ultima console, non solo in ordine cronologico, della grande S. Che non è la Sony.

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NiGHTS into dreams...

Questo gioco uscì nel 1996 grazie a Yuji Naka e al suo Sonic Team, ovviamente per Saturn. Il titolo venne purtroppo oscurato da Super Mario 64, suo contemporaneo, purtroppo perché NiGHTS è uno dei migliori giochi di sempre. Non era un platform puro, però, siccome è catalogato come tale, non inserirlo sarebbe stata un’offesa a voi giocatori. NiGHTS è un videogioco magnifico che propone un’esperienza unica e psichedelica al giocatore. La storia era semplice e serviva più che altro per mandare il giocatore all’avventura: come si evince dal titolo, NiGHTS Intro dreams… era ambientato nei sogni di due bambini, un maschio e una femmina. Il vostro compito era quello di difendere i loro sogni dall’attacco di creature maligne che cercavano di tramutarli in incubi, e dovevate intraprendere l’avventura con un bellissimo e fantasioso personaggio chiamato Nights. Il gioco aveva un gameplay grandioso e un’atmosfera incredibile, ed è stata questa miscela a renderlo una leggenda. Provate ad immaginare come ricreare in un videogioco il mondo sei sogni, un mondo assolutamente privo di logica e coerenza; apparentemente impossibile, evidentemente non per il Sonic Team. Grazie alla grande colonna sonora e all’ispirata grafica sembrava veramente di trovarsi in un modo fuori di testa, i livelli erano colorati con colori accesi e decorati con elementi reali, non fantasiosi, ma disposti in maniera tale da confondere e annebbiare i sensi del giocatore, come accade nei sogni. Così ci si imbatteva in una mare che occupava il posto del cielo, in alberi rovesciati, in cascate che fluivano al contrario, e non ci si poteva distrarre un attimo ad osservare il paesaggio perché occupati dal gioco. Proprio grazie al gameplay che impegnava il giocatore costantemente, non permettendogli un attimo di pausa, questi elementi che se guardati accuratamente sarebbero sembrati si strani ma semplicemente fuori posto, creavano assieme alla colonna sonora l’atmosfera psichedelica ricercata da SEGA. Perché il gameplay impegnava costantemente il giocatore? Semplice, non c’era il tempo di fermarsi, bisogna volare, volare e volare attraverso i livelli. NiGHTS non era 3d, poiché l’azione si svolgeva in due dimensioni, ma alcuni repentini movimenti e delle affascinanti inquadrature ricreavano l’effetto del “2d e mezzo”. Il vostro obiettivo era quello di raggiungere la fine del livello, senza toccare mai terra (non si poteva), raccogliendo allo stesso tempo alcune sfere sparse per il cammino. Il vostro percorso era ovviamente ostacolati da nemici di vario tipo, oltre che dal tempo. Una volta che il timer raggiungeva zero però il giocatore non perdeva una vita, ma semplicemente NiGHTS cedeva il posto ad uno dei due bambini, molto più lenti e oltretutto inseguiti continuamente dalla sveglia che, una volta raggiunti, li avrebbe svegliati e avrebbe posto così fine al gioco. Alla fine di ogni stage c’era un Boss, ognuno dei quali diverso dagli altri, così da sollecitare il giocatore a trovare ogni volta un nuovo modo di colpire il proprio avversario.
L’opera più riuscita del Sonic Team, grazie all’abbinamento di un’atmosfera incredibile e un gameplay altrettanto valido se non superiore. Un gioco da provare assolutamente, amanti dei platform o meno, e un buon motivo per comprarsi un Saturn se non lo avete già.
Ne uscì anche una speciale versione natalizia, Christmas NiGHTS, che ovviamente non deve mancare ad ogni collezionista di videogiochi.

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Gex

Sempre nel 1996 Crystal Dynamics diede vita ad un saga che sarebbe poi diventata piuttosto famosa, grazie più che mai ai due seguiti in 3d. Questo primo episodio, chiamato semplicemente Gex, era invece un classico platform 2d, se non fosse per l’anomalo protagonista, un Gecko, e le sue strane abilità e passioni. Per abilità si intendono le sue capacità di arrampicarsi, di usare la coda per colpire i nemici, la lingua per arrampicarsi, spostare i blocchi tramite le zampe anteriori e saltare grazie a quelle posteriori. I controlli erano precisi e il level design era buono, nonostante fosse privo di trovate realmente originali. Non mancavano naturalmente i power-up, Gex poteva diventare invincibile, poteva sputare fuoco, acqua, e fare altre immonde cose che avrebbe imparato nella sua avventura. Più che il gameplay a rendere famoso Gex fu il suo continuo citazionismo: ogni livello erano pieno di riferimenti al mondo del cinema, come lo stage ambientato in un cimitero o quello in una palestra di kung-fu, dove si incontravano zombie che uscivano fuori dalla tomba mettendo la mano per prima cosa fuori dalla terra, proprio come nel famoso film di Romero, o avversari ammirati in film di combattimento orientali. Anche molte frasi dei personaggi, sia scritte che parlate, erano tratte dai film più famosi. Il gioco uscì sia su Saturn che su Play Station, così come…

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Rayman

Il più grande successo recente della Ubisoft, uscì nel 1995 su PSX e Saturn. Sviluppato da un team interno capitanato da Michael Ancel, Rayman era un classico platform 2d realizzato come si deve e con un buon protagonista, componenti che se unite all’epoca rappresentavano un successo sicuro. Rayman è un melanzana con testa, mani e piedi, ma priva di arti che le colleghino alla parte centrale del corpo formata dal frutto, perciò niente bracci, collo o gambe. In compenso la testa era dotata di due grandissime orecchie. Nei primi livelli Rayman sembrava un po’ troppo banale: ostacoli e nemici classici, burroni da saltare, uno stage da percorrere dall’inizio alla fine cercando di aprire più gabbie possibile. Con lo scorrere del gioco invece venivano a galla i suoi pregi, grazie all’apprendimento delle nuove abilità, come che permetteva di planare tramite le orecchie del protagonista. I livelli mano a mano che si avanza divenivano sempre più difficili, i salti richiedevano sempre maggior attenzione, e proprio quando si affrontavano queste complicate situazioni venivano a galla tutti i limiti del sistema di controllo di Rayman, decisamente poco reattivo rispetto alla precisione richiesta al giocatore. Per questo motivo, ma anche per l’effettiva difficoltà di certe sezioni, il titolo risultava frustrante, ma anche una buona sfida per i giocatori più esperti, soprattutto se si volano liberare tutti gli animaletti rinchiusi nelle gabbie. I livelli non erano molti, ma erano molto impegnativi, e proprio l’ultimo era un piccolo capolavoro di design: avendo ormai tutte le abilità, lo stage era molto vario e proponeva enigmi veramente originali. Purtroppo ne Ubisoft ne Ancel si sarebbero ripetuti nei due seguiti poligonali in 3d, nonostante entrambi i giochi avrebbero ottenuto un ottimo successo grazie alla fama procurata loro dal primo episodio.

