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The Legend of Zelda: Tra simboli e fiaba

L'uscita di un nuovo episodio della saga di Zelda è sempre un evento e noi, per celebrarlo in modo adeguato, pubblichiamo un approfondito speciale in due parti!

APPROFONDIMENTO di La Redazione   —   20/12/2002

Sorriso beffardo, sguardo compiaciuto. Con l’espressione di un bimbo che ne ha appena combinata una delle sue e non vede l’ora di vedere le reazioni degli altri, degli adulti. Ci piace immaginarlo così Shigeru Miyamoto mentre le immagini del nuovo Zelda fanno per la prima volta il giro del mondo, alzando un polverone come rare volte si è visto in ambito videoludico. Ed è contento il Maestro, perché Zelda è innanzitutto il suo gioco, prima che il nostro. E’ il suo rifugio, il suo mondo fatato, l’angolo della fantasia che il bimbo-cresciuto Miyamoto ha il raro privilegio di poter concretizzare a colpi di solidissimi poligoni. E Kaze no Takuto, ne siamo convinti, è esattamente come se l’era immaginato.

Troppe volte si tende a trascurare il fatto che Miyamoto, game designer per fortunata coincidenza più che per scelta, nasce come artista, è laureato da artista, vuole fare l’artista. E, ovviamente, pensa da artista. Nel suo immaginario The Legend of Zelda è una classica fiaba, non favola, un distinguo importante da fare, attualizzata solo dal media su cui viene proposta. Il supporto è differente, ora un dischetto argentato o una piastra di silicio in luogo della carta stampata, ma la sostanza non cambia. Le parole scritte sono sostituite da immagini e il linguaggio, anche e soprattutto visivo, deve essere appropriato al mondo che si vuole rappresentare. Il linguaggio del reale non è proprio della fiaba, è inadeguato, è un’imperdonabile stonatura che automaticamente escluderebbe The Legend of Zelda dal genere fiabesco. Già lo stile adottato in Ocarina of Time e Majora’s Mask iniziava ad essere poco consono, l’iperrealismo della demo mostrata allo Spaceworld 2000 avrebbe dato un definitivo colpo di grazia all’intera idea di Zelda-fiaba e al mondo immaginato da Miyamoto. Takuto invece dà prova di ineccepibile coerenza stilistica, la rappresentazione del mondo-fiaba è perfetta, ingenua, stilizzata all’estremo come è giusto che sia e come il genere lettario impone. Una rappresentazione fortemente simbolica, come Miyamoto stesso ha ammesso di recente dichiarando che The Legend of Zelda altro non è che una rappresentazione della lotta senza tempo tra il bene e il male. Link non è una persona ben definita, è l’archetipo del perfetto eroe, che affronta l’incarnazione del male di turno con le armi proprie dell’eroe: spada e scudo. E riducendo all’osso la trama si arriva sempre a un tema comune dalla semplicità disarmante: c’è un bambino (Link) che combatte contro un orco cattivo (Ganon/Ganondorf). Forse la più efficace delle rappresentazioni di lotta del bene, di intatta purezza, contro il male.
E fortemente simbolica non è solo la storia, ma anche gli elementi che la compongono e la rendono viva su schermo. L’energia vitale di Link è rappresentata da cuori di un bel rosso acceso, le monete sono grosse gemme colorate, le bombe sono… beh, sono quelle classiche, rotonde e con la miccia bella in vista. Link conquista nuove abilità e diventa più forte non accumulando astratti punti esperienza come la tradizione rpgiistica vuole: trova oggetti che lo rendono capace di compiere nuove azioni, e accresce la sua riserva di ‘cuori’, ovvero di energia vitale, raccogliendo in giro per il mondo altri ‘cuori’ o ‘pezzi di cuore’. Una stilizzazione della realtà semplice da implementare utilizzando grafica bidimensionale, ma che non si addice a una rappresentazione tridimensionale improntata al realismo sfrenato.
E’ perfetta invece in un cartone animato. E Miyamoto, un po’ Tezuka e un po’ Miyazaki, questo lo sa benissimo.