Può capitare di incrociare un uomo medio che entra in un museo d'arte contemporanea. Osservandolo lo si vedrà girare per le sale perplesso per quanto si trova di fronte. Tele di un solo colore, mucchi di stracci gettati a terra, oggetti d'uso quotidiano messi in teche di vetro e così via. La reazione, tranne in pochi casi, sarà sempre più o meno la stessa, con il nostro ometto che tenderà a considerare ridicolo il campionario di stranezze che si trova innanzi.
Guardando una tela tagliata il suo cervello correrà inevitabilmente a capolavori come il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina, tanto per fare un esempio celebre, chiedendosi come si possano davvero inserire entrambe le opere nello stesso insieme dell'arte. Si tratta di una reazione naturale, dovuta a diversi fattori, tra i quali il riconoscimento di un lavoro e, soprattutto, l'illusione di saper leggere l'opera di Michelangelo, perché raffigurante qualcosa di più vicino all'esperienza di ognuno. Ora, non è il caso di stare a discutere di come spesso la verità sia ben diversa e che anche di fronte a un'opera d'arte figurativa, con una rappresentazione accuratissima del suo oggetto, la lettura sia tutt'altro che ovvia e limitarsi a convenire sulla bravura dell'artista nella riproduzione della realtà sia un punto di partenza fallace (quanti saprebbero davvero "leggere" il Giudizio Universale di Michelangelo? Ma anche, più semplicemente, un qualsiasi quadruccio Barocco?). Quello che ci interessa è il confronto immediato, con la difficoltà, a volte semplice incapacità, di trovare in quello che si considera l'altro lato della barricata la sintesi di un percorso che comprende anche ciò che si ammira. La frase tipica pronunciata da molti di fronte a una tela di Rothko o a un Ready-made di Duchamp è sempre, più o meno: "lo avrei potuto fare anche io", dove il riconoscimento della semplicità realizzativa diventa un giudizio estetico negativo per connotare qualcosa cui non si riconosce alcun valore e che, anzi, ci si rifiuta di mettere sullo stesso piano di opere apparentemente più complesse.
Nella sua semplicità, Mountain finisce per rappresentare noi stessi in più di un modo
Il mondo fluttuante
Di fronte a Mountain di David OReilly, i videogiocatori si sono comportati come l'uomo medio occidentale di fronte all'arte contemporanea: lo hanno sommerso di pregiudizi.
Non riuscendo a comprenderne la natura, lo hanno prima associato a giochi come Rock Simulator 2014, urlando alla truffa e all'idiozia di chi produce certa roba e di chi l'acquista, quindi si sono lanciati nelle solite invettive piene d'odio facendo confronti con i grandi giochi tripla A, "mica questa roba", infine sono tornati a guardarsi con soddisfazione la punta del pene ridacchiando soddisfatti. Sarebbe facile scrivere che mai giudizi furono più affrettati o, quantomeno, inopportuni, perché denunciano un deficit di comprensione nel fruitore, più che di mancata chiarezza dell'opera. Mountain di suo fatica anche a definirsi un videogioco, nonostante OReilly lo voglia come tale quasi con un senso di stizza verso chi ha sempre pronte etichette da affibbiare a tutto. Descriverlo è davvero semplice: la prima volta che lo si avvia bisogna comporre tre disegni con un pennello nero su tre tele bianche, quindi viene generata una montagna fluttuante nello spazio, che secondo OReilly è la rappresentazione di se stessi. Cosa si può fare con questa montagna? La si può roteare, si può zoomare per osservarla più in dettaglio, ma essenzialmente bisogna starla a guardare, magari per più di cinquanta ore, come indicato provocatoriamente nell'elenco delle caratteristiche sul sito ufficiale.
Ah, Sarashina! / Per tre notti ho contemplato la luna / senza una nuvola
La pittura orientale è molto diversa da quella occidentale. È facile riconoscere i temi ricorrenti dei vari maestri, magari anche lo stile, ma è meno ovvio per noi occidentali accettarne la funzione contemplativa.
