Lette alcune recenti notizie l'impressione è che l'industria dei videogiochi campi benissimo anche senza videogiocatori, lì dove il mercato si sia trovato delle alternative. I publisher orientali sono di fratto fuggiti verso modelli di business differenti da quello che solitario ha accompagnato i primi decenni di vita del mondo videoludico, ma anche molti publisher occidentali hanno percorso o stanno percorrendo quella strada, optando per lo scenario che sembra offrir loro i rischi minori.
Come al solito si parla di soldi, motore unico della nostra società. Racconta una statistica che molti travestiti non sono necessariamente gay. Come mai? È il mercato bellezza. Le prostitute tradizionali non tirano più e il cliente medio ora ama provare qualcosa di diverso. La domanda di travestiti è aumentata al punto che il mercato tradizionale del genere non basta, quindi si è creato un flusso naturale di offerta alternativa, incentrata più sull'oggetto desiderato che sulla sua natura. Ogni mercato è una forma di prostituzione più o meno mascherata, dove il venditore veste il prodotto in modo tale che ecciti il cliente, secondo le regole dettate dal cliente stesso. Non c'è etica, non c'è amicizia, non c'è umanità e non c'è libertà di scelta. C'è solo scambio. Io ti do ciò che ti soddisferà per un breve periodo (se la soddisfazione si prolungasse troppo il mercato morirebbe), tu mi dai i soldi che mi serviranno per consumare ciò che soddisferà me per un breve periodo e così via fino alla fine della storia. Questo principio vale per beni effimeri come quelli prodotti dall'industria dell'intrattenimento, di cui quella videoludica è una branca, ma anche per beni primari come cibo e bevande, abbelliti innaturalmente per stimolare all'acquisto. È scientificamente provato che se sul banco di un mercato si piazzano delle mele grosse e lucide affianco di altre piccole e bitorzolute, le prime venderanno di più a prescindere dal fatto che le seconde siano molto più saporite. In questo processo, che di base tiene in piedi la nostra società, non c'è nessuna libertà di scelta, solo uno studio continuo dell'avversario. Il venditore non è libero di scegliere cosa vendere, a patto che non voglia fallire, mentre il compratore è obbligato a seguire la sua eccitazione, se non vuole soffrire. La brava prostituta è quella che intuisce cosa fa eccitare il suo cliente, mentre il cliente è sempre pronto a cercare di ottenere di più investendo di meno. Le due bestie si studiano per minuti interi prima di decidere quando e come attaccare, ossia, per tornare sull'economia, quando ottenere il massimo profitto possibile dallo scambio.
Prendiamo un venditore che ha passato anni a soddisfare come ha potuto una certa clientela, ma che ora si sente frustrato perché non riesce più a farlo come un tempo. Secondo voi come reagirà al presentarsi di un nuovo mercato, magari inesplorato, ma molto più reattivo e con prospettive di guadagno maggiori a fronte di minori sforzi seduttivi? L'idea è che per alcuni publisher il videogiocatore tradizionale sia diventato simile a una vecchia acida per la badante che l'assiste. È vero che le paga lo stipendio, ma è intrattabile, non accetta alcune dinamiche naturali che pretende non esistano, non comprende le difficoltà che può incontrare nel lavoro e, anzi, le chiede di fare sempre di più, anche quando la vede completamente distrutta. Ovviamente la donna fa buon viso a cattivo gioco e si mostra servile il giusto, ma è altrettanto ovvio che se e quando le si presenterà un'alternativa, fuggirà a gambe levate, anche di fronte a un possibile peggioramento momentaneo della sua condizione economica. Magari per un certo periodo farà lo sforzo di mantenere entrambe le attività, cercando però di far crescere quella che le dia le prospettive migliori, marginalizzando sempre più l'altra, fino ad arrivare all'abbandono completo quando sarà in grado di mantenersi con quella che, nata come alternativa, è diventata la sua attività principale.
