Probabilmente una delle vere rivelazioni videoludiche dell'anno, Deathloop si è distinto sin dal primo annuncio per la sua forte identità stilistica. Ambientato su un'isola misteriosa letteralmente bloccata nel tempo, in Deathloop troviamo un paesaggio naturale spoglio, da tempo invaso da edificazioni tardo ottocentesche, avvolte, loro malgrado, dall'eccentrico e luminoso panorama visuale che ha segnato l'iconografia culturale occidentale tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Settanta.
Andiamo insieme alla ricerca delle fonti d'ispirazione che hanno permesso ad Arkane Lyon di realizzare il particolare e iconico mondo di gioco di Deathloop.
Dalla tradizione all’innovazione
Il precedente, immenso lavoro di studio e concettualizzazione svolto per portare alla luce un progetto come il "dittico" di Dishonored non è stato completamente abbandonato dal reparto artistico che ha lavorato a Deathloop. Infatti, Blackreef presenta ancora i tratti dell'insediamento portuale di fine Ottocento, questa volta abbandonato a sé stesso, e quindi privato di un coerente e graduale processo di modernizzazione.
I vicoli che ci troviamo a esplorare nei panni di Colt, seppur intaccati dall'arrivo ideale della sregolatezza sgargiante degli anni Sessanta, sono incastonati nel tempo, radicati così profondamente nel territorio da risultare un'estensione di quest'ultimo, inscindibili dal contesto nel quale sono stati assemblati e abbandonati.
L'arrivo "del colore" è solo un velo che va a coprire i monocromatici e piatti edifici in mattoni, parenti lontani unicamente nel tempo e nello spazio di quelli che abbiamo imparato a conoscere nella Dunwall di Dishonored. Tolto il velo, troviamo non solo le origini di Blackreef, ma anche quelle di Arkane come artigiana di mondi narrativi.
L’arte del controllo
Da un punto di vista prettamente iconografico, i riferimenti culturali si rifanno a tutta una tradizione artistico-popolare che ha conquistato lo sguardo mondiale tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Settanta. Questi furono anni di rinascita per la maggior parte degli stati nazionali, usciti da poco da una guerra devastante non solo a livello socio-culturale, ma soprattutto economico. Tra inflazione, debiti pubblici e risarcimenti, a giovare della critica situazione globale furono principalmente le due superpotenze uscite vincitrici dal conflitto: Stati Uniti e Unione Sovietica. Non è un caso, quindi, che le principali (e più esose, in termini economici) fonti di distrazione provenissero da uno o dall'altro blocco. Ambo i lati, senza distinzioni di sorta, si sono create tendenze stilistiche e fonti iconografiche che continuano a influenzare il nostro immaginario.
Non c'è da rimanere sorpresi se il reparto artistico di Arkane, capitanato da Sébastien Mitton, si sia lasciato ispirare dall'universo visuale partorito da quel periodo così denso di eventi seminali per la cementificazione del mondo contemporaneo come lo conosciamo oggi. Dopotutto, sembra più che legittimo associare quel crogiolo di sensazioni e liberazione espressiva che sono stati gli anni Sessanta a un concetto di festa infinita, incastrata nel tempo.
L’iconografia pop
Partendo proprio dai poster promozionali e dalle scene d'intermezzo, i due aspetti più "grafici" del titolo, il team ha svolto un efficace processo di riattualizzazione dei modelli proposti dalle locandine e dai titoli di testa di molti film anni Sessanta (specialmente gialli o di spionaggio). Uno dei maggiori fautori di questa tecnica (caratterizzata da larghe campiture monocromatiche puntellate da linee semplici, che fondono silhouette con composizioni astratte) è stato Saul Bass, mente dietro ad alcune delle locandine più iconiche della storia del cinema, da quella de La donna che visse due volte al lavoro per Shining.
Bass è stato anche colui che ha dato nuovo risalto ai titoli di testa, poche volte considerati come momento fondante dell'esperienza cinematografica. Per Otto Preminger realizza la sequenza d'apertura di Anatomia di un omicidio, evento cardine per la centralità stilistica e narrativa delle sequenze d'apertura nei film da lì ai successivi trent'anni.
Ma, forse, l'esempio che più si avvicina alla nostra ricerca è il poster promozionale de L'uomo dal braccio d'oro. Qui troviamo quelle poche e semplici campiture di colore su sfondo monocromatico che possiamo riscontrare anche nello stile utilizzato da Mitton e dal suo reparto per identificare iconograficamente il loro Deathloop.
