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The Last Dance, la recensione

The Last Dance è il più recente documentario di Netflix, incentrato sull'ultima stagione che Jordan, Pippen, Rodman e Phil Jackson hanno giocato nei Chicago Bulls

RECENSIONE di Luca Forte   —   18/05/2020

Non è facile scrivere una recensione di The Last Dance, il recente documentario di Netflix che ci fa rivivere l'ultima stagione che Michael Jordan, Phil Jakson e Scottie Pippen hanno giocato assieme vestendo la maglia dei Chicago Bulls. Il documentario, composto da 10 episodi di un'ora ciascuno, è una montagna russa di emozioni che alterna sullo schermo momenti di gloria, cadute e riscatti. Il tutto con un unico filo conduttore: His Airness, il maschio "alfa tra gli alfa", il più grande di sempre: Michael Jeffrey Jordan.

Il tocco del regista di The Fab Five, Chicago Bears 1985, Andre the Giant, ovvero Jason Hehir è subito evidente. Inoltre alla produzione c'è Mike Tollin, che già in passato ci aveva deliziato con un documentario su Iverson e con The Last Dance sembra superarsi. La produzione è semplicemente stellare e i più grandi protagonisti del basket NBA degli ultimi 30 anni si avvicendano di fronte alle telecamere per raccontare aneddoti sulla competitività maniacale di MJ e farci rivivere con i loro racconti inediti una stagione leggendaria. La regia di Hehir è sempre molta attenta, alla ricerca di un equilibrio nel non eccedere nei complimenti o nelle critiche.

Il materiale a disposizione, poi, è eccezionale. Jordan, sapendo da inizio stagione che quella del '97-'98 sarebbe stata l'ultima di una delle squadre più forti di sempre, non solo nel basket, aveva dato la possibilità a una troupe televisiva di filmare decine e decine di dietro le quinte, di entrare in luoghi e in spazi solitamente preclusi alle TV. Materiale rimasto per la gran parte inedito fino ad oggi, che regala uno spaccato eccezionale di quelle che sono le dinamiche che si nascondono dietro la copertina patinata della NBA.

Caption  Michael Jordan In  The Last Dance  Credit  Espn Films Netflix Mandalay Sports Media Nba Entertainment

La costruzione di un mito

La National Basketball League, infatti, grazie a Jordan, Bird e Magic è riuscita a trasformarsi negli anni Ottanta da uno sport di secondo piano in un fenomeno di costume e mediatico. Una lega popolata da personalità strabordanti che aveva un disperato bisogno di un uomo copertina per ripulire la sua immagine dagli eccessi dei quegli anni. E quel ragazzo della Carolina del Nord, nero, di buona famiglia, con un'etica del lavoro fuori dal comune e una competitività esagerata era perfetto per quel ruolo.

Sul parquet era un vero dittatore, un provocatore e un intimidatore incapace di accettare la sconfitta, ma bastava rivolgersi alla mamma per fargli cambiare idea. È così, per esempio, che la Nike riuscì a convincerlo a firmare un accordo che fece la fortuna di entrambe le parti. Ed era un uomo duro e testardo, che però aveva sempre il padre al suo fianco durante i momenti più importanti della carriera, pronto a piangere, ridere e scherzare con lui.

In questo modo, in un continuo avanti e indietro negli anni, gli autori non solo raccontano la straordinaria cavalcata del campionato '97-'98 ma ricostruiscono un personaggio molto più sfaccettato dell'eroe senza macchia visto sul parquet e immaginato da molti osservando i suoi poster, i film o alcuni documentari. Un eroe che per ben due volte ha abbandonato il suo grande amore (il basket), per poi tornare sui suoi passi. Un uomo che durante la sua carriera è stato travolto dagli scandali e che ha ancora aperte delle faide dopo 30 anni (con Isiah Thomas/i Pistons e con il defunto Jerry Krause). Un eroe intransigente con alcuni suoi compagni, ma capace di entrare sotto la pelle di altri e capire come tirare fuori il meglio da loro. E se con alcuni usava il bastone, con altri utilizzava la carota. L'obiettivo era sempre lo stesso: vincere.

