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Giochi pericolosi

Cose che non si dicono dei videogiochi...

SPECIALE di Emilio Cozzi   —   06/05/2016

Io sto con Frank. Nel senso di Francis Castiglione, ribattezzatosi Castle e più noto come "il Punitore". Quello con il teschio dentato sul petto, avete presente? Sto con lui nonostante sia uno dei personaggi Marvel più problematici. Forse quello più ambiguo dell'universo fumettistico tutto. Sto con lui da quando lo incontrai su carta e nonostante i patetici adattamenti cinematografici, mai capaci di tradurne la psicologia complessa e tutt'altro che manichea. Sto con lui oggi, dopo quella che è forse la migliore trasposizione filmica del personaggio inventato da Gerry Conway, Ross Andru e John Romita Sr. nel 1974: la seconda stagione di Daredevil su Netflix e la mirabile interpretazione di Jon Bernthal rendono merito alla monolitica presenza dell'antieroe quanto al dolore abissale che ne contraddistingue nascita e operato.

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Sto con lui anche adesso, mentre su PlayStation 2 ne manovro la declinazione in pixel firmata Volition Inc. e, livello dopo livello, capisco quanto il videogame dedicato al protagonista più indigeribile e per certi versi destrorso della Marvel surclassi in quanto a chiarezza e intelligenza il blockbuster ludico più chiacchierato degli ultimi mesi, Tom Clancy's The Division. A dirla tutta, una produzione che non fosse un prodigio di tecnica, fuochi artificiali e cotillon, riporterebbe il gaming e il dibattito sulla sua profondità indietro di quindici anni. Perché, sia chiaro, mentre The Punisher sbandiera fin dalla copertina un'icona da fumetto, un vigilante campato in aria, solitario e votato in maniera assoluta alla punizione a mano armata dei mali della Terra, e nel farlo innesca una riflessione mai banale, The Division trasforma un soggetto verosimile e un contesto che fa di tutto per risultare credibile in una visione profondamente schierata del mondo. Lo fa con una superficialità allarmante e pericolosa. Oppure, a scelta, con una (in)volontarietà subdola e pelosa. E questo a prescindere dal fatto che tale visione del mondo, almeno per me, sia non solo schierata, ma pure non dalla parte giusta. A proposito, mi chiamo Emilio e da oggi, una volta al mese, tenterò di esplorare i lati più contraddittori del medium più amato su queste pagine. Non per amor di polemica, o per chissà quale concessione al clickbait. Solo perché sono convinto che il gioco, soprattutto se digitale, sia il filtro interpretativo e pure lo specchio più limpido dei nostri anni e che, per questo, vada indagato, interrogato e spolpato fino al midollo. Certo, sempre che si abbia la curiosità di capire dove viviamo. Di mio, prometto di averla. Voi, spero abbiate la pazienza di accompagnarmi. Perché, appunto, Tom Clancy's The Division sembra essersi fermato parecchio indietro.

Ecco alcune cose che non si dicono dei videogiochi e che si dovrebbero dire

Questioni di sottraz… di Divisione

Ammettiamolo subito, potremmo star facendo i conti senza l'oste. Se per dirla con Pier Paolo Pasolini il senso di una vita non può che fissarlo la sua fine, stiamo scrivendo di un gioco nemmeno a metà. La volontà di offrire contenuti per gli anni a venire, di espanderne i confini in corsa e, potenzialmente, di cambiarne il segno anche in modo radicale, per The Division era nota ben prima della pubblicazione. L'indagine recente di Ubisoft su quanto i giocatori desiderino già una città da aggiungere alla New York post apocalittica della simulazione non fa che confermare come, di The Division, si sia visto solo l'inizio.