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Rayman 2: the Great Escape

Il seguito di Rayman uscì nel 1999, sempre da Ubisoft, su PSX, Nintendo 64, PC e, successivamente, Dreamcast, con le ovvie differenze grafiche. Ci sono due tipi di platform 3d: quelli che hanno copiato Mario 64 e quelli che, come Rayman 2 o il più famoso Crash Bandicoot, cercano di riproporre l’antica meccanica dei platform 2d. Semplicemente, al posto che da sinistra verso destra, in Rayman 2 gli stage scorrevano in profondità, ma pur sempre linearmente, sfruttando così minimamente le tre dimensioni. Il livello di difficoltà rispetto al predecessore venne abbassato, anche se il numero di segreti aumentò esponenzialmente. Il gioco non era male, il sistema di controllo era preciso, la curva d’apprendimento esemplare, buona varietà di situazioni, peccato per una pessima camera. Il problema è che la qualità della meccanica dei platform 2d adattata alle tre dimensioni non sarà mai alta, non diverte quanto quella a scorrimento orizzontale ne tantomeno quanto quella dei platform nuovi e di natura esplorativa alla Mario 64. Ci sono altri modi per far rimanere intatto il feeling del giocatore con un brand famoso, non c’è bisogno di ricreare lo stesso identico gioco in tre dimensioni cambiando leggermente le carte in tavola. Rayman 2 resta comunque un gioco discreto, con un lodevole sistema di controllo, decisamente di un altro livelli rispetto al suo sequel, Rayman 3.

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Ape Escape

Ape Escape, sviluppato dagli studi interni di Sony, è probablimente il miglior platform mai uscito su PSX. Pur non essendo un capolavoro, era sicuramente molto originale, e sfruttava appieno le possibilità offerte dal doppio stick analogico, introdotto qualche anno prima nella seconda versione del pad Play Station. La meccanica era quella collaudata alla Mario 64, solo che negli stage, al posto delle stelle, bisognava raccogliere delle scimmie. Il protagonista, un adolescente, pur non potendo contare su molte mosse, tra le quali ovviamente c’era il salto, aveva a disposizione un alto numero di power-up, come spade laser, remi e, soprattutto, un retino. Il retino serviva per acciuffare le scimmie che, una volta avvistate, facevano di tutto per non farsi prendere. L’originalità del titolo stava nella funzione dello stick analogico destro, che serviva per comandare il braccio destro del protagonista, qualunque oggetto esso impugnasse. La varietà degli attacchi era quindi altissima, poiché il tutto, nonostante alcuni problemi sulla precisione dei controlli, era stato realizzato egregiamente. Per il resto Ape Escape era un platform sulla norma, ben fatto, ma senza trovate degne di essere ricordate. Piuttosto longevo, all’epoca era sicuramente un gioco da provare.

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Crash Bandicoot 1, 2 e 3

Nel 1996 uscì il primo episodio di un fortunata serie ideata da Jason Ruby, all’epoca dipendente della Naughty Dog. Fortunata sia commercialmente che nel vero senso della parola, poiché Crash Bandicoot era al momento giusto nel posto giusto. Le mascotte a quell’epoca erano ancora importanti, Nintendo era rappresentata da Mario e SEGA da Sonic, infatti, nonostante il porcospino non fosse apparso su Saturn, la sua notorietà era ancora alta. Sony era l’unica delle tre contendenti ad esserne priva, e non era certo così stupida da lasciarsi scappare Crash, che grazie alla sua simpatia diventò per i bambini l’emblema della console. Man mano che Play Station incrementava il suo distacco dalle contendenti, Crash proporzionalmente diveniva più famoso, fino a superare addirittura il porcospino SEGA. Il successo di Crash Bandicoot, più che al gioco, va quindi attribuito alla fama della console che lo ospitava e alla simpatia del suo protagonista, che seppe attirare un vasto pubblico di utenti. Crash Bandicoot aveva una meccanica alla Rayman, quindi classica: bisognava semplicemente arrivare alla fine dello stage, che si sviluppava principalmente in profondità, evitando precipizi e uccidendo nemici saltando loro in testa. Ogni stage nascondeva un cristallo segreto da trovare, e ovviamente lungo il percorso c’erano molte monete, pardon, mele, da raccogliere. Terribilmente banale e scontato, Crash riusciva a farsi giocare grazie più che mai ai tanti mezzi cavalcabili dal protagonista, e ai boss discreti alla fine di ogni “mondo”. Ovviamente, visto il successo del primo episodio, ne vennero sviluppati altri due, che si differenziavano dal primo solo per i diversi personaggi e mezzi di trasporto.
Crash Bandicoot è il simbolo del declino dei platform, tanto che ancora oggi, nel 2004, nessuno si è accorto della sua carenza ludica, ma al contrario è ancora più di prima uno dei simboli del mondo dei videogiochi, tra i giovani probabilmente anche più rappresentativo di Mario.

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Spyro 1, 2 e 3

Spyro uscì nel 1998 grazie alla fatica di uno degli studi interni Sony. Il gioco, un platform 3d alla Mario 64, aveva per protagonista un piccolo drago viola, e proprio lui, tramite le sue mosse, rendeva Spyro, che altrimenti era un classico platform; un classico platform, comunque, realizzato molto bene. Il design dei livelli era intelligente, nessun ostacolo era posizionato a caso, e gli stage, nei quali bisognava raccogliere delle gemme, garantivano una certa varietà a Spyro. Il drago poteva fare piccoli voli, usare la sua coda per colpire i nemici e, ovviamente, sputare fuoco. Sicuramente, pur non essendo un gioco eccelso, era molto meglio di Crash Bandicoot. Tra l’altro la serie migliorò notevolmente col passare del tempo, tanto che il terzo episodio è sicuramente il migliore mai uscito. I controlli già precisi nel primo episodio vennero perfezionati, mentre tutti e tre i giochi, piuttosto simili tra loro, soffrono di problemi alla telecamera. Tra i platform 3d per PSX, Spyro è secondo solamente ad Ape Escape.

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Gex: Enter the Gecko, Gex 3 e Gex 64

Tutti e tre i giochi vennero sviluppati da Crystal Dynamics, già autrice del primo episodio, e uscirono su PSX (Gex: Enter the Gecko e Gex 3) e su Nintendo 64 (Gex 3 e Gex 64). Lo spirito del primo episodio bidimensionale rimase intatto grazie alle tantissime citazioni, presenti addirittura in maggior misura in queste versioni 3d. Ovviamente i giochi usciti su Nintendo 64 avevano una grafica migliore, ma il gameplay era praticamente identico. Gex aveva le solite abilità: poteva arrampicarsi, spostare oggetti, saltare, mangiare e colpire nemici con la sua lingua e con la coda. La struttura era alla Mario 64, in ogni livello bisognava raccogliere determinati oggetti che variavano a seconda del gioco. Tutti e tre i Gex avevano una buona curva d’apprendimento e garantivano negli ultimi livelli una buona sfida, anche ai giocatori più esperti, soprattutto negli scontri coi boss. I giochi erano pieni di battute, e le versioni per Nintendo 64 sotto questo aspetto ci perdevano un po’, perché il parlato era ridimensionato rispetto agli originali su PSX.
Giochi piuttosto divertenti e impegnativi, purtroppo minati da dei controlli poco reattivi e dalle pessime camere, difetti che in un platform contano parecchio, soprattutto se ci sono, come in Gex, sezioni in un cui bisogna compiere dei salti millimetrici. Su Play Station erano tra i platform 3d più divertenti, ma su Nintendo 64 c’era di molto, molto meglio.

