Tra unicità e parentele espressive, nel tessuto delle pratiche sociali
Il punto chiave della vicenda è cercare di considerare il videogioco come una forma di intrattenimento in se stessa, unica e ben “delimitabile” ma, al contempo, inevitabilmente imparentata con tutte le altre forme espressive ad essa affini. Ma non solo: una forma espressiva intessuta anche con il complesso sociale entro cui si sviluppa insieme alle pratiche ad essa affini. Arti figurative, fumetto, cinema, musica e tutto ciò che di artistico e di intrattenimento rimane vanno affrontati insieme per capire il modo in cui il videogioco viene fruito in una società che lo inserisce in un determinato punto della sua struttura industriale e produttiva, che lo legittima da una sfera politica, simbolica e culturale, che lo sviluppa o affronta con giudizi estetici, teorie semiologiche o inquadramenti antropologici. Tentare di tracciarne un profilo asetticamente separato del videogioco dalle pratiche sociali in cui si sviluppa è quindi altrettanto sbagliato che tentare, da un lato, di isolarlo dalle forme espressive ad esso inevitabilmente imparentate o, dall’altro, di giustificarlo di volta in volta come “cinema di serie b” o come “semplice giocattolo”. La realtà sta in un miscuglio che, spesso, è difficilmente decifrabile: arriva al cuore del posto che la spettatorialità e le pratiche ludiche arrivano ad ottenere in una data società. Evitando di ricorrere a semplicismi o di adagiarci su visioni comode potremmo arrivare veramente a comprendere il videogioco come una pratica sociale che non solo, ovviamente, è degna di indagine produttiva, artistica ed esistenziale, ma anche inevitabilmente complessa e al crocevia di scienza, arte e società. La visione che potremmo raggiungere sarebbe finalmente e felicemente libera dai “meglio” e dai “peggio”, dal “nuovo” e dal “vecchio”, dal “giusto” e dallo “sbagliato”. Potremmo giocare una decina di minuti a Ms Pacman su un Atari VCS2600 e poi riporlo su una mensola che ospita il Faust di Goethe, 2001 Odissea nello Spazio e l’ultima versione di Metroid accanto a un saggio di Jacques Derrida. Non solo potremmo liberarci del (già moribondo) stereotipo del nerd o del ragazzo malcresciuto che si rinchiude in isolamento nella sua cameretta con i “giochini di astronavi” invece di affrontare la vita, ma potremmo persino iniziare a considerare anche i nerd e l’escapismo culturale da un mondo spesso gretto e grigio come un’immagine possibilmente encomiabile, sicuramente più godibile della visione di un tamarro completamente a digiuno di cultura videoludica o di una cultura tout court ma provvisto di una pleistescion (“non so se la uno o la due”) e tomb reider e fifa soccher masterizzati da cinque o sei anni.