The Worm, Pip e gli altri eroi

In questo modo si scopre che Dennis Rodman, nonostante la nomea di "bad boy", nonostante lo abbia riempito di botte durante le battaglie tra Pistons e Bulls nei playoff, nonostante quel modo di porsi eccentrico e fuori dalle righe, è forse uno dei giocatori che MJ ha più rispettato nella sua carriera. E non solo per quello che era in grado di dare su un campo da basket, quello, con un minimo d'occhio o con qualche statistica sotto mano, tutti sono in grado di notarlo, ma per la sua straordinaria etica del lavoro, per il suo Q.I. cestistico e per la sua insospettabile affidabilità.

Perché colui noto più per i suoi flirt con Madonna, per le amicizie con i dittatori o i capelli colorati, in realtà è un atleta molto meno istintivo di quanto si poteva credere. Una persona che ha curato e allenato il suo corpo per poter essere al livello di Jordan, Pippen o di un giovane Shaquille O'Neal, ma che studiava meticolosamente lo stile di gioco degli avversari, sapeva come annichilirli e prevedeva come un computer dove sarebbe caduto ogni rimbalzo. E se il rovescio della medaglia era il doverlo andare a prendere di peso dopo una 48 ore (poi diventate qualcosa di più) di permesso a Las Vegas, allora "Kamikaze"! D'altra parte non si mette una sella su di uno stallone di razza.

The Last Dance, come dicevamo, getta uno sguardo in maniera piuttosto imparziale su quel periodo e su quella squadra, spiegando perché, a pieno titolo, è da considerarsi leggendaria. Composta da (super)eroi, ma di quelli dei fumetti moderni, con tanti lati chiari, ma anche qualche ombra. Dei Batman, più che dei Superman, tanto per intenderci.

E per ogni Batman c'è anche un Robin. Solo che in questo caso la spalla è forse uno dei giocatori più forti di tutti i tempi: Scottie Pippen. Un giocatore dominante da entrambi i lati del campo, un uomo squadra in grado di facilitare il gioco dei compagni, il punto di riferimento, il collante e il leader di uno spogliatoio intimorito dall'ingombrante presenza di Jordan. "Io ho vinto solo quando c'era Pip in campo": quale endorsement migliore può arrivare dal più grande di tutti i tempi?

Jordan e Pippen più che Batman e Robin possono sembrare lo Yin e lo Yang, il poliziotto buono e quello cattivo. Il campione che decide la partita con le sue giocate decisive e quello che fa vincere facendo tutto quello che serve. E lo fa dannatamente bene. Due campioni immortali, il cui destino è forse segnato, come nelle migliori sceneggiature, da un unico dettaglio. Un dettaglio che distingue IL più grande di tutti i tempi da UNO dei più grandi di tutti i tempi.

Finali NBA del 1991, le prime di Jordan. Siamo agli sgoccioli di Gara 5 e Phil Jackson, allenatore, mentore e normalizzatore di quei Bulls, disegna il possesso decisivo per dare la palla a John Paxson, il tiratore della squadra. Una scelta sensata vista con gli occhi di un europeo o di chi non mastica basket. Un affronto per l'NBA delle "hero ball", figuriamoci se non era uno schiaffo in faccia per lo smisurato ego di Jordan. Ma Paxson riceve la palla e segna il canestro decisivo. E da quel momento in poi Jordan fa il salto qualitativo mentale e tecnico che lo hanno reso IL migliore.