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Klonoa

Klonoa, sviluppato e pubblicato da Namco, uscì su PSX nel 1997, ed è il titolo che completa il trio dei platform in esclusiva su Play Station che ogni appassionato dovrebbe giocare: Ape Escape, Spyro 3 e, appunto, Klonoa. Il platform Namco su il primo ad introdurre propriamente il famigerato 2d e mezzo; il gioco si sviluppava in due dimensioni, l’inquadratura era di lato, ma grazie alla grafica poligonale si poteva interagire con ogni elemento su schermo, anche quelli in profondità. Così, se si notava una porta su una parete che componeva lo sfondo, si poteva attraversare, e la camera a quel punto ruotava velocemente fino a riportare l’inquadratura di lato. Questo è uno degli esempi più semplici, infatti quest’introduzione dava nuova linfa vitale ad una meccanica ormai vecchia di quasi quindici anni, peccato che Klonoa sia stato imitato da pochi giochi. Oltre che a queste modifiche del gameplay, la grafica poligonale consentiva anche rotazioni e inquadrature impensabile per i vecchi giochi 3d, e questi aspetti, sommatti a uno stile adorabile, rendevano Klonoa estremamente piacevole da osservare. Anche il protagonista era piuttosto azzeccato. Le mosse a disposizione del giocatore erano quelle classiche, c’erano più tipi di salto, e si doveva sparare ai nemici, non saltargli in testa. L’obiettivo era quello di raggiungere la fine del livello, cercando allo stesso tempo di raccogliere più oggetti possibile. Klonoa era composto da molti stage, ma erano tutti molto facili, perciò non era lungo o rigiocabile, visto che i segreti erano pochi.
Un gioco originale e ben realizzato, indubbiamente da provare.

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Ganbare Goemon 1, 2 e 3

Anche PSX ebbe i suoi Goemon, il primi due uscirono nel 1996 e il terzo nel 2001, che purtroppo rimase confinato nella terra del Sol Levante. Quello del 1996, chiamato semplicemente Ganbare Goemon, manteneva la classica meccanica della serie, ovvero un riuscito mix tra un action-rpg e un platform. Si poteva scegliere se affrontare il gioco con Goemon o Ebisumaru, che naturalmente erano dotati di diversi caratteristiche. C’era un buon numero di power-up da acquistare all’interno dei villaggi, nei quali si svolgeva la maggior parte del gioco, a scapito delle sezioni platform: proprio per questo Konami scelse di togliere la modalità multiplayer in cooperativa, autentica punta di diamante della serie. Così il primo episodio riscosse scarso successo, perché era bidimensionale quando tutti si aspettavano un salto nelle tre dimensioni, non aveva la modalità multiplayer e conteneva delle parti platform corte e scadenti, oltre ad essere ripetitivo. Il suo successore, che uscì nello stesso anno, manteneva la stessa impostazione, ma era totalmente poligonale, anche se con la visuale ancora dall’alto. Era molto meglio del primo, perché ne correggeva i difetti, migliorando le parti platform e aumentando la varietà sia dei livelli che degli enigmi. Purtroppo, non venne introdotta nemmeno in questo caso la modalità multiplayer.
Col terzo e ultimo episodio per psx, sottotitolato Ooedo Daikaiten e uscito nel 2001, Konami tornò finalmente alle vecchie abitudine: niente poligoni, ma modalità a due giocatori. Ooedo Daikaiten ricalcava i fasti degli episodi per SNES, ne era praticamente una versione con la grafica migliore. Addirittura, per sottolineare ancora di più il ritorno ad una natura principalmente platform, il mondo venne diviso in livelli. Sicuramente il più classico e il migliore dei tre, anche se, per un appassionato del Mistical Ninja, i giochi da avere sono certamente quelli su Nintendo 64.

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Banjo-Kazooie

Eccoci arrivati ai platform per Nintendo 64. Banjo-Kazooie, dopo Super Mario 64, è sicuramente il miglior esponente di questo genere, non di questa generazione ma in assoluto. Super Mario 64 e Banjo-Kazooie, inoltre, sono gli unici due platform 2d al mondo che possono essere definiti capolavori senza riserve. B-K uscì nel 1998, grazie alla collaborazione tra Nintendo e Rareware. Il personaggio principale, alla sua prima apparizione da protagonista, era Banjo, un orso che portava sempre con se in uno zaino Kazooie, un picchio. La struttura era presa direttamente da Mario 64, solo che rispetto al titolo Nintendo B-K proponeva meno livelli, solamente otto, ma più grandi. La maggior differenza tra i due titoli era che in Banjo Kazooie il giocatore era totalmente libero di raccogliere i jigsaw, dei pezzi di puzzle con la stessa funzione delle stelle in Mario 64, senza seguire alcun ordine. In Mario 64 una volta presa una stella si usciva dal livello, mentre in Banjo Kazooie si poteva restare dentro fino a quando non avevamo raccolto tutti gli oggetti; anche i livelli che in Mario 64 variavano a seconda della missione, in Banjo-Kazooie restavano ovviamente sempre uguali. Se un metodo consentiva ai programmatori di cambiare a piacimento un livello inserendo degli elementi che non c’erano nella missione precedente, l’altro regalava una maggior libertà al giocatore; in questo caso non era uno migliore dell’altro, erano semplicemente diversi. I livelli di Banjo-Kazooie erano pieni di roba, ancora più di quelli di Mario, ed avevano un design semplicemente fantastico, un design che non sfigurava rispetto al titolo Nintendo. Le missioni erano molte varie tra loro, B-K non era certamente un titolo ripetitivo. La grafica era bellissima, in puro stile Rareware, e i rallentamenti erano rarissimi; anche la camera, spesso punto dolente dei platform 3d, era implementata egregiamente. Il controlli, pur non essendo intuitivi e precisi come quelli di Mario 64, erano sicuramente ottimi e abbastanza reattivi. Le mosse a disposizione del dinamico duo erano molte sin dall’inizio, tanto che B-K fu il primo titolo ad avere un tutorial vero e proprio all’inizio dell’avventura. Col passare dei livelli, però, tra power-up e acquisizioni di abilità varie, le capacità dei due eroi superavano e quasi doppiavano quelle di Mario: salto normale, salto all’indietro, salto in salto, capriola, beccata, corsa, volo, planata e tante altre ancora. L’altro aspetto che rende Super Mario 64 superiore a Banjo-Kazooie è proprio questo, ovvero il numero di mosse. Mario nell’arco dell’avventura otteneva solo tre power-up, con le azioni eseguibili all’inizio del gioco si completavano tutti i livelli; nonostante questo, aveva una varietà anche superiore al titolo Rare, che riusciva a rendersi sempre divertente, più che sfruttando e approfondendo ogni parte del gameplay, aggiungendo continuamente nuove mosse. Certo, le mosse non raggiunsero un numero così esagerato da confondere il giocatore, ma proprio da qui vediamo la differenza tra Nintendo, minuziosamente al limite del possibile, e Rareware. Nintendo approfondiva, Rare ingrandiva, e proprio questa caratteristica della società britannica la portò a peggiorare i suoi futuri giochi piuttosto che a migliorarli.

