Chissà cosa pensavano i nostri antenati mentre riempivano di disegni le Grotte di Lascaux. Dubitiamo che 17.000 anni fa si sentissero artisti nel senso contemporaneo del termine, ma sicuramente davano un senso a quelle che erano semplicemente raffigurazioni di ciò che li circondava, ossia della loro vita quotidiana. Su quelle pareti rimaste nascoste per millenni c'erano cavalli, cervi, bisonti e anche una figura umana, visibilmente nuda. Cosa avranno voluto dirci gli autori? Volevano rappresentare l'eterna lotta dell'uomo contro la natura? Oppure volevano farci presente che gli piaceva parecchio la carne di manzo? Avevano alti fini espressivi? Oppure volevano solo divertirsi?
Avete mai visto una chiesa medievale riccamente affrescata? Nella maggior parte dei casi gli autori degli affreschi sono rimasti ignoti. A volte, quando si riconosce una linea stilistica in più opere, si parla di "Maestro di", con affianco il luogo in cui ha lavorato, ma finisce lì. Difficilmente i registri pubblici citavano queste persone. In generale non sappiamo che ambizioni avessero questi "artisti", ma difficilmente volevano "esprimere se stessi". Incidentalmente lo facevano, ma la loro personalità emergeva nei dettagli, non nei soggetti, che erano fissi e decisi dai committenti. L'arte all'epoca aveva una funzione essenzialmente civile o religiosa e gli artisti erano considerati essenzialmente degli artigiani. Del resto spesso un singolo affresco era opera di più mani, ossia di una certa bottega, non certo di un solo individuo ispirato dal sacro fuoco della creazione (al massimo da un po' di vino). Insomma, quegli uomini non erano artisti e non si consideravano artisti, perché non sapevano nemmeno che cosa fossero gli artisti come li intendiamo oggi, eppure chi negherebbe nel 2018 che abbiano fatto arte? Chi, entrando dentro a una chiesa medievale riccamente affrescata, riuscirebbe a risalire al senso originale di quelle figure e al perché furono commissionate? Paradossalmente quei pittori hanno iniziato a essere chiamati artisti quando la loro arte ha assunto un senso che non aveva mai avuto e che non avevano mai voluto dargli. Del resto ormai sono cadaveri, quindi gli interesserà il giusto dell'intera faccenda.
Ieri ha sollevato un certo clamore la perentoria dichiarazione, con brutto fumetto allegato, del vulcanico Hideki Kamiya, che non vuole sentir parlare di videogiochi come arte. Per lui non lo sono. Lui vuole essere un intrattenitore, non un'artista. Apriti cielo: il mondo dei videogiochi si è scatenato. Al di là di tutte le possibili questioni sollevate da tale dichiarazione, che non sono affrontabili in un articolo di commento come questo, chiediamoci una buona volta se sia davvero importante quello che un autore pensa delle sue opere, partendo dal presupposto che prese di posizione come quelle di Kamiya, che sono considerabili come degli slogan, lasciano il tempo che trovano. Ovviamente vale lo stesso per le affermazioni di senso contrario. Tanto per fare due esempi, dire che "i videogiochi sono arte perché possono emozionare", oppure che "i videogiochi sono arte perché sono una sintesi di altre arti" non significa davvero nulla.
Un giorno chi scrive assistette a un incontro dello scrittore Antonio Tabucchi con il critico e storico della letteratura italiana Giulio Ferroni. Tabucchi lesse ad alta voce l'interpretazione che Ferroni dava di un suo libro appena pubblicato, "Sostiene Pereira". Finita la lettura, Tabucchi gli disse candidamente che lui non lo aveva mai pensato in quei termini, ma lo ringraziò perché era una bella interpretazione. Ecco, un autore non deve sparire dalla sua opera, ma deve riuscire a mettersi da una parte accettando che essa possa porre domande diverse da quelle che lui desiderava che ponesse. Quello di arte è un concetto sociale, non individuale e un autore che pretendesse di esaurire in se stesso il senso di un oggetto d'arte, sarebbe semplicemente un folle. Non che il fruitore abbia la completa libertà di interpretazione di un testo, come molti stupidamente credono, perché ogni atto interpretativo fondato non può che partire dal testo stesso, ma pretendere che esista un'unica interpretazione corretta e che questa corrisponda con la visione dell'autore, è una modo di pensare arrogante, quanto ottuso.
Insomma, la dichiarazione di Kamiya non ci spinge a chiederci se i videogiochi siano o no arte, visto lo spunto ben misero che offre, ma solo quando i videogiochi saranno degni di avere degli autori capaci di mettersi da parte, non pretendendo di stabilire leggi universali in un Tweet, e dei videogiocatori che, invece di rispondere a degli slogan con altri slogan, derubrichino certe uscite come meritano e si mettano a riflettere davvero su di essi, qualsiasi siano le loro conclusioni. Insomma, non è certo Kamiya che deve dirci se è o non è un'artista.