State Of Emergency
State of Emergency richiede che vi facciate largo a colpi di qualunque tipo di arma disponibile tra ambienti saturi di persone da picchiare, poliziotti da far fuori, sangue da far colare e vetrine da devastare con quanto più arsenale possiate raccogliere. Qualcuno dirà “ecco il ritorno dei picchiaduro”, visto che del buon vecchio genere dei picchiaduro a scorrimento alla Double Dragon o Streets of Rage, in cui far fuori accozzaglie di cattivoni a suon di nude nocche, non rimane quasi più nulla sugli scaffali. Le variazioni eccellenti sono pochissime e perlopiù trasportano il genere verso nuove direzioni, verso il 3D di SpikeOut! o l’impressionante ibrido di Viewtiful Joe, che di fatto sfugge in pieno a ogni categorizzazione. State of Emergency, a conti fatti, è l’unico titolo che recupera il genere classico, ma lo fa nella sua versione basica, priva di richiesta di cervello o manualità. E lo fa nell’unico modo in cui era possibile in quest’epoca, cioè sciacallando il motore di programmazione e la violenza eccessiva delle versioni poligonali di Grand Theft Auto. In questo modo, avranno pensato i tipi alla Rockstar, abbiamo un motore collaudato ma ancor più semplificato per gestire milioni di vittime potenziali su schermo, e possiamo far leva su una fetta di mercato che abbiamo quasi ri-creato noi “tagliando” tra i generi: il genere della violenza gratuita.
A conti fatti, però, dei vecchi picchia-picchia State of Emergency recupera soltanto il feeling di caos e insensatezza di alcuni dei più ripetitivi e noiosi titoli della storia. E di Grand Theft Auto rischia di diventare una specie di brutta filigrana, una specie di calco negativo. Sembra quasi come se di punto in bianco uno dei programmatori si fosse sia stancato di programmare in continuazione delle routine realistiche per far si che si venisse scoperti o si rischiasse di essere arrestati non appena si pestava un passante in GTA. E che abbia poi deciso di lasciar tutto andare e farsi uno spin-off dove picchiare a casaccio è sempre la norma: una sorta di liberazione catartica da designer contro lo sforzo che richiede un mondo digitale verosimile. Nel processo deve essergli però decisamente scappata la mano: missioni lineari, decine e decine di individui da maciullare e vetrine da distruggere, con spruzzatine di pseudo-missioni, risultano divertenti solo se ripetute per meno di un paio di ore, dopo le quali con la superficialità e ripetitività sopraggiunge anche la nausea. Per non parlare del fatto che è la trasgressione del gesto, e non la sua reiterazione insensata, a rendere divertente il fatto di poter infierire insensatamente su un passante elettronico.
VOTO: 5,5
Smuggler’s Run
Contrabbando, corse a rotta di collo con armi e sbirri alle calcagna, violenza mista a velocità e a vasti ambienti di gioco in cui portare a termine missioni fuorilegge. Un vecchio titolo, certo, dalla resa tecnica forse “superata” secondo il vizioso paradigma che mette al primo piano le prestazioni tecnologiche. Ma, questo è sicuro, un gioco originale e divertente quanto dimenticato, nonché, e non è poco, uno dei motivi più influenti alla base dell’acquisto del team Angel Studios da parte di Rockstar, con conseguente cambio di nome in Rockstar San Diego.
La proprietà fondamentale di Smuggler’s Run è di essere veloce, divertente e coinvolgente in maniera decisamente originale: la formula dell’arcade racer senza pretese simulative si sposa bene con il concetto di trasportare carichi illegali in ambientazioni pulp, con tracciati da fuoristrada, su per salite scoscese, giù per discese a rotta di collo, contro le asperità del terreno, cancelli da sfondare e gli sbirri o i rivali pronti a piombarvi addosso con macchine decisamente più veloci e che non hanno alcun problema a impattarvi addosso senza pietà. L’aspetto in cui i programmatori hanno centrato in pieno è il rapporto tra simulazione e realismo fisico da un lato e puro caos da controllo dall’altro: la macchina si impenna, si inclina sui lati, sbanda e salta generosamente consentendo di riportarla su quattro ruote anche dopo molti e violenti scossoni, ma certo non tutto è concesso e il controllo risulta decisamente ludico, con il minimo di tecnica richiesta al servizio del puro divertimento. La sfrenata modalità a due giocatori e l’immensità degli ambienti di gioco in cui rincorrersi rendono Smuggler’s Run un titolo originale e capace di regalare intrattenimento a iosa, pregi ludici che fortunatamente non vengono intaccati dal passare del tempo.
