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La seconda chance

Dopo il licenziamento da Microsoft, Adam Orth ritorna con un titolo ambizioso che punta tutto sulla narrazione e sul coinvolgimento emotivo del giocatore

PROVATO di Mattia Comba   —   09/02/2015

Il mondo dei social network è una giungla assai fitta nella quale la differenza tra pubblico e privato è ormai sempre più labile. Se nella stragrande maggioranza dei casi, Facebook e compagnia vengono utilizzati per esprimere pareri personali, pensieri e condividere immagini, video e foto con amici e conoscenti, nel caso in cui ci si ritrovi a ricoprire una posizione particolarmente rilevante in ambito lavorativo, tutto quello che passa per il proprio profilo perde automaticamente ogni connotazione personale. Questo è il caso di Adam Orth, ex direttore creativo di Microsoft che perse il posto per un tweet pubblicato con troppa leggerezza, agendo d'istinto, senza riflettere accuratamente sulle ripercussioni che quei pochi caratteri disponibili in un cinguettio avrebbero avuto sulla sua vita.

La seconda chance

Era la primavera del 2013 e quando Xbox One venne presentata al grande pubblico si sollevò un gigantesco polverone sulla necessità di essere sempre connessi online con la console per poter giocare. La notizia fece il giro del mondo in un batter d'occhio e orde di gamer di scatenarono su forum, siti e social network schierandosi apertamente contro l'infelice decisione del colosso di Redmond che aveva etichettato questa limitazione come necessaria per fronteggiare in modo efficace l'annoso problema della pirateria. Nel marasma di dichiarazioni, comunicati stampa e commenti che seguirono il reveal, furono proprio le parole di Orth a suscitare scalpore. Con un tweet dal tono sarcastico, quasi sprezzante, ma sicuramente ingenuo, il giovane liquidava con un #DealWithIt il problema dell'always online. Oramai tutti siamo in possesso di device che sono sempre connessi alla rete, è il mondo in cui viviamo. Fatevene una ragione. Una soluzione un po' troppo sbrigativa per chi ha quotidianamente problemi di connessione e per questo si vedrebbe privato di ogni possibilità videoludica. La reazione della rete fu istantanea, veemente nei toni e assolutamente condivisibile. Quando ricopri una carica di rilievo in un'azienda così importante, devi essere consapevole del fatto che post e tweet non arrivano solamente ai tuoi amici, ma a milioni di lettori in tutto il mondo, con il pericolo tutt'altro che trascurabile che ogni parola possa avere delle ripercussioni inevitabili sulla tua carriera. E così è stato. Adam Orth venne licenziato, la sua vita sconvolta, risucchiata in un vortice di depressione e sofferenza. A tirarlo fuori ci ha pensato Adr1ft, titolo estremamente particolare sviluppato dal suo nuovo team Three One Zero.

Un po' Gravity, un po' Journey: Adr1ft ci porta nello spazio con una premessa decisamente interessante

Alla deriva

Adr1ft non è propriamente un videogioco con un gameplay classico, quanto più un'esperienza in prima persona, come l'hanno definita gli stessi sviluppatori. L'idea alla base della storia è tanto semplice quanto apparentemente banale: il nostro protagonista, di cui non sappiamo ancora nulla, si risveglia in una stazione spaziale semidistrutta in orbita attorno alla Terra, senza ricordarsi nulla di ciò che è successo prima che perdesse conoscenza. Vagando tra i resti silenti della stazione ed esplorandone la parte ancora intatta, fluttuiamo leggeri alla ricerca di indizi per ricostruire gli ultimi momenti prima della tragedia.