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Banjo-Tooie

Il seguito di Banjo-Kazooie arrivò dopo più di due anni, a fine 2000. Era impossibile che il gioco non diventasse un ottimo titolo, poiché era costruito a partire dal suo grandioso predecessore. Da B-K ereditò infatti l’engine ed il sistema di controllo. Praticamente, metà gioco era fatta, ed era fatta benissimo. Purtroppo l’unica cosa positiva che introdusse Rare con Banjo-Tooie fu il collegamento tra i livelli: per collezionare tutti i jigsaw, infatti, bisognava trovare il modo di andare da uno stage all’altro senza passare per il castello che fungeva da base. Sicuramente un’ottima idea, peccato che per il resto Banjo-Tooie fosse un allargamento del primo, in ogni suo aspetto. Il giocatore partiva già con tutte le mosse apprese in B-K che, come detto prima, erano molte; inoltre, con lo scorrere dell’avventure, ne imparava sempre di più, in ogni stage. Più trasformazioni, più mosse, più power-up, addirittura vennero introdotte delle pedane tramite le quali si potevano separare i due personaggi, in modo da guidare così Banjo da solo e Kazooie da solo e generando, conseguentemente, altre mosse ancora. Anche gli stage vennero ingranditi, ampliati a dismisura, tanto da portare a seri problemi di rallentamenti per l’immensa mole di poligoni che il 64 gestiva a fatica; da vedere in foto il gioco era uno spettacolo, orizzonte lontanissimo e pop-up praticamente inesistente, ma giocarlo, soprattutto con una console già dal basso frame rate come il Nintendo 64, era un vero strazio. Vennero aumentati anche gli oggetti da raccogliere, il numero dei livelli, dei minigiochi, introdussero addirittura delle sezioni shooter in prima persona. Banjo-Tooie non era un pessimo titolo perché, come detto prima, manteneva l’ossatura del primo gioco; sicuramente però non era un capolavoro. Migliore di qualunque altro platform 3d per le altre console, ma su Nintendo 64 c’era di meglio; in ogni caso da provare.

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Donkey Kong 64

Durante il periodo natalizio del 1999, dopo il gran successo di Banjo-Kazooie, Nintendo pubblicò Donkey Kong 64, sviluppato da Rareware. Il gioco era un atteso ritorno dopo le grandiose performance a 16 bit di Donkey Kong Country, soprattutto perché Rare aveva già ampiamente dimostrato di sapersela cavare anche coi platform 3d. La grafica era meravigliosa, Donkey Kong 64 era il primo titolo per Nintendo a funzionare solamente tramite l’expansion pack, accessorio per Nintendo 64 uscito solo qualche mese prima. Donkey Kong 64 proprio per questo motivo in una confezione contenente sia il gioco che l’expansion pack, venendo così a costare circa 20 euro più di un normale gioco. Nonostante ciò, ottenne un buon successo commerciale, grazie alla fama del protagonista ma anche alla qualità stessa del titolo che, pur non potendo essere paragonato a capolavori come Super Mario 64 e Banjo-Kazooie, era sicuramente un platform 3d superiore ai migliori usciti su Play Station. Si potevano controllare ben cinque personaggi, ognuno con caratteristiche totalmente diverse dagli altri; se prese singolarmente le varie scimmie avevano poche mosse in più di Mario, mentre tutte e cinque assieme totalizzavano un numero di azioni superiori anche a quelli di Banjo-Kazooie. Il sistema di controllo era comunque lodevole, più preciso di quello di Banjo-Kazooie, e la camera implementata come si deve. Il gioco però soffriva della sindrome Rare, ovvero era minato da rallentamenti, seppur in minor numero che in Banjo-Tooie, e tendeva ad essere un ingrandimento di Banjo-Kazooie. Il livelli infatti, pur avendo un buon design, erano tremendamente dispersivi e pieni di oggetti raccogliere: banane di tutti i colori, gialle, verdi, dorate, blu, verdi, monete col simbolo della Nintendo, della Rare, delle scimmie e altri ancora. Il gioco inoltre era piuttosto ripetitivo, poiché le missioni non erano molto varie. Anche i minigiochi erano tantissimi, ce n’erano una decina per ogni livello, e alla fine, logicamente, tendevano ad assomigliarsi tra loro. Le corse sui carrelli, celebri negli episodi a due dimensioni, vennero riproposte con successo anche in tre dimensioni. Donkey Kong 64 era un platform strano, aveva un ottimo sistema di controllo, delle buone idee e una buona fisica; al contrario, i livelli erano così dispersivi da scoraggiare i giocatori alle prime armi e talmente pieni di oggetti inutili che torturavano il giocatore perfezionista. Un platform ben costruito, impegnativo, ma poco vario e molto dispersivo.

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Conker's Bad Fur Day

L’ultimo platform 3d della Rare per Nintendo 64, e per Nintendo in generale, fu Conker’s Bad Fur Day, che uscì nel 2001. Lo sviluppo del gioco fu travagliato come non mai: presentato nel 1997 assieme a Banjo-Kazooie col nome di Twalve Tales Conker 64, doveva essere un titolo sulla falsariga di Mario 64 che aveva per protagonista un’adorabile coppia di scoiattoli, Conker e la sua fidanzata per l’appunto. Quando venne commercializzato nel 2001 Conker aveva un titolo diverso, il gioco non era uguale a Mario 64, la sua dolce fidanzata era sparita, lui non era più adorabile. Anzi, era uno scoiattolo ubriacone, fuori di testa, abitante di un mondo pieno di animali matti ancora più folle di lui. La sua fidanzata era diventata una Pamela Anderson versione scoiattolo. Oltre ad avere personaggi volgari e folli, e un mondo folle e comico, Conker aveva anche dei livelli pieni di citazioni al mondo del cinema e dei videogiochi. Citazioni in alcuni casi evidentissime, come quella di Matrix, ma in altre situazioni più per appassionati, come quella di Sonic Adventure. Il gioco aveva delle cut-scenes indimenticabili e delle battute da antologia che, sommate all’innegabile carisma dello scoiattolo, costruivano la parte migliore del gioco. Dal punto di vista ludico Conker non era carente, anzi, ma la giocabilità non era all’altezza della Rare e questo in un platform vuol dire molto. I controlli non erano ne precisi ne reattivi, l’inquadratura in certi casi andava a spasso per i fatti suoi. Il framerate inoltre, pur non scattando, era mediamente basso. La grafica era di altissimo livello, soprattutto le animazioni facciali veramente su un altro pianeta rispetto a qualunque altro gioco per Nintendo 64. Conker’s Bad Fur Day tecnicamente faceva letteralmente impallidire la concorrenza, dimostrando una volta per tutte che il Nintendo 64, nelle mani di chi aveva talento, surclassava le console Sony e Sega. Le ombre dinamiche di Conker era addirittura paragonabili a quelle dei primi titoli della generazione a 128 bit, davvero stupefacenti. Anche il sonoro, generalmente sacrificato nei giochi per Nintendo 64 a causa delle cartucce, in Conker era ai massimi livelli, sia grazie all’ottima colonna sonora che ai tanti dialoghi parlati presenti nel gioco. Ancora oggi non è chiaro come Rare abbia potuto compiere questo piccolo miracolo. Conker’s Bad Fur Day non era molto lungo, durava 15 sole ore e non aveva segreti. Si sviluppava in diversi livelli collegati da una zona centrale com’era ormai abitudine ma, al contrario che in Mario 64, gli stage erano piuttosto lineari. Non si potevano affrontare liberamente, ma erano divisi a zone, e alla fine di ogni zona si ottenevano dei soldi (le stelle di Conker, praticamente). Era quindi un buon mix tra la meccanica di Mario 64, poiché ne manteneva la libertà di movimento, e quella classica, dalla quale ereditava la sua linearità. Conker fortunatamente non poteva contare su molte mosse, poteva saltare, planare con la sua coda e fare poche altre cose. La varietà era però garantita, oltre che dalla grande varietà dei compiti proposti al giocatore, da delle strane pedane posizionati nelle sezioni cruciali degli stage: una volta saliti su una di queste pedane e premuto l’apposito pulsante, non si sapeva mai cosa sarebbe accaduto, era una continua sorpresa. Se c’era un lago davanti alla pedana Conker si trasformava in un pesce, nel castello di Dracula, una delle tantissime citazione, si tramutava in un pipistrello. Più semplicemente, poteva ottenere dei coltelli per esercitarsi nel tiro a segno, oppure delle dinamite per frantumare dei massi che gli ostruivano il passo. Insomma, Rare aveva trovato un compromesso tra il suo metodo e quello della Nintendo. In questo modo le mosse non erano molte, non confondevano il giocatore con complicate combo da eseguire col pad, e la varietà era comunque assicurata. Intuitivo, perfetto, una grande idea. Conker era un gioco dall’atmosfera sadica e comica allo stesso tempo, aveva la grafica migliore mai vista su Nintendo 64 (assieme a Perfect Dark), un sonoro perfetto ed era pieno di citazioni al mondo del cinema e dei videogiochi. Purtroppo era carente proprio negli aspetti nei quali non ci saremmo mai aspettati di vedere sbagliare Rare: il sistema di controllo, la videocamera e la longevità. Peccato perché senza questi difetti Conker’s Bad Fur Day sarebbe stato anche più bello di Banjo-Kazooie, mentre così deve accontentarsi del gradino più basso del podio. Un’esperienza divertentissima, un platform da avere, speriamo che con il remake per Xbox che uscirà nel 2005 Rare saprà aggiustare gli aspetti meno riusciti del gioco.