Cultura di massa, cultura di nicchia, cultura del videogioco
Cerchiamo quindi di capire cosa vogliamo, cosa ci viene propinato, cosa seppelliamo troppo presto nell’oblio. Il consumo e l’utilizzo di videogiochi avviene in contesti plurimi e specifici, legando insiemi di persone che condividono gusti, stili di vita, propensioni culturali, stimoli ed approcci che possono essere comuni o molto diversi. E’ per questo che cercheremo anche di recuperare la dimensione storica della cultura videoludica, restituendole una storia che si riannulla tragicamente ogni cinque anni sotto l’oblio dell’avanzamento tecnologico. Come non esiste una cultura alta e una bassa, non esistono forme di intrattenimento privilegiate. E, come un classico di Kubrick è sempre più valido di ogni nuova e modernissima orrendità spielberghiana, e come un pessimo film degli anni 60 può essere tranquillamente cestinato in cambio di un prodotto moderno meritevole, secondo lo stesso principio un videogioco può e deve assolvere la sua funzione fondamentale di divertire in ogni momento, e deve tranquillamente poter essere collocato accanto a un prodotto altrettanto valido commercializzato dieci anni prima o dopo e dotato di un avanzamento grafico “inferiore” o “superiore”. Ma, al contrario di un film, un videogioco non deve mettere in scena un mondo, narrarlo semplicemente; deve invece mettere in gioco un mondo, farci entrare da protagonisti in un copione che, più che osservare o commentare, dovremmo vivere. Se il discorso sui rapporti tra cinema e videogioco, non meno di quello videogiochi-giocattoli, appare troppo complesso e controverso per essere sviscerato sul momento, ci serve comunque a riportarci indietro sul filo logico intrapreso: inizieremo ad indagare cause, finalità, ragioni, metodi, mezzi della grande avventura del gioco elettronico, e a sviscerare concetti come “gioco”, “console”, “grafica”, “emozione”, o lo stesso concetto di “videogioco” piuttosto che di “gioco elettronico”; nel farlo, cercheremo di calare i videogiochi in un tessuto di pratiche sociali e di consumo culturale, tracciandone i punti di contatto e le inevitabili unicità. Come le possibilità di manipolazione, riproposizione, emulazione della forma-videogioco, la sua tendenza endemica al postmoderno, al pastiche, all’emulazione: un’unione di codice di programmazione e di specificità contestuale (cartuccia, confezione, sistema, manuale) che rendono la forma ludica digitale un vero e proprio terreno di studio privilegiato per le problematiche relative all’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. In quest'epoca, infatti, il serpente si morde la coda: Romero inventa lo zombie movie, Resident Evil lo porta in forma videoludica, il cinema ritrasporta il derivato videoludico sul grande schermo. E il settore musicale dell'industria completa l'opera."
Verso una nuova pratica videoludica
Nascita, contesto di uso, validità artistica e – oseremmo dire – esistenziale del videogioco: sono tutti punti essenziali attorno ai quali dobbiamo schierarci per cercare di radunare concetti comuni. Ma il punto più importante dell’intera vicenda dell’analisi videoludica è garantire l’esposizione di una storia che esiste a tutti gli effetti, di una dignità produttiva e di consumo ancora non abbastanza palesi, di un apparato critico ancora non sufficientemente sviluppato per ritrovare il filo di arianna del videogioco, i suoi nodi e le sue unicità, all’interno della nostra cultura. L’apparato critico di cui lo studioso, lo studente o il semplice curioso potrebbe servirsi non dovrebbe però essere fatto di griglie rigide, di teorie forti: dovrebbe piuttosto essere una serie di strumenti mobili e di ipotesi composite, che fungano da sostegno elastico per un fenomeno produttivo, espressivo e comunicativo sul quale ancora si è parlato quasi solo a sproposito, e sicuramente aperto a interpretazioni e consumi estremamente eterogenei. Prima ancora che parlare di strutturalismo, analisi testuale o codici semici piuttosto che di game design, teoria dei generi o della spettatorialità, quindi, faremo un discorso intorno all’atto stesso di giocare, possibilmente dall’interno. Dovremmo cercare di essere quello che i fondatori dei Cahiers du Cinema furono per il cinema, allora bisognoso di una storia, di una critica, di una legittimazione. Niente salite in cattedra e niente professori videogiocatori dell’ultim’ora che discutono di metal ghìar senza avere mai impugnato un controller per proprio gusto: l’unico modo di formulare teoriche videoludiche è passare attraverso il consumo videoludico, verso una nuova e più consapevole concezione della nostra pratica ludica.
VIDEOLUDICA è la premiata rubrica di storia, critica e teoria del videogioco dedicata all’universo del gioco elettronico con un taglio diverso, accattivante, maturo. VIDEOLUDICA vi porta alla scoperta dei generi perduti, dei veri autori, delle teorie sul videogioco, degli incroci con il cinema e le altre arti, delle tematiche più scottanti: tutto quello che avreste voluto leggere sui videogiochi e non avete mai osato chiedere.
