Ricordo come fosse ieri il momento in cui mi sono innamorato dei MMORPG. Il teatro era quello di Final Fantasy XI, primo contatto fra Squaresoft e l'universo online: mi trovavo nell'area di East Ronfaure, una piccolissima regione boschiva appena fuori dalla capitale fortificata del regno di San D'oria, e stavo respirando a pieni polmoni la meraviglia del primo incontro con un mondo condiviso. Fino ad allora mi ero limitato ad assistere passivamente a qualche partita su Dark Age of Camelot, e non potevo assolutamente immaginare l'emozione che avrei provato - dopo anni trascorsi a giocare da solo o al massimo affianco a qualcuno sul divano - nel far parte di un gigantesco universo persistente, un costrutto virtuale del quale svelare dozzine di segreti assieme a migliaia di altre persone.
Allora stavo cacciando conigli. Guidato dal timore reverenziale verso la regione sconosciuta, mi muovevo circospetto verso sud, sentendomi sempre più solo a ogni passo che mi allontanava dai rassicuranti cancelli del castello: certo, da una parte c'era tantissima paura - anche perché alla morte corrispondeva la perdita dei punti esperienza faticosamente accumulati - ma dall'altra la spinta della curiosità si faceva ogni metro più assuefacente. Sulla sinistra notai un cimitero popolato di fantasmi svolazzanti dall'aria minacciosa, ma a catturare la mia attenzione fu una grossa struttura monolitica d'un bianco perlaceo, ben visibile oltre le colline a sud che delimitavano lo spicchio di foresta. Feci l'errore di cambiare zona, varcando i confini sconosciuti di La Theine Plateau.
Non si trattava certo di un posto spaventoso, era un vasto altipiano popolato per lo più da caproni, ma non era certo il luogo più adatto per un novellino di livello 7. A un certo punto dai cespugli spuntò un Goblin con il suo coltellino in mano e cominciò a inseguirmi: dentro di me sapevo già che non ci sarebbe stato nulla da fare, si trattava di un nemico che avevo già affrontato, ma stavolta il livello era molto più alto. Lanciò una bomba e fece esplodere in una nube di fumo tutti i miei sogni d'esplorazione. Poi accade l'impensabile: vidi avvicinarsi una grossa figura in armatura argentata che prese il Goblin e lo utilizzò per pulire il pavimento, dopodiché assunse una posizione di preghiera e mi riportò in vita. Ricordo che era un Galka, particolare razza di Vana'diel, con indosso l'armatura "Artefatto" del Paladino, in pratica una sorta di miraggio per qualcuno come me che aveva appena iniziato la sua avventura. Mi salutò è stette fermo per qualche secondo, inconsapevole di aver appena cambiato la giornata di un tredicenne. In quel momento, nella mia mente c'era un solo pensiero: un giorno anche io sarei diventato come lui.
Alla fine non diventai mai un Paladino: fui prima un Ninja, poi un Beastmaster, poi ancora un Druido ma molto lontano da Vana'diel, nella Azeroth del primo World of Warcraft. In quel preciso istante, tuttavia, scoprii cosa significasse vivere l'esperienza unica offerta dai MMORPG, l'atto di esplorare mondi immensi nei quali era impossibile procedere da soli, si era forzati a stringere nuove amicizie, tentando costantemente di inseguire obiettivi apparentemente irraggiungibili. Un'esperienza che oggi non esiste più: i MMORPG hanno fallito nel loro intento, si sono trasformati in qualcosa di profondamente diverso, conservando nella propria anima un enorme potenziale che prima o poi li condurrà a dominare il mondo dei videogiochi.
Diari dai mondi virtuali
Dopo l'incontro con quel Paladino Galka, Final Fantasy XI mostrò la sua reale natura, rivelandosi un costrutto complesso oltre ogni possibile aspettativa. Dopo aver sterminato i conigli di Ronfaure fino a raggiungere il livello 10, mi resi rapidamente conto che continuare a far fuori la fauna locale non mi avrebbe portato da nessuna parte. Non esistevano guide online, non c'erano canali Discord, ma soprattutto non c'erano segnalini a illuminare la mappa: l'unico modo per cavare un ragno dal buco era interagire con altri giocatori.
Mi spiegarono che avrei dovuto viaggiare verso sud, attraversando un paio di regioni molto pericolose, tenendomi sempre le montagne sul fianco sinistro, solcando le dune di un piccolo deserto nel tentativo di raggiungere il villaggio di Selbina: nella piccola città portuale ai margini del mondo avrei infatti trovato avventurieri come me, ciascuno in cerca di cinque compagni con cui affrontare i mostri delle Valkurm Dunes. Fu così che m'incamminai in quello che sarebbe stato solamente il primo fra dozzine di viaggi interminabili, vere e proprie avventure impossibili da riprodurre in qualsiasi altro contesto videoludico: ci si sentiva come i marinai che si trovarono all'improvviso sulle coste del Centroamerica, trovandosi spiazzati tanto dai panorami quanto dalla fauna e la flora sconosciute.
