Vale la pena rimarcare, una volta in più, un concetto di per sé banale: una serie tv non è un videogioco. Come abbiamo avuto modo di sottolineare in altri approfondimenti dedicati alla seconda stagione di The Last of Us, e pubblicati nelle ultime settimane, le scelte operate da Neil Druckmann e Craig Mazin in questo complesso adattamento (scelte non sempre brillanti, su questo non c'è dubbio), sono state pianificate tenendo in considerazione due fattori principali.
Tanto per cominciare, la serie tv avrebbe dovuto essere comprensibile anche da chi non conosce il gioco di Naughty Dog. Secondariamente, a differenza di un videogioco dove c'è solitamente un protagonista - quello di cui l'utente veste i panni - attorno cui ruotano figure che si alternano continuamente, nella stragrande maggioranza dei casi in un prodotto filmico è l'apporto corale, nonché il rapporto che si instaura tra i vari personaggi, a fornire la spinta narrativa primaria.
Considerate poi la complessità e longevità di The Last of Us Parte 2, va da sé che non si poteva far altro che dividere in due stagioni la trasposizione del videogioco. Del resto, alcuni passaggi avevano indubbiamente bisogno di più spiegazioni, le stesse diluite e affidate al puro gameplay in molti casi nella controparte videoludica. Inoltre, era inevitabile riservare più tempo sulla scena a personaggi, Dina su tutti, che non solo arricchiscono la trama, ma fungono anche da specchio attraverso cui filtrare l'emotività di Joel, Ellie e, pur superficialmente, Abby. Tuttavia, c'è un altro motivo, ancora più profondo e complesso, che motiva la decisione di dividere The Last of Us Parte 2 in due stagioni.
Una Ellie diversa, per uno svolgimento diverso
C'è un dato di fatto: la gestione del personaggio di Ellie ha convinto poco e pochi. Sui social, e ovunque si parli di questa seconda stagione, molti hanno criticato il trattamento riservato alla ragazza, così diversa rispetto a quella del videogioco. Certi passaggi sono stati innegabilmente edulcorati, alcuni meccanismi emotivi e psicologici sono stati esplicitati e soprattutto il rapporto con Dina, molto più centrale nella serie tv rispetto al videogioco, ha innescato il sospetto, e il conseguente fastidio di molti fan, che Druckmann e Mazin volessero avvicinare il mondo post-apocalittico di The Last of Us al genere dei teen-drama.
Indubbiamente molte situazioni potevano essere gestite meglio. Inoltre, la qualità della sceneggiatura è innegabilmente altalenante in certi passaggi. Ciononostante, comprendere le ragioni profonde che hanno potenzialmente spinto gli showrunner a modificare la figura di Ellie può quantomeno restituirci delle motivazioni con cui filtrare le scelte compiute, con cui leggere il nuovo manipolo di puntate e, al contempo, giustificare l'esistenza di una terza stagione che avrà il compito di mettersi in pari con il videogioco a cui si rifà.
Il punto di partenza, dunque, è presto detto: questa non è la trama di The Last of Us Parte 2, questa non è la stessa Ellie. O meglio: il fulcro attorno cui ruota il mondo originariamente concepito da Naughty Dog è spostato, assonante ma dissimile.
L'Ellie del videogioco è un'adolescente molto più istintiva e impulsiva. Ha anche più tempo, considerando il capitolo pubblicato inizialmente su PlayStation 3, per rendere partecipe l'utente del progressivo attaccamento che la lega a Joel. La morte di quest'ultimo rappresenta un evento drammatico, che ha conseguenze immediate e drastiche nella psiche della ragazza. Orfana, costretta a diventare grande in fretta, appesantita da un senso di responsabilità inespresso (l'essere potenzialmente la cura al Cordyceps), messa sotto una sorta di campana di cristallo da colui che diventa a tutti gli effetti suo padre, un uomo con cui crea il primo rapporto stabile della sua vita, la giovane ha un carico emotivo non indifferente che non fa che ingigantirsi tra i due capitoli videoludici.