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Kirby 64: The crystal shards

Nel 2000 grazie alla Hal passò alla grafica poligonale anche un altro brand storico Nintendo, quello di Kirby. Coloro che si aspettavano l’introduzione delle tre dimensioni, comunque, rimasero delusi: The Crystal Shards era un gioco classico di Kirby, in tutto e per tutto, solamente con una grafica poligonale. L’effetto generale era molto simile a quello di Klonoa, grazie ai veloci cambi d’inquadratura e alla rotazioni della videocamera che, nei vecchi giochi con gli sprite, erano impossibili da fare. Lo stile era il solito bambinesco e “pacioccoso”, realizzato meravigliosamente. Il platform conteneva un discreto numero di livelli, purtroppo tutti molto facili, come di consueto nei giochi di Kirby. Si finiva uno stage quando si raggiungeva la sua fine, attraversandolo da sinistra verso destra. Ovviamente le mosse principali di Kirby non vennero cambiate, il batuffolo rosa poteva ancora volare e risucchiare i proprio avversari acquistandone le capacità. Per variare il gameplay Hal diede ai giocatori la possibilità di combinare le varie mosse apprese inghiottendo i nemici, così da creare combo devastanti. Purtroppo l’eccessiva facilità del gioco ne minava conseguentemente anche la qualità, poiché, nonostante le caratteristiche del personaggio consentirebbero di creare un titolo molto profondo, Nintendo con Kirby si è sempre rivolta ad un pubblico di giovanissimi. All’interno di ogni stage fortunatamente c’era un cristallo ben nascosto da trovare, che quantomeno aumentava leggermente il grado di sfida di The Crystal Shards. In conclusione un platform classico di Kirby con una grafica al passo coi tempi; da giocare solamente se non si sono provati altri episodi della serie o se, al contrario, si è dei fan delle saga.

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Yoshi's Story

Il secondo platform EAD, il team di Miyamoto, per Nintendo 64. Uscì nel 1998 e, al contrario di Mario 64, manteneva un’impostazione bidimensionale. Il gioco era stata presentato come il seguito di quel capolavoro di Yoshi’s Island per SNES, e forse proprio per questo deluse molti appassionati del genere: Yoshi’s Story non era un brutto titolo, ma era molto facile e creato principalmente per un pubblico giovane. Certo, era realizzato con la solita premura Nintendo, ma non era neanche lontanamente paragonabile al suo predecessore. La cosa che colpiva prima di tutto era la grafica, davvero bellissima, renderizzata come quella di Donkey Kong Country. Questa scelta si rivelò particolarmente azzeccata, poiché la nuova impostazione tecnica si sposava a meravigliosa con le forme tondeggiante e armoniose del mondo di Yoshi. Non faceva rimpiangere lo stile di Yoshi’s Island, pur essendo meno originale. Il gioco era incredibilmente corto, poiché bisognava affrontare solo un livello per ogni mondo, e così dopo quattro stage ci si ritrovava a combattere contro il boss finale. Ovviamente era un obbligo rigiocarlo dall’inizio fin quando non si erano sbloccati tutti i livelli di ogni mondo, che in tutto erano più di trenta. L’impostazione stessa dei livelli era alquanto anomala: bisogna si attraversarli da sinistra verso destra, ma non si concludeva uno stage raggiungendone la fine, semplicemente perché non c’era un fine, visto che una volta arrivati all’estremità destra del livello si ricominciava dal punto di partenza. L’unico modo per completare uno stage era quello di far mangiare a Yoshi un determinato numero di frutti, posizionati qua e la per il percorso. C’erano frutti più o meno rari, e quindi il giocatore era spinto a rigiocare i vari livelli per migliorare il suo score, che ovviamente si alzava proporzionalmente al numero di frutti rari ingeriti. Un platform per bambini realizzato senza sbavature, Yoshi’s Story era questo, ne più ne meno.

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Mistical Ninja Starring Goemon 1 e 2

Konami pubblicò due Ganbare Goemon anche su Nintendo 64, sia in occidente che in oriente; in Europa i giochi arrivarono col nome di Mistical Ninja: Starring Goemon (1998) e Mistical Ninja: Starring Goemon 2 (1999). Totalmente diversi tra loro, erano accomunati dalla qualità, visto che entrambi rappresentavano, seppur in rami differenti, l’apice della serie. Il primo faceva parte dei Goemon orientati maggiormente verso l’aspetto action-rpg, era basato su una meccanica simile a quella di Zelda. Totalmente poligonale e in tre dimensioni, rappresentò una vera sorpresa positiva per tutti i fan della saga. Mistical Ninja: Starring Goemon combinava un ottimo sistema di controllo con delle idee originali e simpatiche, e aveva anche dei dungeon e dei boss molto ben fatti. Gli enigmi soprattutto sorpresero un po’ tutti, superando di gran lunga quelli di tutti i suoi predecessori. La qualità ludica era quindi molto elevata e l’atmosfera quella demenziale tipica della serie; gli unici a storcere al naso di fronte a questo nuovo episodio furono proprio i puristi della saga, che videro come uno snaturamento il passaggio alle tre dimensioni e, contemporaneamente, ad un concept orientato come non mai verso l’action-rpg. Vista le caratteristiche del gioco, la modalità multiplayer non venne inserita.
Proprio per tutti i fan delusi dal primo episodio Konami creò Mistical Ninja Starring Goemon 2, un moderno ritorno alle origini. Venne ripresa la vecchia impostazione bidimensionale ma, grazie all’utilizzo di una grafica poligonale, l’interazione coi fondali venne migliorata notevolmente, prendendo spunto ancora una volta proprio da Klonoa e dal suo “2d e mezzo”. Il level design era da grande gioco, con molteplici strade da seguire e molti oggetti segreti da scovare. Anche le brevi sessioni all’interno delle città erano fatte bene, con molte sub-quest e una buona diversificazione tra villaggio di giorno e villaggio di notte. Anche i livelli ovviamente venivano modificati in base all’orario: di notte i nemici erano diversi dal giorno, e generalmente anche più temibili. Il gioco era molto lungo ed anche impegnativo, soprattutto se si voleva completare al 100%. La modalità multiplayer era sontuosa, la cooperazione tra i due giocatori venne portare ai massimi livelli grazie all’introduzioni delle mosse combinate. Escluso Nights, il miglior platform 2d di questa generazione, grazie anche alla sempre più rara ma bellissima modalità multiplayer.

