In un mercato che sembra sempre più schiacciato dal peso delle mega-produzioni, almeno per quanto riguarda gli editori di dimensioni maggiori concentrati soprattutto sui titoli tripla A, i giochi di dimensioni medie rappresentano spesso delle ventate d'aria fresca in grado di avere un impatto davvero positivo. Un altro esempio di questa situazione proviene da Prince of Persia The Lost Crown, nuovo capitolo della storica serie Ubisoft che tenta il rilancio in una direzione atipica ma che risulta decisamente azzeccata. È un esempio che potrebbe essere emblematico di questa necessità di uscire dagli schemi: la serie era cresciuta in maniera notevole nella generazione PS3 e Xbox 360, configurandosi secondo gli stilemi del classico action adventure in terza persona, una tipologia di gioco che oggi dovrebbe tradursi necessariamente in una produzione in stile blockbuster cinematografico.
Se un tempo tale impostazione poteva infatti consentire anche una buona dose di sperimentazione, come ha dimostrato la saga delle Sabbie del Tempo, al giorno d'oggi riprendere un'impostazione del genere potrebbe risultare rischioso per la quantità di investimenti che potrebbe richiedere, perché da giochi di questo tipo il pubblico si aspetta grafica spacca-mascella e narrazione sostenuta da scene d'intermezzo di un certo livello. Considerando questo, la scelta effettuata da Ubisoft è stata coraggiosa ma anche intelligente: modificandone completamente la struttura e tornando anche a recuperare alcuni elementi originali della serie, che di fatto è partita come un action con elementi platform in 2D, gli sviluppatori si sono smarcati dalla necessità di mettere in piedi una produzione pachidermica e hanno anche potuto sperimentare qualcosa di nuovo. Cioè, nulla di inedito, intendiamoci: il metroidvania è ormai super consolidato, ma utilizzarlo per questa serie risulta sorprendente.
Contro il logorio dell'industria moderna
Il risultato è un ottimo metroidvania che sta ricevendo una notevole accoglienza sia da parte della critica che dal pubblico, in base alle reazioni alla demo disponibile da ieri. È un effetto simile a quello che abbiamo visto per Hi-Fi Rush un anno fa e non è nemmeno la prima volta che il publisher francese ottiene grandi risultati da iniziative del genere: tra i titoli forse più belli del catalogo Ubisoft ci sono infatti giochi come Child of Light e Valiant Hearts, entrambi emersi in un periodo in cui l'etichetta provava a sperimentare nuove produzioni attraverso tipologie di sviluppo sullo stile "indie", pur trattandosi comunque di giochi provenienti da una vera e propria major. Considerando l'andamento dell'industria e i ben noti problemi di sostenibilità delle maxi-produzioni, tra budget aumentati esponenzialmente e tempistiche di sviluppo lunghissime, il ricorso a queste sperimentazioni potrebbe rivelarsi salvifico.
La stessa strada è stata intrapresa già da tempo anche da EA con l'etichetta Originals, che ha già portato titoli "piccoli" ma di grande rilievo come i giochi Hazelight, con A Way Out e soprattutto It Takes Two. In ogni caso si tratta soprattutto di alternare, chiaramente non di sostituire completamente le produzioni maggiori, ma la diversificazione di esperienze e modalità produttive potrebbe essere una risposta a molti problemi attuali dell'industria videoludica. D'altra parte, è quello che si dice ormai da tempo anche per quel che riguarda Game Pass e la possibilità di investire e dare spazio in produzioni alternative a quelle standard tripla A, che ha già dato modo di dimostrare notevoli risultati come il suddetto Hi-Fi Rush, Pentiment e Grounded. Non si tratterebbe peraltro di togliere spazio agli indie veri, quanto piuttosto riscoprire il territorio intermedio dei giochi "AA", per così dire, che un tempo rappresentavano una fetta importante delle produzioni dei grossi editori videoludici.