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Luke Cage stagione 2, la recensione

L'indistruttibile supereroe di Harlem torna su Netflix con una seconda stagione che fatica a decollare ma che riserva non poche sorprese nella seconda metà

RECENSIONE di Christian Colli   —   28/06/2018

Le serie televisive di Netflix basate sui fumetti Marvel non sono ancora riuscite a trovare un preciso equilibrio. La qualità negli ultimi tempi è stata altalenante: basti pensare ai mediocri risultati raggiunti da Iron Fist e The Defenders, che avrebbero dovuto essere le stagioni più supereroistiche del corso, soprattutto se paragonate alle vette d'eccellenza raggiunte da spin-off come The Punisher. Nonostante ciò, ogni Defender ha conquistato una propria identità tematica, Luke Cage prima di tutti gli altri: un esperimento riuscito in parte, quello della prima stagione, tutta ambientata a Harlem e incentrata sulle lotte di potere tra le gang e sulle origini del protagonista. Luke Cage era un eroe difficile da collocare in un format televisivo, ma Marvel in qualche modo ce l'ha fatta, pur arrivando al traguardo col fiato corto. La nuova stagione, che prosegue la storia dopo i fatti di The Defenders, riprova a battere quella strada con una serie di scelte molto coraggiose che, però, non ci hanno convinto completamente. Nella nostra recensione senza spoiler vi spiegheremo perché.

La trama senza spoiler

Finalmente scagionato, Luke Cage è tornato a Harlem insieme a Claire Temple, ma all'orizzonte si profilano tre grossi problemi. Il primo si chiama Mariah Dillard: l'ex senatrice che gli ha dato filo da torcere nella prima stagione, e che ora ha stretto una torbida relazione con l'astuto Shades, ha deciso di prendere il controllo della città a tutti i costi, cominciando una lotta senza quartiere contro le altre bande. Questo conduce direttamente al secondo problema: Bushmaster. All'anagrafe John McIver, la nuova spina nel fianco di Luke è un giamaicano intenzionato a regnare su Harlem e a vendicarsi di Mariah, in quanto ultima rappresentante in vita della famiglia che ha distrutto i McIver. Il problema è che Bushmaster ricorre al Nightshade, una radice che amplifica le sue capacità combattive rendendolo forte e resistente quanto e più di Luke. Il terzo grattacapo di Luke, e forse il più importante, consiste nella sua crescente popolarità: l'eroe di Harlem forse non riesce ad attirare l'attenzione degli Avengers, ma quella di tutti gli altri cittadini sì, e con un'app per cellulare che registra la sua posizione continuamente, Luke deve barcamenarsi tra sparatorie, selfie e autografi.

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Nonostante le premesse, la seconda stagione di Luke Cage mantiene lo stesso ritmo estremamente lento e cadenzato della prima: ci sono parecchie scazzottate e sparatorie, ma sono diluite attraverso tredici lunghissime - letteralmente: alcune durano più di un'ora - puntate che, ancora una volta, ci sono sembrate troppe. La nostra convinzione resta la stessa: le serie Marvel sulla piattaforma Netflix dovrebbero contare meno episodi, massimo otto o dieci come The Defenders. Il risultato, infatti, è una stagione che nella prima metà raggiunge considerevoli picchi di noia, girando in tondo a un intreccio che già di per sé è piuttosto pesante, così com'è composto da intrighi e complotti criminali. Intorno al settimo episodio la faccenda cambia e si intravede uno spiraglio di luce attraverso una serie di colpi di scena che tengono col fiato sospeso fino al sorprendente finale, ma a quel punto sospettiamo che ci arrivino soltanto i più determinati o i fan sfegatati di Power Man, un eroe che purtroppo non sembra essere il protagonista di questa storia.