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Mischief Makers

Questo platform 2d uscì nel 1997, sviluppato dalla Treasure e pubblicato dalla Enix. Tre parole che ne descrivono l’essenza: intelligente, impegnativo e profondo. La formula perfetta per creare un buon gioco insomma. Il giocatore prendeva il controllo di un robot partito per salvare la sua padrona. Il robottino poteva eseguire molte azioni, alcuni delle quali segrete che si trovavano solamente eseguendo delle combo abbastanza complicate. I livelli avevano un buon design ed erano pieni di enigmi che mettevano a dura prova le capacità logiche del giocatore. L’unico aspetto negativo degli stage erano i nemici, decisamente troppo simile tra loro, sia come attacchi che come estetica. Se era già difficile raggiungere la fine degli stage, lo era ancora ancor di più trovare tutte le gemme segrete, ma non Michief Makers riusciva a non essere mai frustrante. Il sistema di controllo era ottimo e preciso. La grafica era deliziosa, con fondali bellissimi e animazioni di alto livello, ma del resto era un gioco Treasure. Un aspetto che particolareggiava il gioco era lo svilupparsi degli stage sia da sinistra verso destra che viceversa, e questa situazione, almeno all’inizio, creava un po’ di confusione nella testa del giocatore abituato ormai al classico scorrimento da sinistra a destra.
Un grande platform, con l’unica pecca di essere poco originale.

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I 128 bit

L’accoppiata Nintendo/Rare tramite la quantità e la qualità dei propri titoli riuscì, nelle generazione appena trattata, a nascondere una situazione a dir poco preoccupante: nessuna società, a parte queste due, era riuscita a creare dei platform 3d di una bellezza paragonabile agli antichi brand a due dimensioni. Società famose e abili come Konami, SEGA, Treasure, Namco non riuscirono proprio ad ideare dei giochi che potessero raggiungere, o quantomeno avvicinarsi, alla qualità di Mario 64. Con l’arrivo dei 128 bit, Rareware passò in esclusiva da Nintendo a Microsoft, perdendo però purtroppo molti elementi validi. Programmatori, Game Designer, Team interi si trasferirono in altre società, tanto che della Rare dei vecchi tempi rimase solamente un lontano ricordo. Dopo un periodo difficile segnato da due mediocrità come Starfox Adventures e Grabbed by the Ghouls, Rare sembra tornata sulla buona strada, ma nessun platform è previsto prima dell’estate 2005, se non un remake graficamente aggiornato di Conker’s Bad Fur Day. Nintendo, dal canto suo, dal 1998 al 2004 ha fatto uscire solamente un altro platform 3d, Super Mario Sunshine, seguito di Mario 64. Il gioco, seppur bellissimo, non riuscì a superare il predecessore, ma nonostante questo rimane senza discussione il miglior platform della discussione. Quindi, con una Nintendo poco prolifica, una Rare tramortita dai cambiamenti e una SEGA incapace di trasportare con successo in 3d il suo brand più famoso, Sonic, capirete che il genere platform si trova in una situazione a dir poco imbarazzante. Cominciamo la nostra marcia funebre proprio con Sonic Adventure…

Sonic Adventure

Fallito il Saturn, SEGA con la sua nuova console si rimboccò le maniche e decise di tornare alle care vecchie abitudini: il Dreamcast, la sua nuova macchina, sarebbe stata accompagnata da un episodio 3d di Sonic, tanto atteso dai fan. Semplicemente, fu una delusione. Sonic Adventure era un buon titolo, e ancora oggi è piacevole da giocare, ma non era paragonabile a quei capolavori a 16 bit usciti su Genesis. Innanzitutto i livelli vennero collegati da una zona centrale alla Mario 64, una parte del gioco totalmente inutile che mal si adattava alla velocità di Sonic che, dovendo proseguire lentamente in mezzo ai palazzi, mostrava tutti i limiti del suo sistema di controllo, perfetto per i livelli classici del gioco ma scomodissimo per gli altri, soprattutto in questa sua incarnazione a tre dimensioni. Inoltre, l’avventura si poteva affrontare con sei personaggi: Sonic, Tails, Knuncles, Amy, un Robot e un Gatto pescatore. Ogni personaggio aveva i propri livelli, e gli unici divertenti erano quelli di Sonic e Tails, che si sviluppano similarmente a quelli dei vecchi giochi. Quelli di Knuncles consistevano in una sorta di caccia il tesoro, poiché l’echidna era dotato di una specie di “senso di ragno” e sentiva quando c’era un cristallo nei paraggi; una volta trovati i tre frammenti della pietra preziosa si passava al livello successivo. I livelli di Amy erano alla Crash Bandicoot, forse ancora più banali, e questo dovrebbe bastarvi a capire quant’erano divertenti. Gli stage col Robot erano una sorta di sparattutto in terza persona, realizzati malissimo, tanto che bastava tenere premuto il pulsante dello sparo per non avere problemi di alcun tipo e raggiungere così in tutta tranquillità la fine del livello. In quelli del gatto, che col resto del gioco non c’entravano niente, bisognava pescatore, e il simulatore di pesca era realizzato anche male. Gli unici livelli divertenti erano quindi quelli di Sonic e Tails, che non facevano altro che riprendere quelli dei vecchi episodi bidimensionali e trasportali in 3d. Solamente che, come detto prima, questa meccanica in 3d non funzionava bene: al posto di andare da sinistra verso destra si andava in profondità e, nonostante la spettacolarità in Sonic ci guadagnasse parecchio, la parte ludica ne risentiva pesantemente. Per raggiungere la fine del livello per il 50% dello stage non bisognava fare altro che premere avanti e assistere alle gesta di Sonic che si lanciava a capofitto lungo discese e giri della morte. La parte riflessiva del gioco, quella che nei precedenti episodi consentiva di sbloccare i segreti e garantiva profondità ai Sonic, era andata perduta. Insomma, Sonic Adventure era un buon titolo se giocato con Sonic e Tails, pessimo se affrontato con gli altri quattro personaggi; un po’ poco per gli autori dell’unico platform 2d che sia mai riuscito a contrastare il dominio di Mario.

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Sonic Adventure 2

Sonic Adventure nonostante tutte le sue pecche ottenne un grande successo, probabilmente perché i fan della serie si accontentarono di vedere scorrazzare in 3d l’eroe che avevano atteso per tanti anni. Il Sonic Team decise così di realizzarne un seguito, Sonic Adventure 2. I personaggi erano ancora sei, e anche questa volta solamente due, Sonic e Shadow, affrontavano dei livelli vecchio stampo. Anche gli altri stavolta vennero divisi a coppie: due avevano stage simili in tutto e per tutto a quelli del robot nel primo Sonic Adventure e due li avevano come quelli di Knuncles. Al contrario che nel primo gioco però, nel quale si poteva anche scegliere di affrontare l’avventura solamente con dei determinati personaggi, in Sonic Adventure 2 bisognava sorbirsi obbligatoriamente tutti gli stage. Rispetto a Sonic Adventure gli unici due miglioramenti furono l’estromissione della città che univa i livelli e l’introduzione di qualche segreto all’interno degli stage. Niente di eclatante, ma soprattutto quest’ultimo aspetto riuscì a rendere il gioco un po’ più profondo. Per il resto, tutti i difetti rimasero intatti, compreso lo scandaloso sistema di inquadrature.
Entrambi i Sonic dopo il fallimento del Dreamcast vennero convertiti su GameCube, senza però essere migliorati sotto l’aspetto tecnico; al contrario, Sonic Adventure su GC scattava anche.