Selbina fu la mia casa per diversi giorni, iniziai a conoscere un po' di persone, finché a un certo punto non mi dissero che ero abbastanza forte, che avrei dovuto partire alla volta di Jeuno. "La città nel centro del mondo": era così che la definivano. Ovviamente non esistevano Wiki dedicate, gli screenshot erano rarità assolute, non c'era alcun modo di conoscere le fattezze di un centro abitato se non vedendolo con i propri occhi. Partii assieme ad altri due giocatori: l'unica cosa che sapevamo era che avremmo dovuto procedere verso est, attraversare l'altipiano e raggiungere una foresta chiamata Jugner, luogo in cui qualsiasi belva ci avrebbe annichilito con un singolo colpo. Il piano era costeggiare la barriera sud del bosco e raggiungere Batallia Downs, grossa piana in rovina antistante le porte di Jeuno. Lì avremmo incontrato il nostro contatto, un Ranger di livello molto alto che ci avrebbe condotto al sicuro oltre i cancelli della città. Tutto andò come previsto, ed entro sera ci trovammo di fronte a uno spettacolo imprevedibile: il ponte centrale della città era invaso da centinaia di giocatori, più di quanti ne avessi mai visti insieme in un videogioco, tutti equipaggiati in maniera differente: orde di avventurieri intenti a fare chissà che cosa. Fu solo allora che il vero mondo dei MMORPG si mostrò realmente ai miei occhi.
L'intera comunità stava cooperando per decifrare ogni segreto del mondo virtuale: dove recarsi insieme ad altri cinque giocatori per combattere e salire di livello? Dove si trovavano le porte d'ingresso dei dungeon? Come si potevano ottenere gli oggetti più potenti? Imparai che per teletrasportarsi in giro per il mondo bisognava pagare il giusto prezzo a un Mago, per muoversi fra le capitali si poteva montare sull'Aeronave pubblica, per ottenere gli equipaggiamenti migliori era necessario eliminare nemici estremamente rari, per esplorare rapidamente avrei dovuto procurarmi un Chocobo. Quanto vissuto sino a quell'istante era solo un piccolo antipasto, l'entrée che il mondo di Vana'diel serviva ai novellini per abituarli a momenti carichi d'impatto.
Il primo atterraggio nella giungla di Joathor, la prima volta che si mette piede nel Dynamis, la soddisfazione che pervade ogni giocatore nel momento in cui - dopo mesi di fatiche, gioie e frustrazioni - si raggiunge il livello massimo: sono piccole gocce nell'oceano di avventure che costellavano gli antichi mondi persistenti. Alla fine, dopo battaglie durate ore, settimane di allenamenti e dozzine di amicizie, ero riuscito a eguagliare quel Paladino che incontrai il mio primo giorno. Ogni tanto tornavo indietro, in quel boschetto di Ronfaure, per vedere come gli ultimi arrivati stessero approcciando l'esperienza, ricordando il momento magico in cui ignoravo cosa si nascondesse oltre ogni singola collina.
Tre anni dopo Final Fantasy XI, nel febbraio del 2005, Blizzard aprì ufficialmente i battenti di Azeroth, accogliendo nel mondo di World of Warcraft il pubblico europeo. All'improvviso, si presentò l'occasione di rivivere quelle stesse identiche emozioni, quelle che solo il primo scontro con un universo condiviso può regalare. La grande differenza stava nel fatto che i continenti di Azeroth erano completamente open world, si sviluppavano senza soluzione di continuità. L'antico viaggio, che pensavo irripetibile, si presentò in una forma se possibile ancor più impressionante.
Ricordo che partii dall'isola di Darnassus, la patria degli elfi, nuovamente solo e sperduto in un mondo sconosciuto; neppure l'esperienza accumulata, tuttavia, poteva prepararmi a ciò che avrei vissuto: da Teldrassil bisognava prendere una nave che conduceva nel piccolo porto di Auberdine, unico villaggio sicuro nel mezzo di un continente completamente ostile all'Alleanza, sede delle principali razze dell'Orda, ovvero la fazione opposta. Da lì bisognava montare su un secondo battello, stavolta diretto verso Menethil Harbor, subito prima di attraversare un'immensa piana paludosa, le Wetlands, infarcita di nemici letali per qualsiasi novellino.
