Stappate quello buono, signori: il primo dicembre 2025 Shenmue compie venticinque anni dalla sua uscita europea su Dreamcast, ma la verità è che ogni momento è giusto per celebrare il coraggio creativo di Yu Suzuki, l'ambizione tecnica del progetto e l'impatto che questo ha esercitato sull'intera industria videoludica.
Tuttavia, è vero, questi aspetti sono stati analizzati infinite volte; ecco perché oggi, in occasione delle nozze d'argento tra il titolo e il suo approdo nel vecchio continente, abbiamo pensato che sia più interessante esplorare ciò che Shenmue non è mai stato, ovvero un open world pensato per impressionare con le sue dimensioni. In un'epoca in cui il genere si misura in chilometri quadrati, numero di attività da svolgere e varietà di biomi da perlustrare, Shenmue resta infatti un autentico paradosso ludico, un mondo aperto piccolo, ma ancora oggi tra i più profondi e credibili mai realizzati.
È quindi il momento di tornare indietro nel tempo con noi a Yokosuka, ma non temete: per farlo non c'è bisogno di aspettare l'autobus, basta continuare a leggere.
Una rivoluzione silenziosa
Arrivato qui da noi sul finire del 2000, come anticipato, nelle intenzioni del suo creatore, Shenmue non voleva essere grande, voleva essere... vicino. Il titolo non puntava infatti a travolgere il giocatore con centinaia di icone, ma a far sì che ogni porta, ogni vicolo, ogni volto incrociato avesse un significato. Ed è proprio questo aspetto che lo rende ancora oggi un'esperienza unica, quasi impossibile da replicare per i tempi che corrono e i trend che vanno per la maggiore.
In questo senso, la sigla FREE, acronimo di Full Reactive Eyes Entertainment, coniata da Suzuki per etichettare il tipo di avventura a cui saremmo andati incontro, restituiva l'idea di un'immersione totale nell'ambiente di gioco, con tutti i suoi pro e quelli che forse oggi sarebbero considerati dei contro. Ora, se chiudiamo gli occhi e pensiamo per un attimo all'open world contemporaneo, ci vengono senz'altro in mente mappamondi che sembrano veri e propri continenti, come quelli dei vari Assassin's Creed, Horizon e The Witcher 3, tanto per fare qualche esempio.
Stiamo parlando di mondi spettacolari, su questo non c'è dubbio, ma costruiti su un'idea di libertà associata quasi più alla quantità; quantità di spazio, di attività e di diversivi. Venticinque anni fa, invece, Shenmue puntava tutto su un'altra definizione di libertà: quella di abitare un luogo. L'indagine di Ryo sulla morte del proprio padre non chiedeva infatti all'utente di scoprire cosa ci fosse dietro l'orizzonte ma di imparare i ritmi di un quartiere, ricordare i volti dei vicini, riconoscere i rumori del pomeriggio e le luci della sera.
Ecco dunque una rivoluzione compiuta non in nome dell'ampiezza, ma in quello della densità; già, perché nell'opera di Suzuki ogni negozio aveva orari precisi, ogni personaggio una routine e delle abitudini e ogni strada ricopriva un ruolo nella quotidianità di Ryo. Insomma, ogni dettaglio messo in campo dagli sviluppatori contribuiva a edificare un mondo che il giocatore non esplorava, ma viveva in prima persona.
Oggigiorno molti open world tentano la strada del realismo simulato introducendo routine dei personaggi e cicli giorno/notte, questo è vero, ma spesso questi vengono concepiti solo come elementi cosmetici, come variazioni a volte quasi invisibili nel mare magnum di attività da portare a termine. In Shenmue no, signori miei: questi fattori erano infatti la struttura stessa del gioco.
La differenza tra attraversare e abitare
Mettiamo subito le cose in chiaro: lungi da noi criticare l'open world moderno, anzi, la libertà concessa da certe avventure e le dimensioni che queste hanno ormai raggiunto non possono che stupirci una volta di più degli universi da sogno a cui gli sviluppatori riescono a dare vita. Eppure, Shenmue si muoveva su un terreno differente rispetto alle produzioni odierne.
Ma facciamo un po' di ordine. Sebbene infatti Red Dead Redemption 2 - probabilmente il mondo aperto più dettagliato mai costruito finora - presenti una cura maniacale per i particolari, il suo è comunque uno spazio forse più da attraversare, immenso, spesso disabitato, pensato per lunghe traversate e per meravigliare con scenari grandiosi. Ecco, nella creatura di Yu Suzuki ogni spostamento durava appena pochi minuti ed era sempre pieno di incontri, tra facce note e i luoghi riconoscibili di un ambiente che riconsegnava il giocatore a sé stesso, anziché spingerlo verso l'ignoto.
Pur con i suoi dettagli minuziosi e chicche indimenticabili, il mondo di The Witcher 3 è invece una narrazione epica, costituita da vaste regioni, guerre, regni e mostri; ebbene, Shenmue era esattamente l'opposto: una storia locale, quasi provinciale, ambientata in vicoli dove la cosa più epica che può capitare è trovare un lavoro al porto. E che dire delle attività? Su questo fronte, la Los Santos di GTA V - tanto per scomodare un altro mostro sacro - è un enorme luna park in cui c'è sempre qualcosa in cui cimentarsi; in Shenmue, invece, non c'era nulla da "fare" nel senso tipico degli open world moderni: non c'erano collezionabili infiniti, minigiochi a frotte o missioni secondarie illimitate.