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Fur Fighters

Fur Fighters, sviluppato su Dreamcast dalla britannica Bizarre, fu una delle poche piacevoli sorprese di quel periodo. Il gioco mischiava con successo il gameplay di uno shooter in terza persona con quello di un platform, aveva molti livelli, molte armi e c’erano molte cose da fare. Era vario, grazie ai tantissimi personaggi selezionabili, più di dieci animali tutti armati fino ai denti (ognuno ovviamente con le proprie caratteristiche), e anche profondo. I livelli oltretutto erano molto impegnativi, sia nelle sezioni platform, che richiedevano salti precisi, sia nelle sparatorie, che spesso erano contro un numero esagerato di nemici; anche in queste ultime situazioni, comunque, il framerate rimaneva stabile. Il sistema di controllo era preciso ed intuitivo, seppur leggermente macchinoso. Anche gli scontri coi Boss, enormi, erano memorabili. Decisamente il gioco più sottovalutato di quest’ultima generazione, i suoi sviluppatori riuscirono comunque ad ottenere il successo che gli spettava con un racing game chiamato Metropolis Street Racing, che su Xbox acquistò il nome di Project Gotham, diventando una delle serie di maggior successo sulla console di Bill Gates.

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Jak & Dexter

Sviluppato dalla Naughty Dog, ormai orfana della sua mascotte Crash venduta per qualche bel dollarone, Jak & Daxter fu il primo platform 3d giocabile per Play Station. Questa volta alla Naughty decisero che era tempo di evolversi e di copiare Mario 64: niente più stretti percorsi come in Crash, ma livelli da esplorare in libertà. Nonostante il gioco avesse un’originalità pari a zero, risultava comunque divertente grazie al buon sistema di controllo. Al contrario, l’interazione di Jak col mondo circostante era a livelli minimi, così come la libertà di movimento piuttosto limitata. Gli stage erano molti, i compiti da svolgere al loro interno tutti scontati, ma comunque avevano un design accettabile. Vennero inseriti ovviamente dei macchinari da cavalcare, proprio come nei vecchi Crash, e un gran numero di power-up. Tecnicamente il gioco si comportava egregiamente: camera piuttosto affidabile, tanti poligoni su schermo con un frame rate comunque stabile e delle texture piacevoli da vedere. Anche il parlato durante i dialoghi faceva bene il suo lavoro. J&D era un platform carino e lungo, l’unico titolo all’epoca giocabile per ogni amante del genere possessore di una PS2. Nel 2003 ne venne rilasciato un seguito, nel quale la zona base che faceva da tramite ai tanti livelli venne sostituita con una città sulla falsariga di GTA. Il problema è che questa sezione, inserita anche male, non c’entrava assolutamente nulla col resto del gioco. Una serie di successo, tanto che ne è in lavorazione un terzo episodio, ma pudicamente appena sopra la sufficienza.

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Ratchet & Clank

Ed eccoci arrivati al miglior platform uscito su PS2, Ratchet & Clank, sviluppato dagli stessi creatori di Spyro. Il gioco, come già fatto in precedenza da Fur Fighters, mischiava il genere dei platform 3d con quello degli sparatutto in terza persona, ma lo faceva approfondendo maggiormente il primo aspetto. Ratchet era dotato di molte tipologie di salto, la maggior parte delle quali ereditate da Mario 64 e Mario Sunshine. I nemici si uccidevano sparandogli, e l’arsenale a disposizione del topastro era composto da pistole, fucili e mitra. Bisogna raccogliere come al solito degli oggetti all’interno dei livelli, questi ultimi creati molto bene facendo attenzione ai particolari. Il buon design generale del gioco, sommato ad un buon sistema di controllo frutto delle passate esperienze su PSX, faceva di R&C un platform 3d degno di essere giocato. Nel 2003 uscì R&C 2, che non era altro che un’espansione del primo episodio, c’erano infatti più livelli, più armi e più tipi di nemici. Combinando due generi diversi e copiando un po’ qua e un po’ la, R&C riuscì a conquistarsi l’appellativo di miglior platform per Play Station 2 e, soprattutto, una vasta schiera di fan.

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Sonic Heroes

Sonic Heroes, il primo gioco multipiattaforma del porcospino, è anche l’ultimo titolo poligonale della serie (per ora, ovviamente). Con Sonic Heroes SEGA tentò di migliorare i suoi precedenti esperimenti a tre dimensioni puntando maggiormente sui livelli classici di Sonic, quelli veloci. Il gioco si poteva affrontare con quattro team, ognuno composto da un personaggio capace di volare, uno abile nel pestaggio dei nemici e uno particolarmente veloce. La maggior parte del tempo si era occupati con quest’ultimo, mentre in alcune situazioni, come davanti o dirupo o ad un avversario particolarmente impegnativo, si poteva intercambiare il personaggio con la semplice pressione di un pulsante. La meccanica funzionava abbastanza bene, e probabilmente questo terzo episodio è anche il migliore tra quelli poligonali, poiché spiritualmente è il più vicino ai vecchi giochi per Genesis. Nonostante la buona volontà di SEGA, però, per buona parte dei livelli il giocatore non deve fare altro che premere il control stick e guardare Sonic, o chi al suo posto, che corre in giro per lo stage. Oltretutto il sistema di controllo è ancora più impreciso, ed il gioco spesso è volentieri presenta situazioni caotiche, rese maggiormente confusionarie da una camera quanto mai instabile. Insomma, SEGA peggiorò il suo pargolo nei controlli, probabilmente perché occupata a creare il gioco per tre console differenti, ma d’altro canto lo migliorò escludendo le tediose sezioni in sella ai robot o quelle alla ricerca dei frammenti di cristallo. Sonic Heroes non sarà un capolavoro, ma è comunque un platform divertente che, viste la situazione attuale, ogni appassionato dovrebbe provare. Per i possessori di Xbox è un acquisto obbligato, poiché è l’unico platform giocabile per la console Microsoft.

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Billy Hatcher and the Giant Egg

Billy Hatcher and the Giant Egg era un brand nuovo sviluppato in esclusiva dal Sonic Team per GameCube, il team di Sonic e Nights; era lecito quindi aspettarsi qualcosa di bello. Indubbiamente il prodotto finale era molto divertente, anche migliore di Sonic nella sua incarnazione poligonale, ma non era affatto un capolavoro. I livelli erano troppo facili da finire, nonostante completarli al 100% rappresentasse una valida sfida per ogni giocatore, e l’idea alla base del gioco alla lunga era noiosa. Praticamente il protagonista, Billy, doveva continuamente girare assieme ad un uovo, altrimenti esplorare i livelli era praticamente impossibile. Le uova erano di molti tipi, e ognuna, oltre a poter essere tirata e cavalcata, conteneva un animaletto diverso. Per fare uscire dal guscio questo essere bisognava prima nutrire l’uovo, raccogliendo frutta dentro ai livelli. Questa meccanica, sicuramente originale, era però anche ripetitiva, e questo è il più grande difetto di Billy Hatcher, oltre che ai vistosi rallentamenti. Per il resto il sistema di controllo era realizzato più che bene e la fisica, fondamentale in un gioco che aveva a che fare col rotolamento delle uova, si comportava egregiamente. Facile ma molto divertente, con degli ottimi controlli ma minato da problemi tecnici come l’inquadratura e i rallentamenti, Billy Hatcher resta comunque un platform 3d molto divertente, il miglior per GameCube dopo Super Mario Sunshine.