VOTO: 7,5
The Getaway
The Getaway è più un film problematicamente interattivo che un videogioco a vocazione di trama d’autore, più un Dragon’s Lair dei giochi di guida che una versione migliorata di Driver e più un tour forzato su un bus a tracciato unico che un mondo digitale vivente come Grand Theft Auto. Quanto più le tecnologie glielo hanno consentito, tanto più il videogioco ha tentato, e ripetutamente, di assurgere allo statuto narrativo di altri mezzi espressivi, in particolare il cinema. Con risultati altalenanti, e spesso pochissimo riusciti. Getaway costituisce il tentativo più radicale degli ultimi anni, e muove le mosse da titoli come Mafia per creare una riproduzione incredibilmente dettagliata della Londra reale, con uno sforzo documentale mastodontico che mira a immergere completamente il giocatore nella trama hard-boiled del gioco. E tenta di annullare proprio quei dispositivi informativi che, nel videogioco, ne tradiscono l’identità di ambiente ludico a mezzo di interfaccia: viene infatti cancellata dallo schermo ogni sorta di indicatore di salute o livello e perfino la possibilità che appaia una mappa dell’enorme e clamorosamente ben replicata città. Nel tentativo di estrema immersione filmica, tutto è clamorosamente assente.
La scelta è originale, e soprattutto coraggiosa, esponendo però Getaway alla sorte che attende le opere che pretendano dal videogioco lo sfondamento oltre i confini che gli competono, o delle regole fondamentali che, se non seguite, lo portano alla rovina. Tra cui la semplice idea di controllo sul mezzo ludico. Il gameplay di The Getaway è per metà un misto tra i moduli di corse di GTA e il gameplay di Driver, ma guidato dalle frecce delle auto che sostituiscono gli indicatori lampeggianti di un normale titolo. E per l’altra metà uno shooter in terza persona con un pessimo sistema di controllo, frustrazione da telecamere mal implementate e da smarrimento in un ambiente sconosciuto, con un gameplay affogato da interminabili sezioni narrative e strangolato da percorsi guidati e praticamente prefissati. Poco importa lo sforzo tecnologico imponente profuso nel ricreare la città di Londra o la presentazione dell’apparato dialogico e narrativo dal livello professionale e cinematografico (aspetti senza dubbio eccellenti), se l’esperimento del film interattivo o del gioco all’incrocio con il cinema risulta in definitiva un titolo frustrante e con momenti in cui il team di beta tester sembra aver chiuso un occhio sulla giocabilità. Con l’entrata di GTA e del suo immaginario nel mercato e nella cultura mainstream dei videogiochi la domanda di titoli dal gusto adulto, narrativo, violento o controverso ha determinato nuove opportunità commerciali per titoli ambiziosi, ma non andrebbe dimenticato che la forza di GTA consiste nella cura dell’esperienza ludica e non certo di un preteso “realismo” che molti sfruttano per partorire titoli dalla giocabilità non eccelsa. The Getaway non sfugge a questa tiratina d’orecchie. Non è affatto il capolavoro atteso da molti, e neanche un ottimo gioco. Si tratta certamente di un titolo fuori dal comune, il cui coraggio può essere un aspetto lodevole, e di un’esperienza da provare. Ma, a seconda dei gusti, potrebbe tanto riuscire a coinvolgervi un minimo quanto stentare a raggiungere la sufficienza.
Voto: 6,5
Ratchet & Clank
Ratchet and Clank, per quanto simile al buon Jak & Daxter, non è un platform “puro”. Si tratta piuttosto di un ottimo, ben riuscito tentativo di creare, in versione tridimensionale, il vecchio tipo di crossover tra platform, shooter e action-adventure (con elementi vagamente da gioco di ruolo) che non era poi così raro riuscire a trovare nella generazione a 16 bit o anche a 32 bit. Il genere, sia esso vecchio stile o in tre dimensioni, al giorno d’oggi non spopola di certo in classifica. E, al di la dei motivi alla base di queste dinamiche (affermarsi di generi alternativi e di universi estetici diversi e più adatti a un titolo “maturo”), è allora piacevole potere constatare il successo di un tentativo di rinverdirne i fasti. In Ratchet and Clank, però, saltare, sconfiggere i nemici con attacchi base e raccogliere tutti i bonus e i powerup non è tutto.
La commistione con l’elemento shooter, tramite armi di ogni genere e azioni particolari da attuare in combinazione con i due personaggi, rende l’azione più varia e additiva. La possibilità di transitare in maniera non lineare tra i diversi mondi del gioco, guadagnando contanti dai nemici uccisi e acquistando armi e oggetti diversi per missioni specifiche o per il continuo potenziamento, aggiunge poi al buon gameplay una longevità parecchio ben studiata e prolungata. Ratchet and Clank è un ottimo ibrido tra diverse scuole di pensiero, con il platform a fare da collante e una forte ispirazione da molti dei più riusciti risultati di scuola Nintendo e non (Mario 64 e Banjo-Kazooje in primis, ma anche Jak & Daxter, al quale somiglia così tanto per via del motore grafico e di programmazione in comune). Un ottimo platform, quindi, divertente, longevo e ben presentato. E, considerata la scarsità di titoli del genere su PS2, consigliato per arricchire la softeca.
Voto: 7,5
Ancora un volume dei nostri speciali dedicati alla serie Platinum. Fate largo a Ratchet & Clank, un gran crossover di platform e azione. E a State of Emergency, Smuggler’s Run e The Getaway. Un brawler frenetico, un interessante racing off-road a missioni e la ricostruzione da gangster movie giocabile di Londra. Titoli, questi ultimi, che in modo o nell'altro hanno a che vedere con la serie-capolavoro di Grand Theft Auto, in questi giorni all’assalto delle PS2 col mastodontico San Andreas.