Quello che c'era era piuttosto la possibilità di parlare con chiunque, non tanto per ottenere una missione, quanto per capire fino in fondo il posto in cui si vive; un posto che poteva anche solo concedere il piacere di entrare in una drogheria e aprire un cassetto per vedere cosa contiene. Un design, quello di Suzuki, che faceva quindi perno su una filosofia tutta sua, e che preferiva non premiare l'utente con i punti esperienza ma con la familiarità.
La forza del microcosmo
Chi ha giocato Shenmue all'epoca della sua uscita ricorderà come la sua vera magia risiedesse nello scenario: una Yokosuka minuscola, ma che sembrava infinita e questo grazie al suo spessore. Ogni via aveva infatti un'identità ben precisa: Dobuita non era solo un centro commerciale, ma un luogo che cambiava faccia con le ore del giorno; Sakuragaoka non era un quartiere residenziale generico, ma un mosaico di case da imparare a conoscere una per una.
Piccole cose e pure poco sorprendenti, diremmo oggi, certo, abituati come siamo alle praterie sconfinate e alle città che si estendono a perdita d'occhio delle produzioni attuali, ma il punto che non va perso di vista e che va tenuto bene a mente è che stiamo parlando di un gioco che non ha mai ambito all'abbondanza come proprio asso nella manica.
Nel corso dell'avventura di Ryo, il giocatore costruiva quindi una relazione con i luoghi identica a quella che si sviluppa nella vita reale quando si vive in un quartiere per anni e finiva per sapere qual è il negozio che chiude prima, riconoscere chi prende sempre l'autobus e imparava a orientarsi non attraverso la mappa, ma tramite la memoria. Shenmue mirava quindi a un'intimità e a un rapporto con l'utente che per certi versi sono dei piccoli miracoli ancora oggi, e questo perché invitava il giocatore a diventare un cittadino, non un turista.
Quando il dettaglio è game design
Parlare con un passante per sentirsi rispondere qualcosa di irrilevante, oggi, molto probabilmente, potrebbe essere considerato come un difetto, o almeno come una piccola lungaggine sul fronte ludico, mettiamola così. Ora ci sono infatti attività da svolgere, minigiochi da completare, trofei assurdi da conquistare, collezionabili da raccogliere, chilometri da percorrere... non è il caso di assecondare troppo una perdita di tempo, no?
Una perdita di tempo che però in Shenmue rappresentava curiosamente l'essenza stessa dell'esperienza: ogni dialogo inutile era infatti un mattoncino di autenticità; ogni negozio rafforzava la credibilità del luogo; ogni dettaglio messo lì "per nulla" costruiva un mondo che non chiedeva di essere giocato, ma abitato e vissuto.
Quello messo a punto da SEGA era un game design davvero distante dall'open world moderno; una filosofia che oggi sembra quasi appartenere a un'altra arte oltre che a un'altra epoca. Mentre molte delle avventure contemporanee cercano infatti di intrattenere con contenuti infiniti, Shenmue teneva compagnia al giocatore con la presenza, quella di un mondo che ti guarda mentre lo guardi.
Chissà, forse è per questo che se proviamo a tornare oggi a Yokosuka, la città sembra ancora incredibilmente viva: i limiti tecnici dell'epoca non hanno infatti scalfito la sua struttura, perché quell'impianto non puntava al realismo grafico, ma a una forma di realismo fatta di momenti, orari e abitudini.
Uno spazio che non chiede nulla
Buttando un occhio all'evoluzione delle avventure open world, potrebbe non essere così campato in aria affermare che forse il segreto di Shenmue si nasconde proprio in ciò che i suoi successori hanno abbandonato: la capacità di non chiedere al giocatore di essere sempre produttivo.
Parecchi open world moderni hanno infatti trasformato l'esperienza ludica in una lista di compiti da spuntare; quello architettato da Suzuki si proponeva invece come un luogo in cui, per una volta, non c'era niente di particolare da fare se non vivere. Aspettare l'autobus, allenarsi in cortile, fare un turno di lavoro monotono, parlare con il proprietario di un negozio anche se non serve a nulla. Messe così, queste attività sembrerebbero noiose, eppure sono proprio ciò che ha reso la prima avventura di Ryo così memorabile nel tempo.
Sì, perché forse la quotidianità è l'aspetto più difficile da ricreare in un videogioco, piena com'è di dettagli, di sfumature, di ritmi compassati che di certo non si prestano alla spettacolarità. Ma l'impresa pionieristica di Shenmue si manifesta nella sua vera forma solo se pensiamo che il titolo riuscì in tutto questo venticinque anni fa, in un momento in cui nessuno percepiva ancora il valore di questi fattori.
Piccolo ma eterno
La grande lezione impartita a tutti da Shenmue è semplice, ma rivoluzionaria: la profondità non nasce dalla vastità. In molti casi, oggi la grandezza rischia infatti di diventare dispersività; in Shenmue, invece, le dimensioni ridotte si traducevano in concentrazione. I suoi confini limitati permettevano di ricordare i luoghi, di stringere un legame con essi, di riconoscerli come parti della propria vita digitale. E questa è una forma di immersione di cui non sappiamo quante avventure moderne possono dire di vantarsi oggi.
Venticinque anni dopo il suo sbarco in Europa, non ricordiamo Shenmue per ciò che faceva da pioniere tecnologico - sebbene abbia aperto la strada a molte idee affermatesi successivamente. Lo ricordiamo perché era umano. Perché non ci trattava da eroi in un mondo troppo grande, ma da persone qualsiasi in un quartiere ordinario. Ed era in quella ordinarietà che si trovava la sua magia. Nel 2025, mentre l'industria rincorre mondi vasti quanto il pianeta, Shenmue resta quindi un monumento a qualcosa che ormai è quasi scomparso: l'idea di un open world che non vuole per forza stupirti, ma accoglierti.