Che fine hanno fatto... è una rubrica a cadenza regolare che cerca di riportare alla luce quei franchise che per un motivo o per un altro sono caduti un po' nel dimenticatoio, raccontandone la storia, con la speranza di rivederli prima o poi sui nostri schermi.
Di survival horror puri, così come di ibridi, ne abbiamo visti davvero tanti negli ultimi vent'anni: alcuni belli, altri meno, altri ancora discreti o poco originali. Tra i più interessanti ai tempi di PlayStation 2 c'era sicuramente Genji: Dawn of the Samurai, gioco sviluppato da Game Republic sotto etichetta Sony Computer Entertainment nel 2005, che in termini di giocabilità e situazioni strizzava palesemente l'occhio a Onimusha di Capcom. Elemento non del tutto casuale, considerando che a capo del team autore del gioco prodotto da SCE c'era quel Yoshiki Okamoto che aveva lavorato per anni proprio alla Capcom, vantando nel suo curriculum lavori in titoli quali Street Fighter II o Resident Evil, e ispiratore proprio di Onimusha: era stato infatti lui anni prima di lasciare l'azienda a suggerire un episodio di Biohazard ambientato nell'epoca Sengoku, ispirando di fatto poi la compagnia per il futuro Onimusha.
Samurai o monaco?
Il Giappone feudale reinterpretato in chiave fantasy, una perfida tirannia, avversari soprannaturali, poteri magici, duelli all'arma bianca, il tutto amalgamato in un breve action-game dalla trama lineare e non troppo complessa, erano gli ingredienti base del gioco. Genji era infatti un action-game con qualche elemento RPG, dove il giocatore poteva interpretare due protagonisti differenti alternandoli livello dopo livello. Il titolo raccontava infatti la storia del samurai Minamoto Yoshitsune e del possente monaco Benkei, impegnati nella ricerca di alcune pietre magiche chiamate Amahagane. L'obiettivo era assicurarsene i benefici e impedire che il loro potere sovrannaturale finisse per incrementare quello degli Heishi, una famiglia già corrotta proprio dalla forza di molte di quelle arcane pietre, tramite le quali aveva messo a ferro e fuoco il Paese.
Se la trama e le ambientazioni del gioco non erano concettualmente poi molto differenti da quelli di Onimusha, con il suo mix di storia vera ed elementi fantastici, lo stesso valeva anche per scenari e meccaniche. Anche qui c'erano degli splendidi fondali prerenderizzati dove si muovevano i personaggi realizzati invece in 3D, aree da esplorare dove recuperare qualche oggetto utile per migliorarsi e decine di avversari da eliminare prima magari dello scontro con qualche boss. E poi la barra da riempire uccidendo gli oppositori, per eseguire devastanti mosse speciali attivando il Kamui, ovvero una sorta di modalità in slow-motion in cui ad ogni animazione d'attacco di un nemico si poteva far coincidere un devastante e inarrestabile contrattacco, e così via.
Katane e magia
Passando da uno stage all'altro attraverso una sorta di "mappa", il giocatore poteva scegliere se affrontare determinate missioni nei panni di Yoshitsune o Benkei, conscio che nonostante le differenze di gameplay minime, la selezione dell'uno piuttosto che dell'altro non influiva sullo svolgersi dell'avventura e sulla sua evoluzione. Il primo era un eroe agile e rapido, capace di compiere salti e fulminei attacchi con le spade, mentre il secondo il tipico personaggio rozzo, possente, tutto potenza e poca velocità: a volte la forza bruta di Benkei poteva risultare utile per sfondare porte e pareti, altre era meglio usare l'agilità di Yoshitsune per raggiungere certe piccole piattaforme, ma niente di che. Al punto che anche il sistema di combattimento variava solo a livello di mosse ma non di comandi: un tasto del pad restava quindi deputato all'attacco singolo o ripetuto, un altro per i colpi più potenti e così via, con la possibilità di eseguire delle semplici combinazioni ai danni dei nemici.
Interessante la funzione che consentiva ai protagonisti, e in particolare a Yoshitsune, di indossare armature e armi trovate in giro per gli scenari. Queste, una volta equipaggiate, erano visibili e quindi differenziavano l'aspetto dell'eroe. Per il resto Genji: Dawn of the Samurai era caratterizzato da un validissimo comparto grafico, anche se non troppo ben ottimizzato con evidenti cali di frame rate nei momenti più caotici, era poco longevo e tendeva a una certa ripetitività di fondo. Elementi che però non pregiudicarono più di tanto il giudizio di critica e pubblico: nessuno lo osannò, ma di certo nemmeno lo bocciò o non ne apprezzò taluni aspetti. Per questo Sony si convinse a finanziarne una seguito che vide la luce nel 2006 stavolta su PlayStation 3.
Intitolato Genji: Days of the Blade, il gioco era ambientato tre anni dopo il predecessore, e riprendeva gran parte degli elementi del suo predecessore, a cominciare dai due protagonisti, Yoshitsune e Benkei, ma stavolta ne aggiungeva due, ovverosia Shizuka Gozen, una sacerdotessa, e Lord Buson, un guerriero armato di lancia. Tutti e quattro i personaggi avevano barre della salute separate ma se uno di loro moriva, il gioco terminava a prescindere dall'energia degli altri compagni. Inoltre, a differenza del gioco precedente, tutti gli eroi potevano cambiare le armi in tempo reale senza interrompere il flusso del combattimento. Genji: Days of the Blade fu uno dei primi giochi per PlayStation 3 a utilizzare l'hard disk integrato. Il gioco, nonostante migliorasse molti aspetti del primo capitolo, ricevette stavolta giudizi quasi esclusivamente negativi, soprattutto a causa della pessima gestione della telecamera, mentre piacque per la grafica e il sistema di controllo. Troppo poco però per spingere le vendite e motivare Sony a un terzo investimento sul progetto, a maggior ragione visto anche il fallimento e la chiusura dello studio di Yoshiki Okamoto avvenuto qualche anno dopo nel 2011. Così la serie Genji finì in quel limbo dove assieme ad altri titoli ormai dimenticati, aspetta un segnale che forse non arriverà mai, per tornare nuovamente in pista.