Per capire quanto sia esteso e apprezzato il fenomeno dei videogiochi con un'estetica ispirata alla prima PlayStation, vi basti sapere che, dal 2020, ogni anno esce una raccolta di giochi indipendenti chiamata Haunted PS1 Demo Disk. Questa compilation racchiude una selezione di piccoli giochi indie che imitano lo stile dei titoli anni '90, come fossero software dimenticati di quell'epoca. In realtà sono videogiochi creati apposta per sembrare demo perdute, mai pubblicate, che compaiono in un formato (virtuale) altrettanto vintage: il demo disk. Prima dell'avvento degli store digitali, che su console sarebbero arrivati solo un paio di generazioni più tardi, l'unico modo a disposizione degli sviluppatori per far provare in anteprima i loro videogiochi era proprio finire in una di queste compilation. Erano così importanti e diffuse che, ai tempi della prima PlayStation, la console veniva venduta insieme alla mitica Demo One, che mostrava le potenzialità della macchina attraverso una serie di giochi in prova e di tech demo. Haunted PS1 Demo Disk è diventato nel tempo una fucina di idee e di sperimentazioni, capace di mescolare l'estetica dell'epoca PlayStation con spunti freschi che, in alcuni casi, sono diventati giochi veri e propri. Esattamente come in una favola. Per farvi un esempio, Fear The Spotlight (qui la nostra recensione), il primo titolo della nuova divisione Blumhouse Games dedicata agli indie horror, è uscito proprio da qui.
"Penso che questo stile sia una risposta ai videogiochi eccessivamente particolareggiati e complessi. Una delle cose che mi piace di più dell'estetica da PSX è che c'è meno roba sullo schermo, e quello che c'è ha un significato maggiore", le parole di Adam Vian, creative director e scrittore di Crow Country, intervistato dal magazine PLAY, sono emblematiche. Crow Country sfrutta proprio idee ed estetica dell'epoca PSX per riproporre uno dei generi che in quel periodo ha vissuto il suo momento di maggior splendore: il survival horror. È indubbio che titoli come Resident Evil e Silent Hill abbiano dettato la strada maestra per produzioni che, ancora oggi, li prendono a modello di riferimento. Specialmente per la loro estetica: grezza, complessa, intrisa di un senso di vaghezza e capace di nascondere dettagli al punto da mettere a disagio il giocatore.
Scegliere uno stile visivo di questo tipo (una sottocategoria più ruvida del low poly), va ben oltre la pura nostalgia o la convenienza economica. È vero: sicuramente si tratta di una grafica che non richiede né l'attenzione maniacale della pixel art, né i costi del fotorealismo, ma il punto è un altro. È una scelta che ha che fare piuttosto con la creatività, con la voglia di lasciar spazio all'interpretazione del giocatore, di impegnarlo a immaginare da solo i dettagli. A riempire gli spazi. È uno stile che fa leva su sensazioni ben precise, capaci di titillare la fantasia di chi gioca e di manipolare le percezioni in maniera efficace, specialmente se si vuole ottenere un risultato destabilizzante. E proprio per questo motivo viene scelto soprattutto per videogiochi horror, o che puntano a inquietare il giocatore. Un esempio principe? Mouthwashing, dove è proprio il non detto a far paura, oppure, Arctic Eggs che dall'inizio alla fine punta a disorientare chi gioca.
Un nuovo classico
La trovata di emulare l'estetica e, a volte, perfino le meccaniche delle vecchie generazioni di videogiochi non è di certo nuova. Abbiamo perso il conto di quanti indie metroidvania o di quanti platform puzzle citino in maniera plateale lo stile delle produzioni 8 e 16 bit. Titoli come Shovel Knight, Mina the Hollower e Spelunky, sono costruiti attorno a un aspetto che è al tempo stesso forma e sostanza, con gameplay di solito semplici e basati su poche meccaniche ben precise. Mentre i titoli tripla A puntano al realismo più assoluto, esiste una nicchia - ritagliata proprio nel mezzo tra nostalgia e innovazione - rappresentata dall'estetica in stile PSX. E non è difficile capirne il motivo: così come, qualche anno fa, molti sviluppatori realizzavano giochi ispirati ai ricordi di un'infanzia passata su NES e SNES, oggi chi crea videogiochi è cresciuto ai tempi della prima PlayStation. Un momento storico cruciale, in cui il passaggio al 3D è stato percepito come una vera e propria rivoluzione del medium. All'improvviso, i videogiochi si popolavano di figure e soluzioni visive che sembravano provenire direttamente dal mondo del cinema: telecamere che cambiavano prospettiva, un uso più sofisticato dell'illuminazione, modelli che tentavano di rappresentare in modo più realistico l'anatomia umana. I primi esperimenti con il 3D parlavano una lingua tutta loro: una lingua che, a volte, sapeva mettere a disagio chi giocava, con prospettive, proporzioni e trovate audaci che davano il meglio di sé proprio quando cercavano di aggirare i limiti dell'hardware dell'epoca.