Mondo mobile
Nel 2015, dopo anni di conti in rosso, alcuni grossi publisher giapponesi sono tornati a segnare profitti. Sia Konami che Square Enix hanno riportato risultati finanziari positivi per l'anno fiscale appena trascorso. Per Konami si parla di un clamoroso +147% di aumento dei profitti netti rispetto all'anno fiscale precedente, mentre per Square Enix di un +8,3%. I due publisher sono molto differenti nell'assetto e nelle dimensioni, ma hanno una caratteristica che li accomuna: l'anno che li vede tornare in attivo è stato caratterizzato da uscite tripla A praticamente nulle. Nel 2014 Konami ha lanciato soltanto Pro Evolution Soccer 2015, mentre Square Enix ha lasciato il campo alla sua divisione occidentale. Da dove sono venuti questi profitti? Facile: dal mercato mobile. Per capire la strada che sta intraprendendo l'industria giapponese basta leggere i rapporti dei due colossi, in cui si parla apertamente di una ristrutturazione del business in favore dei nuovi mercati, molto più prolifici e vitali rispetto a quello tradizionale, almeno in questa fase. Se osserviamo i cataloghi di entrambi i publisher, le uscite free-to-play e le riedizioni mobile abbondano, mentre latitano gli annunci di peso.
Per trovare conferma di questo cambiamento di focus dei publisher giapponesi basta spostare di poco lo sguardo su altre due realtà: Capcom e Nintendo, entrambe costrette a dei passi indietro rispetto alle loro posizioni tradizionali, con Capcom ancora in affanno e Nintendo che è tornata all'utile pur essendo calate ancora le vendite delle sue console e dei suoi videogiochi. La strada intrapresa dalla casa di Street Fighter e Resident Evil sembra ormai segnata, piastrellata com'è di remastered di vecchie glorie e prodotti online free-to-play. Nintendo di suo si è piegata alle pressioni degli azionisti, che altrimenti avrebbero preteso la testa dei vertici societari, e ha annunciato l'ingresso nel mercato mobile con DeNA. Ancora non è in una situazione critica tale da dover abbandonare il suo mercato di riferimento, ma se la prossima console casalinga, nome in codice NX, dovesse rivelarsi un insuccesso, è chiaro che non potrebbe continuare ad avanzare con i paraocchi rivolgendosi a un videogiocatore che non esiste più. Attualmente in Giappone, la patria di molti generi videoludici e di moltissimi capolavori degli anni passati, sono pochissimi i tripla A in produzione. L'unico publisher rimasto attivo in questo mercato è Bandai Namco, che campa di grosse licenze molto amate anche in occidente. Per il resto calma piatta, con poche uscite e pochi annunci. Certo, ci sono dei colossi assoluti in produzione come Final Fantasy XV e Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, ma quanto possono incidere nel quadro generale visti i tempi biblici del loro sviluppo e l'investimento necessario per realizzarli? Guardiamo in faccia alla realtà: ci sono decine di maestri riconosciuti, autori di titoli e saghe bellissime del passato, che sono letteralmente a spasso (e con loro interi studi). Per fare qualche esempio Kojima è stato appena cacciato da Konami, Igarashi si è dovuto affidare a Kickstarter per realizzare un seguito spirituale della serie Castlevania, Mikami se n'è venuto in occidente e si è fatto produrre da Bethesda, Inafune si è dovuto affidare sempre al crowdfunding, mentre di gente come Fumito Ueda non si parla praticamente più. Del fermento creativo delle generazioni videoludiche degli anni passati non c'è più traccia e tutti i grandi operatori, che pure quest'industria l'hanno inventata, sono concentrati nel trovare il modo di vendere contenuti direttamente nei giochi, creando dei micro-mercati satellite legati ai singoli prodotti. Il nuovo cliente tipo sembra più appetibile del vecchio... il nuovo cliente tipo è meno fastidioso del vecchio. Il videogiocatore è diventato un cliente troppo difficile, da abbandonare senza rimpianti.
L'industria dei videogiochi del futuro è quella che non ha più bisogno di videogiocatori?
Proporzioni
Come chi scrive ha avuto modo di sottolineare più volte, il mercato dei tripla A è un gigantesco morto che cammina. Non perché non produca più soldi, ma perché si è essiccato. Di fatto è nelle mani di poche serie che si perpetuano di anno in anno e che lo hanno completamente fagocitato. Ai publisher non conviene rischiare perché il cliente non ama le novità.