Eppure, a Jackson la Ellie del videogioco prova ad integrarsi, a mettere certi accadimenti della sua vita tra parentesi, a vivere come una qualsiasi adolescente del mondo precedente all'infezione del fungo. Per lei, purtroppo, farlo è impossibile e l'efferato omicidio di Joel manda in frantumi il suo mondo, la sua barriera, la sua illusione. La vendetta si tramuta in un tentato suicidio, in una missione di sola andata (auto)distruttiva, priva di un reale senso, esattamente come la stessa vita di Ellie, privata di uno scopo, salvare l'umanità; privata dell'impossibilità di vivere una vita normale, perché il Cordyceps ha distrutto la civiltà; privata di un amore a lungo ricercato, quello genitoriale.
Se il crollo emotivo e psicologico dell'Ellie del videogioco è immediato, quello a cui stiamo assistendo nella serie tv è un lento, ma progressivo abbandono alla follia, un processo più lungo e anche per questo complesso da rendere su schermo. La Ellie che ride e scherza con Dina è una Ellie che tenta in tutti i modi di restare aggrappata alla sua versione più innocente e adolescenziale. Colei che sperimenta la sua sessualità è un personaggio che mette in primo piano il disperato tentativo di esplorare sé stessa, alla ricerca di altro che non sia il senso di colpa per non essersi sacrificata per trovare una cura. La seconda stagione di The Last of Us è un teen-drama, nel senso dispregiativo del termine, nella misura in cui non rappresenta con eleganza e raffinatezza il conflitto interiore di una Ellie che cerca di preservare in qualche modo, anche dopo la perdita di Joel, la parte più ingenua e fanciullesca di sé. Da una parte vorrebbe tornare a Jackson e vivere la sua storia d'amore con Dina, ma al contempo, nella sua psiche ormai inevitabilmente compromessa, non riesce a rinunciare all'idea di vendetta. La ragazza interpretata da Bella Ramsey è sia colei che chiede a Dina se non voglia tornare indietro, abbandonando qualsiasi intento bellicoso, sia l'assassina che guarda morire con cieco cinismo Nora.
Si tratta, in sostanza, di un personaggio paradossalmente più complesso, sfaccettato, difficile da interpretare rispetto alla controparte videoludica. Del resto, non poteva che essere così in The Last of Us Parte 2. Altro dettaglio da tenere in considerazione, parlando delle differenze con la serie tv, Ellie è pur sempre parte integrante di un'avventura action e stealth. Come conciliare quello che avrebbe potuto essere un progressivo dramma interiore con le necessità di gameplay? Come motivare la carneficina che l'utente è intento a perpetrare, se non con un personaggio che abbraccia sin dal primo istante il suo intento vendicativo?
La serie tv, da questo punto di vista, ha molta più libertà d'azione e può permettersi di mostrare una Ellie titubante, intenta a fare altro, come scherzare con fare infantile con Dina, oltre a nascondersi dietro ai ripari e uccidere infetti o altri umani dopo averli colti di sorpresa alle spalle.
Ed ecco perché un'ulteriore stagione era inevitabile: l'evoluzione di Ellie, e di conseguenza anche quella di Abby, ha bisogno di più tempo, di un arco narrativo più ampio, che presuppone la partecipazione di altri personaggi, a loro volta bisognosi di minuti in scena per diventare pedine utili a mostrare il cambiamento in atto della protagonista.
Naturalmente per dare un giudizio completo sulla serie, sarà inevitabile capire e vedere effettivamente dove Druckmann e Mazin vogliano andare a parare nelle prossime puntate. Questa seconda stagione è da intendersi come un ponte, una transizione tra la vecchia Ellie, ancora capace di amare e di provare empatia, e quella che verrà, spietata e totalmente annichilita se si proseguirà sulla scia del videogioco. La scelta di un lento scivolamento verso la follia omicida, in contrasto con la trasformazione traumatica del videogioco, è una variazione indubbiamente interessante, che purtroppo non è stata resa sempre nel migliore dei modi in queste nuove puntate.
Tuttavia, l'intento degli showrunner è chiaro, soprattutto nella misura in cui, con piccoli e grandi cambiamenti rispetto al videogioco, si è scelto di spostare il focus dalla vendetta in sé e per sé, a come questa modifichi e distrugga progressivamente non solo la stessa Ellie, ma anche chi gli sta intorno. Al contempo è anche vero che solo con una terza stagione all'altezza delle aspettative, che sappia far maturare quanto raccolto nelle ultime puntate, si potrà parlare di successo. Altrimenti ci resterà la sensazione, effettiva e certamente più motivata di quanto non lo sia in questo momento, di aver assistito ad un teen-drama post apocalittico molto elaborato in termini di messa in scena.