Facendo un salto in avanti, siamo alle semifinali di Conference del 1994. Il primo anno senza Jordan, con i Bulls che giocano un basket corale e meraviglioso, che esalta il triangolo di Jackson e che ha un leader altrettanto eccezionale: Scottie Pippen. Leader tecnico, morale e spirituale. Ma un leader "buono", sempre pronto a dare una pacca sul sedere quando si fa bene, o una mano a rialzarsi quando si cade. Mancano 1,8 secondi dalla fine di Gara 3, i Bulls sono sotto 2-0 con il punteggio sul 102 pari. Jackson disegna il gioco finale per il tiro di Toni Kukoč, la talentuosa matricola dalla Croazia bistrattata dal Dream Team durante l'estate precedente. Ma Pippen non ci sta e non entra nemmeno in campo, tradendo la fiducia di tutti. Dei compagni che vedevano il lui un eroe senza macchia, di Jackson che contava su di lui per colmare il vuoto lasciato da Jordan, passato al baseball dopo mesi di logoranti attacchi da parte della stampa e la morte del padre. Ma soprattutto di sé stesso. Toni Kukoč segna, ma qualcosa, nonostante le scuse di Pip, si rompe. I Bulls perdono le semifinali in gara 7 e l'anno dopo sembrano una squadra senza capo ne coda.

Almeno fino al "I'm back".

The Last Dance Meteoweekcom

L'ultimo ballo

Fa quasi ridere scoprire l'importanza che ha avuto Space Jam, il film con Jordan e Bugs Bunny, tanto per intenderci, nel far ritrovare la passione per il basket a MJ. Il campo costruito da Warner Bros. per consentire a Jordan di trovare la forma perduta dopo la parentesi nel baseball è presto divenuto il ritrovo di tutti i più forti giocatori di quegli anni che, senza arbitri, hanno dato vita ad alcune tra le maratone di basket più intense, dure e spettacolari di sempre. Al pari, forse, degli allenamenti del Dream Team, la leggendaria nazionale USA che durante le Olimpiadi di Barcellona ha disintegrato qualunque tipo di avversario. Ma non era davanti alle telecamere che si combattevano le vere battaglie, ma durante gli allenamenti quando Jordan, Bird, Magic, Barkley e tutti gli altri non si risparmiavano colpi proibiti, trash talking e soprattutto le loro giocate migliori.

La forza di The Last Dance è proprio questa: quella di raccontare in maniera interessante e senza troppi fronzoli una delle icone pop più luminose del nostro tempo. Una stella talmente luminosa che per due volte si è bruciata e non è riuscita a reggere il peso delle aspettative. The Last Dance mette in luce la grandezza di Jordan, ma senza evitare di mostrarne gli spigoli, il carattere competitivo, gli eccessi, le uscite infelici, la passione per le scommesse, le cadute. Gli appassionati impareranno, probabilmente, alcuni nuovi aneddoti su Jordan, i giovani capiranno perché MJ è considerato il più grande di tutti i tempi, gli altri scopriranno tutto il mondo che c'è dietro le luci, le paillette e le cheerleader dei palazzetti NBA.

The Last Dance unisce tanti momenti e tanti personaggi iconici della storia recente (Madonna, il primo governatore nero della Carolina, l'AIDS di Magic, Space Jam, la parentesi del baseball, il Dream Team) ne spiega le motivazioni e mette tutto in prospettiva. Senza mitizzare e senza demonizzare, che forse è il pregio più grande di tutta la produzione. Perché Jordan è un mito, ma non una divinità. Il più grande tra gli uomini, che però ha pianto, riso, sofferto e sudato per ottenere quello che ha ottenuto. E che per due volte si è spezzato. Ma che, almeno una volta, si è rialzato per concederci un ultimo, bellissimo ballo.

Conclusioni

The Last Dance è un documentario imperdibile, non solo per chi ama il basket, ma anche per coloro che sono alla ricerca di un prodotto scritto bene, curato nei minimi dettagli ed estremamente interessante. Un documentario in grado di far luce su uno dei personaggi più influenti dello sport mondiale e sui motivi che hanno reso l'NBA la lega più cool e ricca del pianeta. Un documentario eccellente, che a pieno diritto entra tra le migliori produzioni mai proposte da Netflix. 10 puntate da vedere, nel caso in cui non l'abbiate già fatto, tutto d'un fiato: Kamikaze!

PRO

  • Scrittura eccellente
  • Imparziale
  • Parla di un periodo mitico

CONTRO

  • Prima o poi finisce