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Purtroppo, però, quello è per certi versi bastato. "Alla fine è un videogioco, un prodotto di intrattenimento. Non c'è alcun messaggio politico sotteso". Non lo ha detto Favij sul suo canale Youtube, ma Julian Gerighty a Michelle Ehrhard, durante un'intervista qualche settimana fa. Ehrhard, giornalista dell'influente sito Killscreen, stava facendo presente a Gerighty, direttore creativo associato di Tom Clancy's The Division, quanto il suo gioco sembrasse una rielaborazione in pixel dell'11 settembre e come, vista la sensibilità diffusa sull'argomento soprattutto alla luce dei paventati attacchi alla Grande Mela da parte dell'ISIS, la simulazione manifestasse un approccio fin troppo leggiadro, se non parziale - con un articolo successivo indicato senza mezzi termini come "un'ideologia perversa". Che a sminuire il sottotesto contenutistico sempre politico dei videogame sia un creative director è di per se grave: alla faccia di chi sia convinto esista un intrattenimento puro, neutro, scevro da una visione del mondo precisa o da una qualsivoglia filosofia dei suoi autori, i videogame sono sempre portatori di idee e rappresentazioni della realtà. Non c'è videogioco, nemmeno il più stupido sui social, che non si faccia tramite di istanze e ideologie specifiche. Diversi se non più efficaci dei media tradizionali, i giochi elettronici non si esprimono solo attraverso un linguaggio fatto di lettere, immagini e suoni; attivano il giocatore. In una gabbia di codice e scrittura, i videogame ingaggiano mani, occhi e soprattutto testa dell'utente chiedendogli continuamente di fare qualcosa. E dando a quel qualcosa un valore, fosse anche banalmente tradotto in un punteggio. Può capitare che un gioco racconti una storia e il suo gameplay le sia fedele.

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Per citare Tom Bissell e il suo concetto di "ludo-narrazione", diremmo che quel titolo è coerente e ben riuscito - si pensi, giusto per rimanere fra bombe e fucili, al meraviglioso This War of Mine, a Valiant Hearts: The Great War o a Spec Ops: The Line, titoli in cui a una trama antimilitarista corrisponde un gameplay che la supporta, o addirittura una (meta)critica al genere (Spec Ops: The Line). Di contro, può capitare che il gioco creda di essere o si racconti in un modo, ma venga tradito dalle sue dinamiche. Tipo che si spacci per pacifista, ma imponga massacri e incoraggi acriticamente lo sterminio su schermo, magari grazie anche a bonus e punteggi extra. Qualcosa del genere succede in Metal Gear Rising: Revengeance, alla faccia dello spin-off della saga anti bellica principale. Appunto, che il direttore creativo di un titolo comprato da cinque milioni e mezzo di persone (dato aggiornato al 16 marzo) ignori o sminuisca la cosa, è grave di per sé. Che non si sia accorto di quanto il suo gioco faccia parte del primo tipo indicato qui sopra - The Division ha una ludo-coerenza inattaccabile -, e sia pervaso da una visione politica precisa, conservatrice e quasi fascistoide, è, se vero, pericoloso. Perché sarebbe come se Valentina Nappi fosse convinta di interpretare storie d'amore della Disney. Qualche indizio: come sanno anche i sassi, Tom Clancy's The Division è ispirato a un'ipotesi tutt'altro che fantasiosa. Nel giugno del 2001, pochi mesi prima dell'attacco al World Trade Center, Tara O'Toole e Thomas Inglesby del Johns Hopkins Center for Civilian Biodefense Strategies (CCBS), insieme con Randy Larsen e Mark DeMier hanno simulato le conseguenze di un attacco con armi batteriologiche ad Oklahoma City, e le sue ripercussioni in Georgia e Pennsylvania.

Ribattezzato "Dark Winter Exercise", l'esperimento ha dimostrato la generale inadeguatezza della risposta nazionale all'eventualità di una pandemia di vaiolo, tipo quella immaginata due secoli prima da Jeffery Amherst, barone dell'esercito di Sua Maestà convinto che i nemici si potessero decimare attraverso banconote infette. Ecco, The Division mette subito in chiaro le cose, anche attraverso la cutscene d'apertura, che mescola immagini di repertorio e sequenze digitalizzate che sembrano prese da un Virus Letale o da un Contagion qualsiasi: qui non si scherza.

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Quelli in cui a breve vi muoverete non sono scenari fantascientifici. Meglio, lo sono solo un po' - abbagliante l'intuizione (anti?) capitalistica di ambientare l'origine dell'epidemia durante il Black Friday. Motivo per cui tutto, nel gioco, punta alla verosimiglianza, tenta di convincere il giocatore di quanto il mondo post apocalittico raccontato un giorno o l'altro possa realizzarsi. Dalla meravigliosa resa grafica e dalla mappa di New York ricostruita in dettaglio, dagli interni delle case al Madison Square Garden devastato, ogni elemento di The Division ammicca al vero. Il che fa anche più paura. Oppure fa incavolare, decidete voi. Bastano infatti poche ore di gioco per accorgersi di una cosa: unica ragion d'essere e forse di operare del giocatore, nei panni di un agente dormiente della Strategic Homeland Division, un'organizzazione para-militare deputata alla gestione delle emergenze, è l'obbedienza. Senza fare domande, il nostro personaggio apre il fuoco. Su chiunque. Con una ripetizione dello schema ludico fin troppo essenziale per non essere volontaria - uccidi/potenziati/uccidi - al nostro personaggio è semplicemente richiesto di fare esecuzioni indiscriminate. Siano malintenzionati, sciacalli, o disperati alla ricerca di cibo o medicine, tutti diventano obbiettivo del nostro corredo bellico sempre più letale. Subissati da informazioni sulla mappa di gioco, sul nostro equipaggiamento, su quello che dovremmo fare senza mai chiedere, non possiamo che prepararci al prossimo confronto e affinare la mira per collezionare quanti più headshot possibile. Poco importa che a saltare in aria sia la testa di un assassino o di un padre di famiglia a corto di viveri.