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Storia del Platform - Vol.2

Super Mario Sunshine

Ed eccoci infine arrivati al sequel del re dei platform 3d, Super Mario 64. Al contrario di quanto ci si potesse aspettare, il risultato ottenuto con Super Mario Sunshine fu tutt’altro che perfetto, anche se l’idraulico rimane sempre il protagonista del miglior platform di questa generazione. Il gioco Nintendo riprendeva pari pari la struttura di Super Mario 64, con una base dalla quale partire, stavolta rappresentata da una città, Dolphin Town, che conteneva i vari passaggi che conducevano ai livelli, nei quali dovevate collezionare le Shine. Al contrario che in Mario 64 l’ordine delle Shine da raccogliere non era più libero ma prestabilito, ogni livello era diviso in otto missioni, ognuna contenente una Shine. Questo può essere considerato sia un pregio che un difetto, in quanto è vero che limitava la libertà, però migliorava la qualità dei singoli obiettivi e consentiva di variare la morfologia del livello da una Story (questo il nome delle missioni) all’altra. Quello che rendeva il gioco nettamente inferiore a Mario 64 era la prevedibilità dei vostri compiti, infatti le missioni sorprendenti erano veramente poche, generalmente bisognava uccidere un boss o raccogliere delle monete rosse. Un altro difetto, il più grande del gioco, era che circa 30 delle 120 shine totali si ottenevano raccogliendo 240 monete blu nascoste negli otto livelli. Se fossero state solo impegnative niente di male, il problema è che spesso e volentieri si ottenevano compiendo azioni senza logica.
Una novità era lo “Spruzzino”, uno strumento ad acqua del quale era dotato Mario, comprendente tre funzioni. Una di queste consentiva di planare e quindi di facilitare il salto. Qui finivano i difetti.
Il più grande merito di Mario Sunshine fu l’introduzione in ogni livello di alcuni stage senza spruzzino che testavano l’abilità manuale del giocatore e racchiudevano il concetto primitivo alla base di questo genere, un autentico paradiso per gli appassionati dei platform. Il gioco riusciva a migliorare la già profondissima giocabilità di Super Mario 64, proponendo un sistema di controllo praticamente perfetto e la solita ed inimitabile cura per i particolari. Senza dimenticare il ritorno di Yoshi, sempre gradito e divertente da guidare. La libertà d’azione e di movimento giunse alla perfezione, e ciò consentiva al giocatore di portare a termine una missione in molte maniere diverse. L’unica limitazione in Mario Sunshine era il dover sottostare alle Story.
La grafica era colorata, quasi sempre fluida e praticamente esente da pop-up, quest’ultimo grande pregio per un gioco di questo tipo. La fisica e le collisioni erano ottime come sempre, unico appunto verso le ambientazioni, tutte balneari, che alla lunga potevano stancare.
Mario Sunshine non fu capace di superare in tutto e per tutto Super Mario 64, aveva molti difetti e alcuni pregi che il gioco datato 1996 non possedeva. Nonostante questo rimane il miglior platform 3d di questa generazione e riesce senza ombra di dubbio nel suo obiettivo primario, cioè divertire il giocatore. Un must-buy assoluto.

Storia del Platform - Vol.2
Storia del Platform - Vol.2

Altri giochi

Questa generazione è piena di platform 3d dai nomi illustri di scarsa qualità, qui ve li elenchiamo tutti velocemente. Crash Bandicoot, che già non era un gran gioco all’epoca della PSX, passato da Naughty Dog alla Universal perse col quarto episodio anche quel poco di buono che aveva nelle sue incarnazioni precedenti. Anche Spyro, ceduto anch’esso alla Universal, a causa della sua nuova padrone perse tutto il suo fascino originario. Maximo e Maximo: Ghosts to Glory erano due giochi usciti su PS2 grazie a Capcom, che tentò di trasportare in tre dimensione uno dei suo brand storici, Ghouls’n’Ghosts, purtroppo con scarso successo. Ape Escape 2, seguito di uno dei migliori platform per Play Station, era una brutta copia dell’originale sotto l’aspetto ludico, mentre venne ovviamente migliorato sotto quello tecnico; tra tutti i giochi in questo paragrafo, comunque, è sicuramente il migliore. Rayman 3: Hoodlum Havoc peggiora sotto tutti i punti di vista Rayman 2: The Great Escape, completando il fallimento di un brand che alla sua prima uscita aveva fatto ben sperare. L’unica introduzione positiva in Rayman 3 erano gli stage sullo stile di quelli di Mario Sunshine senza spruzzino, oltre che a delle sequenze animate tra un livello e l’altro semplicemente esilaranti. Klonoa 2, seguito di quella gemma chiamata Klonoa uscita su PSX, perdeva tutto il fascino stilistico del prequel e banalizzava tutta la componente ludica, rendendo ancor più facile un gioco già molto semplice. Per finire questa triste carrellata di titoli, Blinx, un’offesa al genere dei platform, spacciato molto spesso come Mario-Killer. Le idee in questo platform non mancavano di certo, si poteva infatti modificare il tempo riavvolgendolo, registrandolo e accelerandolo sfruttando l’hard disk dell’Xbox, peccato che la realizzazione fosse pietosa.
Poiché dall’alba dei tempi Super Mario è sinonimo di platform, Blinx potrebbe essere sul serio uno dei Mario Killer, senza avere la presunzione di presentarlo con un articolo determinativo, visto che è in buona compagnia.

Storia del Platform - Vol.2
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Nebbia

Il futuro è forse ancora più angosciante del triste presente. Se la Rare riuscirà a riprendersi, ed è piuttosto difficile che ci riesca vista l’attuale situazione, allora potremmo sperare di vedere dei buoni platform in futuro, anche se non in questa generazione. E, anche se si riprendesse, bisogna ancora vedere quanto valga realmente senza l’appoggio della Nintendo che, dal canto suo, continua a rimandare Mario 128 e ad essere poco prolifica con questo genere di giochi, avendo rilasciato solo 2 platform 3d in ben otto anni. Di Mario 128 non sappiamo praticamente nulla, nemmeno la console sulla quale uscirà, se non che Miyamoto continua a definirlo un titolo che rivoluzionerà il modo di giocare. Gli unici altri platform in sviluppo a Tokyo, oltre ad un remake di Mario 64 per DS, sono un nuovo platform 2d dell’idraulico Italiano sempre per la nuova console portatile e un nuovo Donkey Kong per Nintendo GameCube. Entrambi i titoli comunque, nonostante siano potenziali capolavori e innovatori visti gli originali sistemi d’interazione che permetteranno di giocarli, non saranno giochi pionieristici alla Mario 64. C’è bisogno di un nuovo ispiratore, di un nuovo messia, e ora come ora nessuno, a parte Nintendo, sembra in grado di poterlo creare. Perciò le speranze vanno tutte a finire sull’N5, il Revolution, sperando che sia veramente qualcosa di rivoluzionario e non una delle solite prese in giro per attirare l’attenzione.

Storia del Platform - Vol.2

In questa seconda parte dello speciale vi intratterremo con la storia delle due generazioni a noi più vicine, quella dei 64-32 e quella dei 128 bit. Se nel primo volume abbiamo descritto la nascita e il periodo d’oro di questo genere, in questo articolo troverete narrato il suo lento ma costante declino, segnato dall’incapacità della maggior parte della società di creare dei buoni platform 3d o di adattare il contenuto di alcuni brand storici alle tre dimensioni.