Attualmente il mondo dei giochi di ruolo digitali mainstream non si pone più questioni che un tempo erano apertissime e molto discusse. Da quando il genere fu inventato, tra la seconda metà degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, alcuni sviluppatori iniziarono a ragionare su come rendere al meglio in forma elettronica le sessioni carta e matita, che, data la versatilità del pensiero e della parola, tecnologie meravigliose ignorate dai più, andavano ben oltre il sistema di regole che si stava utilizzando.
Ricreare delle meccaniche di combattimento non era poi così complesso e ci sono moltissimi esempi di titoli che hanno raggiunto l'eccellenza da questo punto di vista, anche quando la tecnologia a disposizione degli autori era potente meno di un'unghia di quella attuale. Serie come quelle di SSI, ormai dimenticate, o anche quelle Wizardry e Might & Magic (i primi, rudimentali capitoli), riuscivano appieno, pur con qualche limite, a riprodurre le meccaniche meno interpretative del genere, ossia tutte quelle per cui si disponeva di regole ampie, documentate e molto stringenti. Ciò che rimaneva fuori era la parte più viscerale di ciò che significava giocare di ruolo dal vivo, cioè la possibilità di interpretazione dell'avventura al di là delle regole stesse. Certo, molto dipendeva dalla bravura del master, ma il solo fatto di fatto di doversi costruire mentalmente l'immagine di alcune situazioni e agire di conseguenza secondo il proprio sentire, rendeva l'esperienza unica; ma come trasformarla in un'esperienza digitale? Alcuni tra i primi grandi designer, Richard Garriott in testa, provarono a creare dei sistemi di regole che comprendessero anche la possibilità di improvvisare e, soprattutto, di esprimere un punto di vista con le proprie azioni. Non era semplice, ma si capì presto che la strada per garantire una maggiore immedesimazione passava necessariamente per un gameplay che si sviluppasse in armonia con il giocatore. Da Ultima IV: Quest of the Avatar (1985), che introdusse per la prima volta un sistema morale vero e proprio tra le meccaniche di gioco, il genere ha esplorato un gran numero di possibilità e ha cercato di rispondere alle molte richieste che via via gli venivano fatte, la maggior parte delle quali ruotanti intorno al concetto di libertà d'interpretazione. Una di queste non era affatto banale e riguardava la possibilità di avere un gioco di ruolo che si potesse completare senza combattere. Insomma: molti volevano capire se esisteva un modo per eludere quello che per molti era il fulcro del genere stesso.
Ripercorriamo le tappe che hanno condotto fino a Torment: Tides of Numenera in uno speciale dedicato
Planescape: Torment e il dono della parola
Planescape: Torment (1999) è quindi il punto di arrivo di un percorso lungo e articolato, che tocca questioni profonde come la morale e la libertà di scelta. È importante capire che non venne dal nulla come se fosse un'opera eccentrica ed estemporanea, ma che nacque dall'esperienza di capolavori come gli Ultima, la seconda trilogia e il settimo capitolo in particolare, Darklands, in parte il primo System Shock e molti altri ancora (citarli tutti non è possibile, purtroppo). Per contestualizzarlo meglio, bisogna anche guardagli attorno.
Torment uscì nel 1999, l'anno dopo Thief: The Dark Project (al livello di difficoltà più elevato chiedeva di non uccidere nessuno per superare le missioni, per non violare la morale dei ladri), e l'anno prima di un altro titolo fondamentale per i giochi di ruolo, quel Deus Ex che incrociò il genere con quello degli sparatutto in prima persona, lasciando però al giocatore una grande libertà d'azione. Ancora più importante: due anni prima, nel 1997, era uscito quel Fallout che l'aveva anticipato nella versatilità del sistema di gioco, seguito nel 1998 dal capolavoro Fallout 2 che aveva perfezionato le meccaniche del primo capitolo, rendendole ancora più libere (da notare che sono entrambi di Black Isles). Tutti quelli citati sembrano titoli molto distanti tra loro a livello di impostazione e meccaniche, ma a ben vedere sono nati dalle stesse domande, cui hanno risposto in modo diverso. La filosofia di Planescape: Torment era molto più vicina alla loro che a quella di titoli cui somigliava enormemente come Baldur's Gate o Icewind Dale (condividevano lo stesso motore grafico, l'Infinity Engine di Bioware... e nel caso di Icewind Dale anche lo stesso sviluppatore), che però erano più canonici nel gameplay. Se guardiamo Planescape: Torment dal punto di vista tecnologico non ci troviamo nulla di eccezionale, nemmeno per gli standard della sua epoca. Fondamentalmente ciò che Black Isle Studios fece fu utilizzare sistemi già sviluppati per Baldur's Gate, rimaneggiandoli per ottenere un effetto completamente differente. L'avventura iniziava nell'obitorio della città di Sigil, la capitale ideale del Multiverso di Advanced Dungeons & Dragons, dove un essere immortale che non ricorda più nulla del suo passato si sveglia e, accompagnato da uno strano teschio fluttuante chiamato Morte, parte alla disperata ricerca di se stesso. Bastava esplorare i primi luoghi nei panni del Senza Nome per rendersi conto che c'era qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri giochi di ruolo usciti fino a quel momento. Planescape: Torment traboccava di dialoghi e descrizioni e volendo si poteva risolvere ogni missione senza spargere sangue, utilizzando le skill sociali e intellettive del personaggio. Pur attraverso un sistema essenzialmente testuale, fatto di scelte multiple legate alle circostanze e alle abilità sviluppate, Black Isle era riuscita a raccontare una storia profonda e appassionante che lasciava in ogni occasione al giocatore la possibilità di decidere come rapportarsi con gli altri personaggi e con i fatti della vita del Senza Nome.