Giunti sulle sponde del Loch Modan si iniziavano a intravedere sempre più giocatori, ma soprattutto si aprivano i panorami antistanti Dun Morogh: praticamente un paesaggio pescato da Il Signore degli Anelli e trapiantato nei confini di un videogioco, il tutto senza il benché minimo caricamento. L'arrivo a Ironforge segnava la fine del pellegrinaggio, ma coincideva con l'inizio di un'avventura che - a oggi - ancora non è stata eguagliata. Quel che non sapevo, infatti, è che dopo la pubblicazione di World of Wacraft non avrei mai più potuto vivere un'esperienza del genere.
Quello che erano gli MMO, quello che sono gli MMO
L'elemento del viaggio rappresentava solo la punta dell'iceberg: gli MMORPG dei primi anni 2000 erano infatti fondati su una serie di pilastri che al giorno d'oggi sono divenuti quasi innominabili. Il primo era senza dubbio la necessità di socializzare e interagire con gli altri giocatori, sostituita in toto dai sistemi di ricerca gruppo - e talvolta anche dai bot - pensati per far vivere a chiunque i contenuti senza bisogno di trovare degli accompagnatori. Se in Final Fantasy 11 l'atto stesso di salire di livello era precluso a chiunque non trovasse sei commilitoni, in World of Warcraft era obbligatorio trovare non uno, non dieci, ma ben quaranta compagni per affrontare i primi raid introdotti.
Tale fattore portava alla nascita di immense gilde che nel corso degli anni hanno forgiato amicizie, inimicizie, persino storie d'amore virtuali che sono infine germogliate in matrimoni nel mondo reale. Una storia divenuta celebre è quella di Mats Steen: il ragazzo, affetto dalla distrofia muscolare di Duchenne, non poteva lasciare la sua stanza da letto e trascorreva ore davanti al computer, al punto che i genitori Robert e Trude erano estremamente preoccupati di vederlo morire in solitudine, senza amici. Quel che non sapevano è che Mats, nel mondo di Azeroth, si chiamava Ibelin e di amici ne aveva a centinaia: nel giorno dell'inevitabile funerale, dozzine di volti sconosciuti da tutto il mondo si sarebbero presentati per rendere onore al ragazzo.
Il filtro dell'universo virtuale era una panacea per la timidezza, le interazioni via web non erano certo comuni come oggi, e da una semplice richiesta di informazioni a un passante poteva svilupparsi una serata, una settimana, oppure anni di avventure condivise. Destiny di Bungie, rimuovendo il matchmaking dai suoi raid, è riuscito a replicare questa piccola magia, eppure la maggior parte degli sviluppatori sembrano avere tutt'ora grande timore nel costringere gli appassionati a dialogare e cooperare.
Il secondo pilastro, oggi considerato al limite della bestemmia, risedeva nell'elitarismo insito in qualsiasi MMORPG di successo. Oggi i videogiochi nello stile del "parco a tema" - come per esempio Final Fantasy XIV - mirano a consentire che tutti possano fare tutto, che tutti possano possedere tutto, realizzando una sorta di utopica uguaglianza. Un tempo le cose funzionavano in maniera diametralmente opposta: determinate attività erano appannaggio di pochissimi eletti, c'erano equipaggiamenti disponibili praticamente in una singola copia per interi server, esistevano missioni che premiavano esclusivamente il singolo con ricompense uniche.
Questa particolare anima degli MMORPG si trova attualmente al centro di violente discussioni riguardo l'accessibilità dei contenuti, ma è fuori di dubbio che abbia storicamente esercitato un fascino magnetico sugli appassionati. Nell'originale World of Warcraft, i giocatori in possesso di Sulfuras - arma leggendaria che richiedeva mesi per essere forgiata - si contavano sulle dita di una mano per ogni server; allo stesso modo, c'era uno e un solo giocatore che poteva ambire al titolo di "Scarab Lord", ovvero colui che aveva aperto per l'intero server i cancelli di Ahn'Qiraj grazie all'appoggio della propria gilda.
Il principale riflesso dell'efficacia di questa formula si trova nella cultura di massa. Analizzando MMORPG fittizi come l'Oasis al centro di Ready Player One, oppure lo Sword Art Online protagonista della light novel di Reki Kawahara, oppure ancora l'Overlord di Kugane Maruyama che oggi siede in vetta a tutte le classifiche di gradimento, si tratta di un elemento ricorrente e sempre carico di fascino. L'idea che solo i giocatori o le gilde migliori possano mettere le mani sugli equipaggiamenti più potenti accende la fiamma della passione nel petto degli spettatori, ma al tempo stesso rischia di far sentire inadeguato chiunque non faccia parte di quella élite. Esistono due scuole di pensiero contrapposte: c'è chi è convinto che ogni giocatore dovrebbe godere di diritto dell'interezza dei contenuti, in una sorta di accessibilità totale, mentre alcuni studi recenti sostengono che il motore che spinge i novizi a giocare risieda proprio nella riverenza verso i veterani, proprio come capitato a me con quel Paladino Galka in armatura argentata.