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La qual cosa diventa chiara nelle missioni più avanzate, quando un afflato di "aiuto umanitario" invade il campo di battaglia con tutta la sua pretestuosa presenza. A giustificare l'indiscriminata mattanza una e una sola luce: la famigerata "Direttiva 51". Meglio ribadirlo, cari i miei Jedi: no, nessun Ordine 66 modello Star Wars; anche in questo caso gli sviluppatori di Massive Entertainment, Red Storm Entertainment e Ubisoft non si sono inventati alcunché. È tutto vero: citata già nell'introduzione ed evocata dalla nostra responsabile operazioni, Faye Lau, la National Security and Homeland Security Presidential Directive è stata promulgata il 4 maggio 2007 dall'allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. Per farla breve, il suo obbiettivo è preservare la "continuità del governo federale" nell'eventualità di un'"emergenza catastrofica" che comprometta "popolazione, infrastrutture, ambiente, economia o funzioni governative". All'uopo sospende qualsiasi orpello rappresentativo e affida pieni poteri a un esecutivo d'emergenza coordinato proprio dal Presidente. Che sorpresa! Ah, piccolo dettaglio, la direttiva è ancora in vigore. Detto altrimenti, unico e solo scopo di ogni buon giocatore di The Division è salvaguardare l'assetto di governo - "riprendiamoci la nostra New York", ripete a mo' di mantra la camerata Lau - eternare l'ordine costituito a suon di achievement unlocked. Non fa differenza che a farne le spese siano dei poveracci con l'unica colpa di essere sopravvissuti all'apocalisse batteriologica, o i militari della Last Man Battalion, la compagnia privata ingaggiata da Wall Street per proteggersi e presto diventata un concorrente al potere: in questa città comanderà chi comandava. O questo, o il game over. E dire che non avrebbe dovuto esserci "alcun messaggio politico sotteso".

Grazie al cielo la punizione è giusta

"In alcune situazioni estreme, la legge è inadeguata. Per porre rimedio alla sua inadeguatezza, è necessario agire al di fuori della legge. Per ottenere... la giustizia naturale. Questa non è una vendetta. La vendetta non è un motivo valido, è una risposta emotiva. No, non vendetta... punizione", afferma il Punitore. A giudicare dalle sue parole e soprattutto dal curriculum, sembrerebbe che il buon Frank Castle possa a buon diritto far parte della Divisione. Al di sopra della legge e in rigorosi completi neri, con il suo operato mira a riportare l'ordine attraverso la distruzione. La giustizia, nelle strade di New York, attraverso tattiche e abilità militari perfezionate in Vietnam. Sembrerebbe, perché la realtà è diversa. E che a dimostrarlo sia un videogame pubblicato nel 2005, di quelli in cui si possono quasi contare i poligoni, be', non fa fare una gran figura al mastodonte di Ubisoft.

