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Che fine ha fatto… Bloody Roar

Nel 1997 nasceva una divertente serie di picchiaduro con protagonisti delle creature zoomorfe: ma dov'è finito, oggi, Bloody Roar?

RUBRICA di Massimo Reina   —   13/08/2017

Che fine hanno fatto... è una rubrica a cadenza regolare che cerca di riportare alla luce quei franchise che per un motivo o per un altro sono caduti un po' nel dimenticatoio, raccontandone la storia, con la speranza di rivederli prima o poi sui nostri schermi.

Oltre a decine di giochi di ruolo, avventure e platform, la prima PlayStation ha avuto l'onore e l'onere di ospitare tantissimi altri generi di successo, come quello dei picchiaduro uno contro uno, e in alcuni casi di celebrare la leggenda di alcuni suoi grandi esponenti, vedendoli consacrare anche in ambito casalingo, come per la serie Tekken. Tra i migliori giochi del genere ce n'erano alcuni meno famosi e forse meno pregevoli, ma lo stesso abbastanza interessanti da meritarsi l'attenzione di una discreta fetta di pubblico. Tra questi c'era la serie Bloody Roar, capace di contare su ben cinque produzioni suddivise su più piattaforme, un manga e un discreto merchandising. Il primo episodio venne sviluppato dal team Raizing per cabinato col titolo di Beastorizer, e poi adattato per PlayStation da Hudson Soft sotto etichetta Sony Computer Entertainment col titolo di Bloody Roar.

Che fine ha fatto… Bloody Roar

Lottatori trasformisti

Peculiarità della serie erano, a livello di gameplay una certa immediatezza e semplicità dei comandi, e in termini di trama il fatto che i lottatori appartenessero a una razza di creature capace di trasformarsi in feroci bestie antropomorfe. Durante i combattimenti, quindi, che avvenivano come in tutti i picchiaduro 3D dell'epoca all'interno di arene tridimensionali, ciascuno dei personaggi poteva cambiare status in quello di "animale", acquisendo particolari abilità e tecniche altrimenti non sfruttabili. Oltre alla classica barra dell'energia, ogni lottatore possedeva una seconda barra che si riempiva ogni volta che questi rifilava un colpo all'avversario, o lo riceveva. Quando questa barra era colma, il giocatore poteva premere un pulsante e far trasformare il suo personaggio in una furiosa bestia da combattimento. Grazie a queste caratteristiche e a una formula ritenuta "fresca" per l'epoca, il gioco di Hudson Soft riuscì a guadagnarsi le simpatie della critica e del pubblico, costituendo sulla prima PlayStation una bella alternativa a titoli più sofisticati e tattici come Tekken 2. Nello specifico, il prodotto ricevette critiche generalmente positive per la sua originalità, per la sua giocabilità e fluidità, e per la sua grafica, pulita e dettagliata.

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Forte del successo ottenuto, Hudson Soft si mise subito al lavoro per il seguito. Bloody Roar 2 arrivò così nei negozi a stretto giro di posta nel 1999, e come spesso accade in questi casi, si rivelò essere il classico "more of the same". La produzione era infatti praticamente simile a quella che l'aveva preceduta, a parte l'inevitabile miglioramento estetico, l'introduzione di qualche nuovo personaggio e qualche altra piccola novità sparsa qua e là. Anche questo gioco ricevette comunque critiche generalmente positive per la sua giocabilità e per la grafica dettagliata. Ma stavolta non mancò qualche critica, specie all'esiguo numero di lottatori, appena nove più uno solo segreto, e a una modalità Storia decisamente sottotono, con fotogrammi statici e tutti uguali tra loro a intervallare i vari incontri e a raccontare gli eventi in corso. Ma per Hudson Soft non c'era tempo per rammaricarsene, visto che PlayStation 2 era all'orizzonte e il team di sviluppo puntava già al nuovo hardware per lanciare ancora più in alto la sua serie.

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La furia della bestia

Bloody Roar 3 (2000) segnò il debutto della serie proprio su PlayStation 2, dove si presentò al pubblico con un approccio addirittura un po' più immediato e meno tecnico degli altri due titoli che lo avevano preceduto. Il campionario di colpi a disposizione dei personaggi non era molto vario, non si impazziva nel cercare di realizzare decine di mosse, ma anzi, grazie ai pochi comandi e a un sapiente mix di combinazioni di tasti, in un batter d'occhio era possibile padroneggiare i combattenti. Questo aspetto da un lato costituiva la forza del gioco, dall'altro il suo limite: se poter accedere subito ai comandi poteva in teoria garantire le attenzioni di un vasto pubblico di videogiocatori, l'assenza di una componente strategica nello scontro, della necessità di studiare l'avversario per poi colpirlo con quanto di meglio si disponeva, finivano per tenere lontano li hardcore gamer o coloro che, dopo aver "assaporato" certi titoli più complessi, cercavano quel tipo di sfida. Gli scontri di fatto qui si traducevano in furiosi combattimenti dove a volte l'utente si ritrovava a smanettare a casaccio sui pulsanti, ottenendo spesso risultati migliori di chi cercava un minimo di tattica. Forse per ovviare a questo aspetto, il team di sviluppo pensò di rendere di default difficile il gioco anche a livello di difficoltà "normale", ma ciò non salvò la produzione da un risultato commerciale al di sotto delle aspettative del publisher.