Il terzo e ultimo pilastro risiede infine nell'assenza di omogenizzazione. Quello di omogenizzazione è un concetto di game design che è stato recentemente introdotto negli MMORPG per combattere i problemi di bilanciamento: c'è stato un periodo lontano nel quale le classi a disposizione dei giocatori erano estremamente diverse, ciascuna era dotata di un'identità ben precisa e riconoscibile. Se da una parte ciò premiava la varietà e l'unicità dei differenti stili di gioco, dall'altra spalancava grosse crepe sul fronte del bilanciamento: inevitabilmente, date le profondissime divergenze fra i kit di abilità a disposizione, alcune classi risultavano generalmente più forti o più utili rispetto alle altre. Qualche esempio? I Cacciatori di Azeroth potevano guardare attraverso gli occhi della propria belva addomesticata, cosa che ovviamente non aggiungeva nulla sul piano del gameplay: si trattava unicamente di una questione di "colore RPG", un po' come l'atto di parlare con gli animali nel recente Baldur's Gate 3.
L'omogenizzazione è una tecnica che si è fatta largo molto velocemente in World of Warcraft prima di esplodere in Final Fantasy XIV. Al giorno d'oggi le classi vengono sostanzialmente divise in tre macrocategorie, ovvero i Tank, i Medici e i DPS. Con l'omogenizzazione, le differenze fra i membri della stessa categoria vengono appianate fino ad avvicinarsi allo zero nel perseguimento di un ideale bilanciamento perfetto. Le classi Tank, per esempio, devono tutte quante avere accesso alle stesse abilità - ovviamente dotate di nomi e animazioni differenti - in modo da scongiurare l'emersione di differenze sul piano della performance e di lamentele da parte della comunità. Nonostante questo procedimento sia stato ormai messo in atto da anni, il "bilanciamento perfetto" non è mai stato raggiunto neppure in una singola occasione, in compenso l'identità delle classi è venuta a mancare.
Radio Gaga e gli MMO: il grande potenziale inespresso
"You had your time, you had the power, you've yet to have your finest hour", ovvero: "Hai attraversato la tua epoca, hai avuto il potere, ma devi ancora vivere il tuo momento più luminoso". Così i Queen descrivevano la radio nella canzone Radio Ga Ga. Per i MMORPG vale lo stesso identico discorso: nei primi anni 2000 hanno toccato il picco della diffusione, dopodiché hanno fallito nell'evolvere l'ispirazione creativa, perdendo per strada ciò che li aveva resi grandi.
Oggi si trovano sospesi in un limbo che - al netto di qualche grande successo - mantiene ancora inespresso il potenziale di questo medium dentro il medium, proprio come accaduto alla radio secondo i Queen. La diffusione del gioco online, a un certo punto, ha fatto pensare a numerosi analisti che quello dell'esperienza massiva sarebbe diventato l'unico futuro possibile. Poi l'intervento a gamba tesa dei giochi per browser come Farmville, l'ingresso in scena dei GaaS e diverse altre concomitanze, su tutte l'emersione della formula del "parco a tema", hanno infine sedato quella grande rivoluzione.
Nonostante ciò, capita ancora oggi che provando a immaginare il punto d'arrivo dei videogiochi nell'arco dei prossimi trent'anni, si finisca per immaginare qualcosa di simile al Player One di Ernest Cline: un universo digitale e interattivo nel quale avatar perfetti vivono avventure sul confine della realtà. Gli appassionati leggono le pagine di Kugane Maruyama, guardano le serie cosiddette Isekai, e sognano un'offerta alternativa, più stimolante rispetto alle routine della quotidianità. Oggi, anziché trovarsi al cospetto di avventure irripetibili, s'imbattono in strutture ludiche che ricordano il lavoro d'ufficio, svuotate del senso di scoperta, radicate nell'omologazione e spesso prive di interazioni sociali dirette.
Ogni volta che viene annunciato un nuovo MMORPG, che si aprono i cancelli di una versione beta, la mia mente torna a quell'istante a La Theine Plateau, quando quel Paladino Galka - che non saprò mai chi sia - ha cambiato il mio modo di vedere i videogiochi. Nonostante la mole di delusioni che si sono accumulate nel corso degli anni, basta un semplice trailer per farmi sperare di poter vivere ancora una volta quelle esperienze indimenticabili. Prima o poi accadrà, e forse in quel momento il genere riuscirà finalmente a esprimere tutto il suo potenziale.