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Per chi non lo sapesse, Frank Castle è un marine pluridecorato cui la mafia ha fortuitamente sterminato la famiglia durante un picnic nel posto sbagliato. Non avendola presa bene, Castle ha dedicato tutto se stesso alla "pulizia di New York", che nella sua personale filosofia consiste nell'eliminazione maniacale e inarrestabile di chiunque possa replicare una tragedia come quella capitata a lui. Un'impresa cui il veterano si dedica attraverso la pratica meticolosa dell'assassinio, della tortura e dell'estorsione. Passatempi piuttosto atipici per un personaggio dei fumetti, tanto da aver reso il Punitore l'antesignano di una serie di anti-eroi dalla psicologia borderline e dalla personalità sfaccettata culminata nel capolavoro di Alan Moore e Dave Gibbons, Watchmen, pubblicato alla fine degli anni '80. Il Punitore compare per la prima volta nel febbraio del '74 (due anni dopo in Italia). È un villain sui generis generato dalla recrudescenza delle attività criminali che fanno da corollario allo sviluppo delle metropoli statunitensi, e dalla simpatia diffusa per i vigilantes, che al cinema trovano quali interpreti migliori i Charles Bronson e i Clint Eastwood. Nel suo debutto, Castle viene assoldato dallo Sciacallo per uccidere nientemeno che l'Uomo Ragno, per quanto sia inutile dire del fallimento. Ma, complice il clima di cui si è detto, il personaggio e la sua brutalità seducono il pubblico. Che a gran voce e nonostante le perplessità della Marvel ne reclama il ritorno. Avverrà nell'86 con quattro numeri a tiratura limitata disegnati da Mike Zeck e sceneggiati da Steven Grant. Parlare di successo sarebbe riduttivo; con nemmeno cinque albi, l'ex comprimario si guadagna una serie tutta sua, che dal 1987 accumulerà 104 numeri in otto anni. Il videogame del 2005 a lui dedicato è tanto rispettoso dello spirito originale del personaggio da essere forse il titolo più significativo mai tratto da un fumetto, con buona pace dei Batman: Arkham e dei loro discepoli. Per farla breve, anche negli universi sintetici il Punitore spara. E lo fa per uccidere. Come gli agenti della NSD? Tutt'altro. Il Punitore della Volition Inc. mescola gli eventi raccontati nella pellicola del 2004, diretta da Jonathan Hensleigh, con quelli descritti negli albi Vol. 4, del 2000, e Vol. 5, del 2001. Il giocatore ripercorre attraverso flashback interattivi la personale crociata contro la malavita di Frank Castle, arrestato e interrogato da due poliziotti. Il che già dice molto: anzitutto la prospettiva morale attraverso cui vengono raccontate e fatte giocare le gesta del vigilante sono quelle di un uomo sottoposto al giudizio della legge. Ogni azione del Punitore non trova di per sé giustificazione, ma anzi è ripercorsa nelle sue motivazioni e nel suo svolgimento. Nondimeno il giocatore, è vero, si trova a poter scegliere di polverizzare una città attraverso un arsenale militare completo ed è sollecitato a uccidere senza scrupoli ogni criminale, meglio se dopo brevi ma significanti sessioni di tortura interattiva - aumentano punti esperienza con cui ottenere medaglie ed equipaggiamento.

Ciò non toglie che i confini morali siano sempre evidenti: l'uccisione di innocenti o anche solo dei derelitti prodotti dalla metropoli allo sbando - prostitute, tossici, senzatetto - è punita con il game over. L'eliminazione fortuita di ostaggi depaupera il punteggio, così come le torture finite male. In una città che i limitati mezzi tecnologici dell'epoca rendono spoglia, nuda, esteticamente squallida, non mancano l'ironia e qualche tocco feroce: la prima, per esempio, negli annunci in un supermercato mentre impazzano le sparatorie, o nei consigli durante i caricamenti su come rimuovere le macchie di sangue dagli abiti.

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I secondi nel sottofondo musicale dagli echi lirici tipicamente italiani, o nell'interpretazione giornalistica delle gesta del protagonista, che nel suo rifugio colleziona ritagli, schede e polaroid delle sue prede. Soprattutto, sia attraverso i commenti dei detective che l'interrogano, sia grazie ad alcuni flashback innescati dalle confessioni dei criminali cui dà la caccia, Castle rivela la dolorosa fragilità su cui si erige il suo odio, la basculante morale della sua missione. È facile intuire, pur con un joypad in mano, come anche il personaggio percepisca la propria marginalità disperata; così com'è suggerito al giocatore più di un tratto comune fra i nemici e "l'eroe", la cui brama di sangue è ribadita dalle precise didascalie in voice over di ogni arma collezionata, o dal terrore delle vittime tremebonde al suo cospetto. Non è un caso se il personaggio, nelle sapienti mani dello sceneggiatore irlandese Garth Ennis - anche autore degli splendidi The Preacher e The Boys - in una miniserie intitolata Born riveli l'origine demoniaca del proprio tristo destino, quello di una guerra infinita e personale. Ma anche su PlayStation 2, senza trucchi né inganni. Tutto alla luce del sole. Detto altrimenti, Tom Clancy's The Division è una meraviglia per gli occhi e per il joypad. Se vi convince Donald Trump, potrebbe pure sembrarvi una visione sensata della vita, del futuro e di tutto quanto. Ma io sto con Frank.