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Il porting e il quarto “ruggito”

I due porting vennero così pianificati e realizzati nel giro di un paio di anni. Il gioco venne rilasciato infatti nel 2002 su Game Cube col titolo di Bloody Roar: Primal Fury (pubblicato da Activision), mentre su Xbox con quello di Bloody Roar Extreme (pubblicato da Virgin Interactive), con poche e marginali differenze tra loro. Rispetto invece a Bloody Roar 3 per PlayStation 2, c'era invece una trama inedita, tre nuovi personaggi e la possibilità di una seconda trasformazione denominata HyperBeast, condizione nella quale potevano effettuare come da tradizione un numero quasi illimitato di mosse devastanti senza la necessità di dover tener conto della relativa barra. Come l'originale, invece, il titolo manteneva più o meno inalterate le peculiarità della serie, soprattutto a livello di giocabilità, dove i tecnicismi e i tatticismi di titoli più complessi come Tekken lasciavano spazio alla frenesia e alla semplicità, in favore di un divertimento immediato e senza molte altre pretese. Per quanto riguardava l'aspetto tecnico, c'era qualche invece qualche lieve miglioria estetica rispetto sempre alla controparte PlayStation 2, ma niente di così eclatante da far gridare al miracolo, al punto che sulla più performante Xbox il titolo venne in parte bocciato dalla critica per queste ragioni. Ad ogni modo, Eighting e Hudson Soft non si preoccuparono più di tanto e anzi, spinti dalla volontà di continuare la loro saga, completarono i lavori su quelo che per loro era il quarto capitolo regolare e già nel 2003 rilasciarono sul mercato Bloody Roar 4.

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Il titolo, che difatti ignorava la storia dei due porting e riprendeva quella di Bloody Roar 3, manteneva il concept dei suoi predecessori vale a dire semplicità e immediatezza dei controlli, ma aumentava un po' la velocità generale degli incontri e introduceva qualche novità in termini tecnici. In particolare cambiava il modo con cui si gestivano le trasformazioni dei combattenti (nel gioco erano diciotto, tredici sbloccati e cinque segreti): in Bloody Roar 4 non c'erano più la barra di energia più la barra Beast, ma due indicatori di energia, una per la forma umana e l'altra per quella "animale", e in definitiva per sconfiggere un avversario occorreva farlo azzerando entrambe. Tradotto in soldoni, battendo un personaggio in una forma, questi assumeva quella dove aveva ancora energia, fino all'annichilimento totale. Tuttavia l'indicatore della forma bestiale poteva essere ricaricato attaccando e colpendo il nemico, oppure sacrificando l'eventuale "salute" di quella umana. I lottatori che utilizzavano quest'ultimo metodo potevano trasformarsi in automatico in HyperBeast. In termini di novità invece in ambito opzioni di gioco, c'era invece la modalità Carriera consentiva al giocatore di guidare un personaggio attraverso una lunga serie di sfide, vincendo le quali otteneva dei Punti DNA che potevano poi essere spesi per ottenere un po' di tutto: per esempio, per aumentare le statistiche del lottatore, come la salute, la forza e la resistenza, per acquistare nuove combo, oppure per sbloccare altri personaggi, giusto per fare degli esempi.

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Sangue antropomorfo

Il titolo fu tra l'altro il primo e per ora ultimo della serie a ricevere il rating "Mature", per il realismo nel rappresentare il sangue e la violenza, e a utilizzare un doppiaggio durante le scenette. Troppo poco però per impensierire la concorrenza o attirare ancora il pubblico, che infatti sembro stavolta ignorare quasi del tutto la produzione, che non ottenne i risultati sperati, e su questo franchise cadde il silenzio. Almeno fino all'1 ottobre 2011, quando Hudson Soft annunciò tramite Twitter l'inizio della produzione di Bloody Roar 5. Ma tre giorni dopo, la doccia fredda per i fan: si trattava di uno scherzo: l'account non era quello ufficiale del team di sviluppo, come confermava un'immagine che affermava "Siete stati tutti trollati!". In realtà, come si scoprirà in seguito, un quinto episodio (o sesto se contate i porting per GameCube e Xbox come un titolo continuativo) era davvero in produzione, ma a causa dei guai finanziari dell'azienda e alla relativa chiusura degli uffici di Hudson Entertainment, era stato annullato. Sul proprio blog, Morgan Haro, ex Hudson Entertainment Manager, scrisse però che lui e molti altri membri della società non avevano perso la speranza che un giorno un nuovo sviluppatore e un altro publisher potessero riprendere il progetto e l'intera saga. E a noi, da appassionati di videogiochi, non resta che augurarci la stessa cosa.

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