Un appuntamento fisso per i nostri utenti Gold a cura di Marco Benoit Carbone.
In questo numero: VIDEOLUDICA vol. 01 - Giocare a cervello acceso. Ai nastri di partenza! Videoludica è la rubrica che vi porterà dentro ai videogiochi, con un approccio diverso: più profondo, più attento a quello che rende i videogiochi un mezzo di espressione unico, degno di essere conosciuto e praticato, ma anche di essere studiato, sul quale e col quale riflettere. Verso una nuova concezione del videogiocatore.
vol. 01 - GIOCARE A CERVELLO ACCESO
Che i videogiochi siano un mercato che ha superato in svariate occasioni il fatturato di quello cinematografico è cosa risaputa. Che siano un mezzo espressivo e ludico in cui convergono gli avanzamenti delle tecnologiche dominanti nel campo nei nuovi media è cosa altrettanto scontata. Che siano la forma di intrattenimento e gioco dominante dell'epoca contemporanea è fatto verificabile. Che siano o meno una forma d'arte, seppure sfuggente a considerazioni estetiche più o meno tradizionali, è un'ipotesi del tutto fondata. VIDEOLUDICA vuole cercare di essere un punto di riferimento per chiunque voglia giocare "a cervello acceso" per interrogarsi su cosa rende un gioco divertente, cosa lo fa nascere e vendere, cosa rende possibile nella mente del giocatore.
Studiare la forma-videogioco. Giocare “a cervello acceso”. Giocare di più e, soprattutto, meglio. Senza stigmi sociali di sorta, ovviamente e finalmente. Ma, ancora più importante, giocare privi della tremenda tendenza al consumo usa-e-getta tipica del videogioco trendy e del videogiocatore dell’ultim’ora o a quella, ancora più tremenda, dell’eccessivo accostamento del videogioco a forme di interazione ibride con la cinematografia, magari con la scusa di trattare il gioco elettronico alla stregua di “cinema di serie b”. Rivendicare uno statuto autonomo, tentare di fissare alcune linee guida teoriche, suggerire percorsi di fruizione più arguti per il videogiocare: questo è ciò che questa rubrica insegue, molto più che tentare di esporre una trafila di teorie in professorese o di salire in cattedra per bacchettare questa o quella visione della faccenda. Molto umilmente, vorremmo cercare di propagandare un certo modo di giocare: un modo di giocare che assecondi gusti e inclinazioni personali totalmente dispiegate nella loro voluttà ludica, piuttosto che il qualunquismo pubblicitario e dell’hype che genera illustri mostri mediocrità; un modo di giocare che sottolinei i fattori di giocabilità e game design e, in definitiva, lo statuto ludico dei titoli, e non necessariamente il loro fattore di attualità o di moda; un modo di giocare che assuma il dato estetico e di avanzamento delle capacità espressive dei titoli in una prospettiva non-evolutiva, ancorata alla sua epoca di produzione e a criteri di validità estetica (audio/video/tattile) che scansino la terribile equazione tra obsolescenza tecnologica e validità ludica; un modo di giocare, infine, che assuma autoconsapevolezza critica e storica, abbandonando del tutto la pratica, apparentemente incrollabile, del videogioco come bene di consumo usa e getta, che trova lo scaffale del giocatore e lo abbandona nell’arco di una nuova generazione hardware o poco più. Vogliamo, insomma, analizzare i videogiochi, ma non solo. Vogliamo scoprirne le modalità produttive, le ragioni e le vocazioni espressive, e soprattutto il loro perché: la loro capacità di trasportarci o meno in universi di senso sempre diversi e di fonderli con le nostre idiosincrasie e i nostri ricordi personali, come ogni prodotto di una pratica culturale che si rispetti. Per quanto ancorato ad una base grafica in continua evoluzione, del resto, il videogioco "mette in gioco" un sistema di interazione che rimane godibile a fianco di prodotti di generazioni hardware distanti anni luce.