Non è un segreto, infatti, che i videogiochi nati sulla prima PlayStation siano stati un banco di prova per idee folli e audaci, spesso capaci di aggirare i limiti tecnici con soluzioni che hanno fatto scuola. Shinji Mikami, con il suo Resident Evil, decise di utilizzare sfondi 2D prerenderizzati per far muovere i modelli dei personaggi 3D, così da arricchire di dettagli gli scenari senza appesantire la console. Per riuscire nell'inganno, decise di adottare telecamere fisse, che non solo mantenevano l'illusione prospettica, ma gli permettevano anche di manipolare la percezione del giocatore, nascondendo i mostri dietro angoli morti o lunghi corridoi fuori campo. Del primo Silent Hill è famoso l'aneddoto secondo cui la nebbia servisse principalmente a evitare a PlayStation la fatica di renderizzare l'intera città, al punto che tutte le parti dello scenario e degli oggetti che non erano visibili, perché oltre il campo visivo del personaggio, non erano nemmeno state realizzate.
"Le persone sperimentavano, inciampavano, e questa incertezza era straordinaria. Quelle limitazioni hanno portato a compromessi strani, unici, che ancora oggi risultano interessanti e iconici", dice sempre Vian. Il suo Crow Country è a tutti gli effetti un affascinante incrocio tra passato e presente: pur sposando un'estetica chiaramente ispirata al primo Resident Evil e ai personaggi super-deformed di Final Fantasy VII, permette di ruotare la telecamera, perché Vian ha scelto di non utilizzare sfondi prerenderizzati. Lo stesso non succede con Phase Zero (la nostra anteprima), titolo ispirato al medesimo capostipite Capcom, ma che sceglie deliberatamente di conservare sia le inquadrature fisse sia gli sfondi prerenderizzati. Perfino i tank control. Sono tutti videogiochi piccoli, sviluppati da studi con budget e team ridotti. Quello che colpisce, in effetti, è proprio l'idea di tornare a quella sfida: superare i limiti, trovare soluzioni migliori, più efficienti, per andare oltre la barriera. Chiaramente oggi il limite non è più legato all'hardware, ma più che altro all'aspetto economico.
Phase Zero, per esempio, è sviluppato da SPINA Studio, una piccola realtà polacca che, secondo il loro profilo LinkedIn, conta meno di dieci dipendenti. Fear the Spotlight è stato realizzato da appena due persone, marito e moglie, Christa Castro e Bryan Singh. Signalis, altro horror ispirato alla generazione d'oro e grande successo di pubblico e critica nel 2022, è opera di rose-engine, uno studio formato da Barbara Wittmann e Yuri Stern. Paratopic, indie horror del 2018, è stato realizzato da arbitrary metric, un team composto da appena tre persone.
Riempire gli spazi
Proprio una dei tre membri di arbitrary metric, Jessica Harvey, ha provato a spiegare perché questo tipo di estetica funziona così bene nei videogiochi che vogliono destabilizzare chi gioca. In un'intervista a Retro Gamer, ha suggerito di guardare oltre i videogiochi e di provare a riflettere sull'effetto inquietante che hanno su di noi i segnali disturbati, come quello di una videocassetta smagnetizzata, o di un canale televisivo che non è ben sintonizzato. O magari la grana sporca della pellicola nei film horror. Pensiamo per esempio a Non aprite quella porta, noto proprio per la sua atmosfera grezza e sgradevole, data anche dall'effetto sgranato e granuloso della fotografia. Per Harvey, queste sono interpretazioni imperfette della tecnologia che mancano di chiarezza e che sono possedute da un'instabilità in grado di farci dubitare del reale.