Il gioco di Arkane, tuttavia, non si ferma alla mera riproposizione delle tendenze stilistiche nate dal lavoro di Saul Bass: il team ha dato carattere al suo titolo proponendo una commistione che va a "scomodare" anche le ricerche cromatiche astrattiste anni Settanta (viene in mente specialmente il lavoro di Desmond Reyner), periodo, oltretutto, di un nuovo protagonismo afroamericano all'interno della sfera culturale occidentale, particolarmente attinente alla forza espressiva dei due personaggi principali del gioco, Colt e Julianna.
In questo calderone denso d'ingredienti, non bisogna dimenticarsi il legante che li tiene uniti assieme, ovvero la capacità del reparto artistico (e non solo) di dare carattere e identità agli elementi visivi, facendo capire al giocatore che ciò che sta vedendo è qualcosa di radicato nel tempo e nel bagaglio culturale di un gran numero d'individui, ma, al tempo stesso, proponendogli qualcosa di estremamente peculiare, difficilmente accostabile in modo diretto con qualsiasi cosa abbia mai visto (sai che si tratta di una visione familiare, ma è complesso mettere a fuoco l'origine di tale associazione cognitiva).
Mitton ha preso le linee di artisti come Bass, già irregolari di loro, e le ha sporcate ancora di più, in un'operazione che ha la valenza tattile della bozza con carboncino, l'immediatezza figurativa della grafica pubblicitaria e l'espressività tempestiva dell'arte di strada.
Esplorazioni architettoniche
Deathloop non è, però, un gioco unicamente composto da immagini bidimensionali, stilizzate e dai marcati contrasti tonali. La forza dell'opera di Arkane sta anche nella realizzazione degli ambienti che compongono Blackreef, particolarmente influenzati da una storia architettonica che affonda le sue radici nella prima metà del Novecento, ma che vede uno sviluppo continuo fino ai giorni nostri.
Se l'isola è principalmente un relitto tardo ottocentesco perso in acque glaciali, è anche vero che molti dei punti d'interesse che ci troviamo a esplorare hanno il gusto dell'esperienza organica di architetti come Frank Lloyd Wright. Pioniere di uno stile architettonico che coniuga la presenza dell'uomo con quella della natura, quest'ultimo è il volto dietro a strutture come Fallingwater o il Guggenheim Museum di New York.
L'opera architettonica, per Wright, doveva entrare in stretta relazione con l'ambiente circostante, perdersi in esso e non adombrare l'elemento naturale. Per questo, le edificazioni dovevano presentare linee che si armonizzassero con il paesaggio senza soluzione di continuità, oltre a essere prive di accorgimenti estetici e ornamentali eccessivamente vistosi e a essere composte principalmente da acciaio e vetro, in modo tale da fornire continuità tra spazi interni ed esterni. Importante, inoltre, lo sviluppo di gran parte dell'edificio nel sottosuolo, così da separare la mondanità umana dal milieu naturale.
Questo pensiero architettonico lo ritroviamo in molti edifici moderni di Deathloop (ispirati ai più iconici covi criminali della storia delle arti visive novecentesca che, a loro volta, si rifanno alle ricerche dell'architettura organica), ma specialmente nella villa di Frank Spicer, il Visionario con l'ossessione per i sistemi di sicurezza all'avanguardia.
La struttura in più livelli si fonde con la scogliera sulla quale trova ristoro. Allo stesso modo, lo sviluppo degli spazi interni strizza l'occhio ad altri lavori organici di Lloyd Wright (notare le similitudini tra le colonne dall'aspetto fungino della villa con quelle del Johnson Wax Administration Building), ma mostra anche l'influenza che hanno avuto i modelli dell'architettura d'interni statunitense (convergente principalmente in figure provenienti dal panorama artistico mitteleuropeo, per la maggior parte espatriato in territorio americano durante il secondo conflitto mondiale) e britannica anni Sessanta, resi iconici dall'immaginario cinematografico, che ha attinto a piene mani da questi ultimi.
Se vogliamo considerare le antiche strutture di Blackreef come paesaggio naturale in sé, allora vediamo come il peso dell'eredità artistica novecentesca inizi a legarsi a esse, alla pari di un guscio protettivo che torna a infondere di rinnovata e luminosa linfa vitale le ramificazioni stradali che scavano l'intreccio urbanistico del vecchio borgo insulare; esaltazione figurativa di una natura morta.
Ci siamo addentrati nei meandri delle influenze iconografiche e culturali di Deathloop e ne siamo usciti vittoriosi, constatando come, pur avendo attinto a piene mani da una memoria culturale collettiva che si radica nella storia del Novecento, il team di Arkane Lyon sia comunque riuscito a donare al titolo un'identità ben distinta, latrice della firma indistinguibile di una casa di sviluppo audace e anomala all'interno del panorama videoludico contemporaneo.
Fateci sapere nei commenti quale è stata la vostra esperienza con Deathloop (se c'è stata). In vista dei The Game Awards, per voi si merita l'ambito titolo di Gioco dell'Anno?