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Un problema di personaggi

Nonostante si sia impegnato di più, rispetto alla prima stagione, Mike Colter è un attore flemmatico che trasmette poche emozioni soprattutto quando affronta i momenti di tensione insieme a colossi del calibro di Rosario Dawson, una Claire stranamente poco presente, o del compianto Reg E. Cathey che interpreta suo padre, il reverendo James Lucas. La sceneggiatura di certo non aiuta, dato che Luke rimane per la maggior parte del tempo una pedina sulle scacchiere dei suoi nemici. In questo senso, Mustafa Shakir conquista lo schermo ogni volta che indossa i panni di Bushmaster: è un villain con un carisma da vendere che non fa rimpiangere il Cottonmouth del bravissimo Mahershala Ali, grazie anche a una coreografia che sembra esaltare le scene d'azione in cui è protagonista a scapito di quelle in cui Luke Cage mena le mani insieme ad Iron Fist proprio come nei fumetti Marvel. Alcuni comprimari, come Misty Knight (Simone Missick) e Shades (Theo Rossi), hanno archi narrativi ben più interessanti: la prima deve fare i conti col braccio che ha perso e con la sua integrità professionale, il secondo col mostro che ha contribuito a creare consigliando la crudele "Black" Mariah.

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Il personaggio interpretato dalla straordinaria Alfre Woodard ruba praticamente la scena a tutti gli altri per l'intera stagione, sprofondando in una spirale di violenza con una convinzione e una determinazione che fanno letteralmente paura. L'attrice - vincitrice, fra le altre cose, di un Golden Globe nel '98 - dimostra tutto il suo talento in ogni dialogo, catturando il perverso interesse degli spettatori. Mariah Dillard è la vera protagonista di questa seconda stagione di Luke Cage e non è un caso se il suo complicato rapporto con la figlia Tilda (Gabrielle Dennis) riflette quello tra il nostro eroe e suo padre. Nonostante ciò, questo è forse anche il più grande fallimento della stagione due di Luke Cage, un prodotto che, come dicevamo, ha conquistato un'identità precisa con le sue tematiche e il suo modo peculiare di adattare al piccolo schermo certi personaggi Marvel.

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I fan della prima stagione ritroveranno in questa tutte le caratteristiche che avevano apprezzato, a cominciare dalla regia precisa e attenta, passando per i lunghi - forse troppo - siparietti musicali in cui si esibiscono celebrità del calibro di KRS-One, Rakim e Ghostface Killah. Tuttavia anche questa stagione di Luke Cage si incarta su personaggi che non riescono a uscire dalle gabbie in cui gli sceneggiatori li hanno infilati. Il problema è che principalmente non succedono poi così tante cose nel corso di queste tredici puntate, perciò ogni personaggio è costretto a recitare una parte che si sviluppa poco e niente: in questo senso, gli inevitabili rovesci e ripensamenti, negli ultimi episodi, ci sono apparsi forzati oppure prevedibili, ma purtroppo poco naturali. Il finale, che non vogliamo anticiparvi, è probabilmente l'esempio più lampante di questo ragionamento e, sebbene rimescoli le carte e spalanchi le porte a una terza stagione che potrebbe essere davvero interessante, resta comunque molto artificioso.

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Conclusioni

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7.0

Pur essendo orfana di alcuni grandi interpreti, la seconda stagione di Luke Cage annaspa all'inizio e convince solo da metà in poi grazie a un'ottima regia e a villain convincenti, ma fatica a inquadrare il protagonista in una dimensione precisa, supereroistica o realistica che sia. Luke Cage resta perciò il serial più particolare tra quelli Netflix ispirati ai personaggi Marvel, ma in futuro bisognerà probabilmente intraprendere una strada diversa se non si vorrà trasformarlo nel cliché di sé stesso.

PRO

  • Ottime interpretazioni
  • Regia di alto livello
  • I nemici di Luke conquistano ogni scena

CONTRO

  • Qualche puntata di troppo
  • Alcuni personaggi si sviluppano poco e male
  • Legami col MCU sempre più improbabili