Figli che rinnegano i padri
Planescape: Torment non vendette benissimo. Anzi, a dirla tutta fu il meno fruttuoso dei giochi creati con l'Infinity Engine (non per niente è l'unico a non aver ancora goduto di un'edizione rimasterizzata). Nonostante ciò è il più citato e ricordato del gruppo, nonché un punto di riferimento per l'intero genere dei giochi di ruolo.
Da quell'esperienza o, per meglio dire, dagli anni che rappresenta, nacquero filoni e capolavori rimasti nei cuori dei giocatori. Arcanum: Of Steamworks and Magick Obscura di Troika Games (formata da fuoriusciti di Black Isles che avevano lavorato a Fallout, tra i quali Tim Cain) provò già nel 2001 a seguire le orme di Torment e Fallout, pur in uno scenario diverso e originale. Purtroppo i riscontri economici non proprio eccezionali e la necessità di aprirsi al mercato console per continuare a sopravvivere (l'evoluzione dei giochi di ruolo digitali deve moltissimo al sistema di controllo mouse+tastiera e solo negli ultimi anni si sono viste interfacce capaci di sopperire almeno in parte ad alcuni limiti congeniti dei vari controller, come la difficoltà di gestire un puntatore che si possa muovere liberamente sullo schermo), portarono a diverse ibridazioni tra i giochi di ruolo e gli altri generi, di cui si fece portabandiera Bioware, soffocando per anni il filone più hardcore. Parte dell'eredità di Torment e degli altri titoli citati si trova in moltissimi giochi, come ad esempio Vampire: The Masquerade - Bloodlines di Troika Games, il primo Mass Effect di Bioware, Fallout: New Vegas e Alpha Protocol di Obsidian Entertainment (nata da esuli di Black Isle) o i Bioshock di Irrational Games. La stessa saga The Witcher di CD Projekt RED deve molto a quel periodo (anche se molto più al filone Baldur's Gate che a quello Torment) e sì, di figli quei capolavori ne hanno avuti tanti, ma nessuno ha avuto il coraggio di riconoscere sino in fondo i suoi genitori. Ci voleva il crowdfunding per dare degli eredi a quell'epoca.
Le parole di Torment: Tides of Numenera
Torment: Tides of Numenera nasce soprattutto grazie agli appassionati. Diciamolo chiaramente: nessun publisher avrebbe mai finanziato un gioco di ruolo isometrico pieno di testo in un'epoca come la nostra in cui il giocatore medio può arrivare a lamentarsi della grafica di The Witcher 3: Wild Hunt, o dei cali di framerate di The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Sarebbe stato troppo rischioso.
La consapevolezza che qualcosa era andato perduta nel corso degli anni, soffocata dall'evoluzione tecnologica e dalla spietata pragmaticità del mercato, era presente in moltissimi discorsi di videogiocatori e sviluppatori, ma nessuno si azzardava a fare un passo in avanti. Quando però Double Fine riuscì a raccogliere quasi tre milioni di dollari con la raccolta fondi di Double Fine Adventure su Kickstarter (poi Broken Age), si comprese che c'era un modo per ridare vita a quel passato mitico che molti non avevano dimenticato. Fu così che inXile lanciò la campagna di Wasteland 2 e Obsidian Entertainment quella di Pillars of Eternity. È dal successo di queste che sono nati i progetti Torment: Tides of Numenera e, più recentemente, Pillars of Eternity 2. Se vogliamo, è sempre da lì che Obsidian ha ottenuto la possibilità di sviluppare Tyranny, trovando udienza presso Paradox Interactive (che ha fatto da publisher anche per Pillars of Eternity). Badate bene che si tratta comunque di titoli di nicchia con dei budget molto inferiori a quelli delle produzioni tripla A; ma senza i soldi di questa nicchia non sarebbe stato possibile averli. Del gruppo, Torment: Tides of Numenera è quello che, fin dal titolo, ha provato a raccogliere quella filosofia di cui discutiamo dall'inizio dell'articolo. Senza troppi misteri, inXile lo ha presentato come l'erede spirituale di Planescape: Torment e lo ha reso tale riempiendolo di testo e di scelte da compiere, creando così una rete di possibilità interpretative impensabile per altri titoli (forse giusto Age of Decadence si è spinto così in là). In sostanza il team di sviluppo guidato da Brian Fargo ha creato un ponte con il 1999 dando nuovo lustro a uno dei giochi di ruolo più amati e meno comprati di sempre, lustro che si riflette sull'intero sotto genere, che sta godendo di una specie di Rinascimento. Chissà se si esaurirà presto o se durerà negli anni a venire.