La seconda chance

Come ultimo sopravvissuto della missione, vagando per le macerie con la tuta EVA pesantemente danneggiata, il giocatore dovrà capire la causa degli eventi catastrofici che hanno posto fine alla vita di tutto l'equipaggio. Purtroppo non sappiamo ancora altro della trama, ma per il tipo di gioco che è Adr1ft, questa sarà estremamente importante, se non fondamentale per tenere il giocatore incollato allo schermo, o con in testa un visore per la realtà virtuale. Definendosi First Person Experience, Orth e soci hanno spogliato il titolo di qualsiasi meccanica di gameplay in luogo di un tranquillo e pacato girovagare, dove l'unica esigenza a cui dovremmo fare fronte sarà assicurarsi le scorte di ossigeno necessarie per non morire asfissiati. Ci saranno enigmi da risolvere e sfide da superare per recuperare tutto il necessario a riparare la navicella di emergenza e tornare sani e salvi sul pianeta natale, ma nulla che abbia a che fare con alieni assetati di sangue, armi o combattimenti. Il nocciolo della questione sarà tuttalpiù emotivo, continuando sulla strada tracciata dal sublime Journey, ma con riferimenti a Gravity piuttosto evidenti. Nello specifico il silenzio, l'angoscia, la costante sensazione di solitudine e l'inquietudine di una minaccia, rappresentata dal immenso e nerissimo vuoto fuori dall'oblò, pronto a inghiottirci da un momento all'altro senza lasciarci via di scampo.

Immersione totale

Dimostrandosi più opera di intrattenimento digitale che videogioco classico, i nove membri del team di sviluppo con base a Santa Monica hanno deciso di sfruttare al meglio una delle tecnologie più chiacchierate e innovative degli ultimi anni: la realtà virtuale. E in effetti, una volta infilato Oculus Rift, tutto cambia. L'esperienza diventa molto più personale, coinvolgente, quasi toccante, complici soprattutto le soavi note di pianoforte che escono dalla cuffie.

La seconda chance
La seconda chance

Guardarsi attorno in quel macello di lamiere e detriti che fluttuano nell'aria rende meglio l'idea del disastro nel quale ci troviamo coinvolti. Superato lo svarione iniziale dovuto alla fluttuazione (con Oculus Rift il motion sickness è sempre dietro l'angolo), ci facciamo strada all'interno del modulo, fino ad arrivare al bocchettone. Appena fuori, basta volgere lo sguardo per trovarsi di fronte la Terra: enorme, maestosa, bellissima. Si vedono l'America meridionale, il blu degli oceani e il bianco delle perturbazioni, che a centinaia di migliaia di chilometri di distanza stanno affliggendo i nostri simili. Ma noi siamo nello spazio, in una navicella spaziale, alla ricerca di un modo per tornare a casa. Galleggiando ci dirigiamo verso il modulo successivo, afferrando alcuni oggetti, spingendone via altri e avvicinandoci a porte sigillate che ancora non si aprono. Quella che abbiamo provato negli uffici milanesi di Halifax, infatti, altro non è che una tech demo di Adr1ft, un versione molto preliminare del codice utile per farci assaporare parte di quelle atmosfere e sensazioni che andremo a vivere più intensamente al lancio del titolo. Mancano gli obiettivi, manca l'interazione, manca perfino la scorta di ossigeno che si esaurisce costantemente. Le bombole che fluttuano davanti a noi non sono altro che latte inutilizzabili, ma a cui ben presto dovremo riservare estrema attenzione per evitare di terminare la nostra corsa prima del tempo. Sono quindi pochi gli elementi strettamente videoludici su cui ragionare dopo aver provato Adr1ft: le strade percorribili sono molteplici a cavallo tra il puzzle game e l'avventura, ma tutto dipenderà dalla genialità del team di sviluppo che a quanto pare gode di una discreta libertà d'azione da parte del publisher, 505Games. Allo stesso modo, ci risulta difficile anche esprimerci sul comparto tecnico: con la testa immersa nel secondo dev kit di Oculus Rift, abbiamo sofferto inevitabilmente di tutti i limiti insiti in questa versione del visore senza riuscire a scorgere chiaramente il vero volto del titolo. La risposta ai movimenti della testa si sono rivelati estremamente precisi, ma l'annoso "effetto zanzariera" risolto solamente con il prototipo successivo ha in parte limitato l'impatto visivo di Adr1ft. Tuttavia quello con Oculus Rift è un connubio particolarmente allettante e ricco di possibilità, ma il primo lavoro di Three One Zero arriverà anche sulle home console Sony e Microsoft in una versione che siamo curiosi di provare soprattutto per saggiarne il ridimensionato impatto emotivo.

CERTEZZE

  • Concept decisamente interessante
  • Emozionante
  • Scorci di grande impatto

DUBBI

  • La narrazione sarà fondamentale
  • Riuscirà a restituire le stesse sensazioni senza Oculus Rift?