Questa mancanza di precisione genera quella sensazione che Sigmund Freud definiva perturbante, ovvero il verificarsi in contemporanea di due condizioni opposte: la familiarità e l'estraneità. Vedere qualcosa che ci sembra di conoscere, ma non riuscire a metterla a fuoco, scatena in noi un'inquietudine dovuta all'angoscia di sentirsi confusi. Lo stile PlayStation, a metà strada tra quello stilizzato della generazione precedente e quello realistico a cui ormai siamo abituati, lavora su questa ambiguità visiva.
A questo si unisce un'imprecisione che si estende alle animazioni e all'incapacità di percepire i dettagli sulla distanza. Spesso perché (Silent Hill insegna) non vediamo bene ciò che abbiamo davanti, che è ammantato dalla nebbia o dall'oscurità. In lontananza i dettagli non emergono e in questi frangenti interviene la mente a riempire gli spazi vuoti. Spesso in modo più spaventoso di quanto non possa fare qualsivoglia motore grafico.
Un ottimo esempio in tal senso è proprio la sequenza iniziale del primo Silent Hill: un lungo, claustrofobico, vicolo che Harry Mason è costretto ad attraversare, scendendo sempre più in profondità nell'incubo. Fino ad arrivare a una strada senza uscita, dove uno strano essere è crocifisso alla parete. È difficile stabilire con precisione di cosa si tratti, e poco dopo veniamo attaccati dai mostri, quindi la nostra mente non ha nemmeno troppo tempo per soffermarsi sui particolari, lasciando che sia l'immaginazione a elaborare l'orrore. Un horror recente che tenta di replicare questa sensazione sfruttando lo stesso stile grafico PSX è Inunaki Tunnel. Un videogioco indipendente ispirato a una leggenda metropolitana giapponese, realizzato da Chilla's art, minuscolo studio formato da due fratelli, molto famoso per i loro videogiochi horror con stile grafico retrò.
Non solo nostalgia
"All'inizio pensavo che i videogiochi 3D retrò fossero solo esaltazione della nostalgia, ma è passato molto tempo e ormai la penso diversamente. Credo che sia come quando l'impressionismo è arrivato nel mondo dell'arte", racconta a Push to Talk Kevin Brown di The Water Museum, sviluppatore di Arctic Eggs, un videogioco dove devi friggere uova e sigarette. Può sembrare una descrizione senza senso, ma è esattamente ciò che si fa: cucinare uova insieme a scarafaggi, granate e proiettili in una misteriosa base umana in Antartide. "Il 3D retrò ci chiede di guardare meno al realismo delle cose rappresentate, e di concentrarci invece di più sulle nostre idee. Sull'emozione pura piuttosto che sull'immagine finale".
Le nuove possibilità offerte da questo stile estetico potrebbero anche nascere dal fatto che il periodo in cui è stato utilizzato è molto breve, e corrisponde più o meno alla sola generazione PlayStation. Dalla fine degli anni Novanta alla prima metà dei Duemila. Già su PlayStation 2, per quanto riguarda i modelli poligonali, le texture, le animazioni, si era fatto un deciso passo avanti verso il realismo che sarebbe poi maturato sempre più velocemente verso il fotorealismo. Si potrebbe quasi dire che questo tipo di soluzioni 3D pionieristiche siano passate di moda ancor prima di evolversi verso scenari che esplorassero a fondo le declinazioni dello stile. Melos Han-Tani, che ha realizzato il videogioco d'avventura Anodyne 2, suggerisce che il motivo potrebbe essere che: "a quell'epoca questo stile era considerato brutto, o di transizione".
Oggi, questa nicchia che fino a qualche tempo fa era perlopiù inesplorata e considerata un compromesso, è viva, potente e può avere un suo senso stilistico, estetico e anche economico. A tal proposito vale la pena citare una risposta perfetta che Johanna Kasurinen di Wrong Organ ha dato a Rolling Stone. Il giornalista le chiese come mai avessero scelto proprio quello stile per Mouthwashing e lei rispose così: "Si parla molto di nostalgia quando si parla di videogiochi lo-fi, ma credo che un aspetto importante da ribadire sia questo: non c'è bisogno di una grafica d'avanguardia per creare qualcosa d'impatto". E visto il successo del videogioco, realizzato da un piccolo studio indipendente svedese composto da sette persone, non si può darle torto.