Bisogna convivere con questa semplice verità. Ogni tanto arriva qualche eccezione a dare un po' di respiro agli ottimisti, ma nella maggior parte dei casi regna la calma più piatta. Qualcosa si smuoverà sicuramente al prossimo E3, visto che siamo tradizionalmente nell'anno di vita delle console in cui si iniziano a vedere più investimenti, ma c'è da scommettere che a dominare la scena anche negli anni venturi saranno pochi grossi titoli. Parlando con alcuni operatori del settore ci è stato spiegato il vantaggio del mercato mobile. Più propriamente di quello del free-to-play. In proporzione il rischio di investimento in un titolo mobile è paragonabile a quello di un titolo tripla A, ossia i margini di rientro sono difficili da raggiungere, ma con una differenza sostanziale, ossia i costi. Mettiamo il caso che un tripla A e un titolo mobile siano riusciti entrambi a recuperare il 50% dell'investimento fatto. La proporzione tra i due sembrerebbe identica, non fosse che in un caso sono stati investiti decine di milioni di dollari, mentre nell'altro decine di migliaia. Con la stessa proporzione di rientro, un gioco che è costato ad esempio trenta milioni di dollari ha perso quindici milioni, mentre uno che è costato duecentomila dollari ne ha persi centomila. Nel primo caso il colpo è grosso e il buco di bilancio che si viene a creare è immenso, mentre nel secondo il buco è relativamente piccolo, soprattutto per un grosso publisher, ed è facilmente ammortizzabile dal successo di altri prodotti con gli stessi valori produttivi.
Il videogiocatore è un fastidio
Purtroppo il mercato nostrano non è una via di fuga da questa situazione. In modo in un certo senso più subdolo sta diventando simile a quello orientale. Colossi come Blizzard e Valve producono essenzialmente servizi legati ai loro giochi e hanno abbandonato il business tradizionale. Electronic Arts ha creato un'infrastruttura di servizi e abbonamenti di cui il singolo videogioco è solo il pretesto. D'altro canto molti videogiocatori sembrano gradire questo stato di cose, visto il successo del modello free-to-play, nonostante qualche lagna fisiologica. L'unica alternativa sembrano essere i publisher minori, che continuano a fondarsi sul mercato tradizionale, ma in quanto minori vengono ignorati da quelli che comunque si lamentano per l'indirizzo che ha preso l'industria dei videogiochi. Sappiamo che il quadro generale è più complesso di come lo dipingiamo, ma stiamo cercando di far capire a tutti la differente prospettiva offerta dai due mercati.
Mettiamoci anche un altro vantaggio, ossia il tipo di utenza. L'utenza dedita ai free-to-play, chiamiamola casual, non è molto fastidiosa. Non è di quella che passa le giornate a valutare ogni singola texture del lavoro di uno sviluppatore e a gridare allo scandalo per ogni bug. È magnificamente informe, splendidamente amorfa e indifferente anche a ciò che fa. Gioca per giocare, non si intromette in questioni che sente non la riguardino, e dà zero problemi. L'unico fattore che ne influenza le scelte ludiche è la socialità, ossia la percezione di stare facendo qualcosa di condivisibile dalla sua identità collettiva di riferimento. L'utenza tradizionale, invece, con gli anni è diventata sempre più problematica e a volte completamente ottusa. Basta un singolo errore di comunicazione per buttare via anni di lavoro e vedere prodotti eccezionali additati come schifezze. Certe prese di posizione hanno imposto un muro di ipocrisia con il lato sviluppo difficile da scardinare nelle condizioni attuali. Il videogiocatore tradizionale non è finito e, probabilmente, non finirà mai, soltanto è diventato meno appetibile rispetto al passato per l'emergere dell'altro videogiocatore, che non si percepisce come tale, molto più prono a farsi sedurre dai nuovi prodotti, meno iracondo e meno pretenzioso. Non per niente la multinazionale più potente del settore non è una che produce giochi tripla A tradizionale, ma quella che gestisce il mercato di League of Legends, mercato che molti videogiocatori non saprebbero nemmeno definire. In un quadro del genere il videogiocatore non serve quasi più ed è anche difficile da definire come potenziale cliente. I publisher stanno ormai capendo che possono fare soldi con i videogiochi anche senza di noi, ingrati rimasugli di un'epoca ormai tramontata che pretende di avere molto più di ciò che vuole dare.