Scrive Bashō nelle Note dal tempietto dell'animo libero, che "La montagna è quiete e nutre lo spirito, l'acqua è movimento e mitiga le passioni.", riprendendo una celebre brano di un dialogo di Confucio che recitava "Il sapiente si diletta dell'acqua, l'uomo dotato di umanità si diletta della montagna; il sapiente si muove, l'uomo dotato di umanità rimane quieto; il sapiente gode, l'uomo dotato di umanità vive a lungo". Parte della grande pittura orientale era dedicata alla quiete, ossia era pensata per favorire la meditazione. Per questo c'era una ricerca dell'armonia nelle linee e nelle forme che per noi era ed è particolarmente difficile da cogliere e per questo spesso fatichiamo di fronte alle rappresentazioni più classiche a trovare un senso che vada oltre l'oggetto raffigurato. Non erano opere pensate per la fruizione veloce, come quella di un museo dove si saltella da un quadro all'altro regalando appena uno sguardo a ognuno, ma per accompagnare lo scorrere del tempo. Ora, non vogliamo farvi una lezione sulla pittura orientale e la meditazione, ma solo farvi capire che esistono diversi concetti d'arte e che gli strumenti che abbiamo sviluppato per leggere certe opere nate in un certo contesto socio culturale, non sono sufficienti per leggerne altre nate in contesti culturali completamente differenti. Una montagna di un paesaggio inglese del settecento ha una valenza completamente diversa da una montagna di un quadro di Hiroshige, e non solo per una questione di stile individuale.
L'odio per se stessi
A questo punto dovreste aver capito dove stiamo andando a parare. Mountain non vuole essere un videogioco nel senso più canonico del termine e non si preoccupa minimamente di divertire chi si trova dall'altra parte del video. Sarà paradossale o difficile da accettare in un'epoca in cui tutto scorre alla velocità della luce, ma Mountain chiede meditazione e lentezza, e per questo assume una sua importanza. Oggetto fluttuante nello spazio, si fa soggetto sotto gli occhi del "giocatore", ossia immagine di chi ha disegnato le tre tele, proponendosi come modo per meditare su se stessi. Unica, ma simile a molte altre, la montagna fluttua in eterno, soggetta alle intemperie e allo scorrere delle ore. Ora, nessuno vi obbliga a farvi piacere Mountain. Anzi, nel caso non vi interessasse, sareste ampiamente giustificati e potreste tranquillamente guardare altrove.
Ciò che si contesta a molti è la manifesta astiosità verso qualunque progetto si fatichi a comprendere. Normalmente siamo noi videogiocatori a lamentarci quando la stampa generalista o qualche associazione attacca a testa bassa il nostro mondo, dimostrando di non avere nessuna voglia di distinguere e capire quello che facciamo e perché ci piaccia tanto farlo. Purtroppo, sempre più spesso negli ultimi anni, sta capitando di trovarsi di fronte a fenomeni di intolleranza simile, nati però all'interno del nostro mondo. Fosse anche Mountain un titolo furbo alla ricerca di soldi facili, che senso avrebbe scagliarglisi addosso con tale violenza? Chi vi obbliga ad acquistarlo? In che modo l'esistenza di un titolo simile preclude quella degli altri videogiochi? Che potere attribuite all'autore di Mountain da spaventarvi tanto? Soprattutto: perché non si riesce a tollerare che qualcuno possa avere una visione del medium videoludico diversa dalla nostra? Perché non si accetta che voglia rappresentarla in qualche modo? Ora è il caso di andare un po' sul personale, per farvi capire l'assurdità di certe reazioni smodate, appartenenti a chi evidentemente non ama veramente i videogiochi come medium, ma cerca soltanto in essi un modo per affermare la sua identità e per sfogare qualche frustrazione che la vita non fa mai mancare. Chi scrive è uno di quelli che ha dato il suo dollaro all'autore di Mountain, prima di sapere che ne avrebbe tratto un articolo. Chi scrive videogioca da circa trent'anni e lavora come giornalista di settore da circa quindici, quindi ritiene, magari a torto, chissà, di poter compiere le sue scelte videoludiche con una certa assennatezza e di avere sviluppato alcuni strumenti critici che gli permettono di decidere cosa gli interessa e cosa no. Magari chi scrive ama semplicemente provare piccoli titoli sperimentali, per capire nuovi concetti di videogioco, a prescindere dalla loro compiutezza o meno. Ecco, ora spiegateci perché chi scrive ha dovuto sentirsi dare dell'idiota da persone che acquistano solo i giochi venduti dalle pubblicità.