A fine giugno sarà un anno dall'uscita di Diablo III. L'hack and slash ha venduto oltre dodici milioni di copie e la versione console, annunciata da poche settimane, è stata oggetto di un recente articolo pubblicato su queste stesse pagine.
Quando Jay Wilson, game director da qualche tempo impegnato su un differente progetto, sale sul palco della GDC 2013 per iniziare la sua lettura, un approfondimento sull'approccio che lo ha guidato nel processo di reinvenzione di un classico, tiene quasi immediatamente a snocciolare forte e chiaro altri due dati: gli utenti unici giornalieri, ancora oggi sono circa un milione, e quelli mensili, ammontano pressapoco a tre. Come dire che, nonostante le infinite polemiche, il titolo continua ad attrarre utenti e accumulare ore di gioco. In realtà lo sviluppatore non tiene quello stesso approccio difensivo molto a lungo e nell'ora seguente parla in maniera schietta di alcune scelte difficili, di risultati positivi e decisioni rivelatesi infelici.
Il giusto equilibrio
La difficoltà principale in un percorso complesso e strapieno di aspettative come la creazione di Diablo III, secondo Wilson è stato trovare il giusto equilibrio tra nuovo e vecchio. Per avere una linea direttrice da seguire, il team ha scelto sette valori fondamentali a cui attenersi: accessibilità, customizzazione, ritmo, coop, setting interessante, eroi potenti e rigiocabilità. Nel processo di creazione delle classi, ad esempio, è stato immediatamente chiaro l'obiettivo di non realizzare alcun personaggio che diventasse automaticamente preferibile rispetto agli altri. L'esempio portato è quello della Sorceress di Diablo II, divenuta di gran lunga la scelta preferita a causa dell'indipendenza dall'equipaggiamento e della sua capacità di evadere dagli avversari. Allo stesso tempo la nuova direzione, segnata dalla presenza di una statistica primaria e quindi di oggetti che la migliorano, è stata in parte mortificata dall'assenza di un quantitativo sufficiente di armi e armature che davvero modificassero lo stile di gioco.
Discorso valido soprattutto per quelli leggendari e problema risolto, almeno in parte, con l'aggiornamento 1.0.4 e con quelli successivi. Le modifiche all'interfaccia, ai comandi ma anche decisioni ancora più importanti, come quella di restare fedele alla visuale isometrica in un periodo dominato dalla telecamera libera, sono state giustificate dalla volontà di mantenere il gioco accessibile. Ogni scelta ha avuto delle conseguenze precise, viene fatto notare. Così la volontà di porre maggior enfasi sulla quantità di possibili build e combinazioni di abilità diverse ha limitato la varietà dei combattimenti, dato che ogni meccanica di ciascun nemico doveva essere affrontabile da qualsiasi giocatore a prescindere da come vi arrivava. La tendenza, tipica di Diablo II e altri esponenti del genere, a favorire il potenziamento di poche skill all'interno degli alberi delle abilità, è stata risolta creando un progressione lineare che fosse uguale per tutti e che desse modo di sperimentare senza conseguenza qualsiasi soluzione. D'altronde così facendo si rischia di perdere il brivido della scelta e passare di livello diventa un processo meno memorabile, difetto effettivamente rilevato da un certo numero di utenti.
Un passaggio particolarmente riuscito del progetto sembra essere stato quello che ha coinvolto la caratterizzazione dei personaggi: il team capitanato da Wilson è partito da archetipi generici per poi tentare di dare maggior personalità a ciascuna classe, aggiungendo tratti e caratteristiche più definiti rispetto a, tanto per restare in casa Blizzard, World of Warcraft. Estetica e background a parte, per ogni eroe le prime fasi dello sviluppo sono state spese per identificare dalle tre alle cinque abilità che fossero riconoscibili e determinanti, quelle che il giocatore avrebbe usato più spesso. Dare carattere a ciascuna di queste, restituendo contemporaneamente la giusta sensazione di potenza, è la chiave per rendere gratificante l'esperienza di gioco di un action RPG. Come è stato riportato dalla redazione news, la maggior autocritica espressa dal game designer è invece relativa all'implementazione della casa d'aste.
Non solo quella a denaro reale. L'idea che poche persone l'avrebbero usata, con un numero limitato di oggetti a impegnare gli scaffali virtuali, si è rivelata sbagliata e la dipendenza dell'esperienza dal suo utilizzo non ha fatto bene al gioco. È chiaro che il bilanciamento di questo feature passa innanzitutto dal processo di creazione e drop degli oggetti, che sarà anche al centro del prossimo aggiornamento, ma il problema è così radicale che addirittura è stata paventata l'idea di rimuoverla. Una scelta estrema, difficile da attuare dopo così tanto tempo e con una base utenti tanto vasta che vi fa regolarmente affidamento. Mettendo da parte le singole considerazioni di natura ludica e il bilancio che Wilson fa dei suoi sette anni spesi al lavoro su Diablo III, l'intervento è stato interessante perché capace di sottolineare quanto difficile sia valutare un gioco tanto articolato. Un prodotto costruito su un gran numero di meccaniche, cui è stato richiesto di innovare pur mantenendosi fedele allo spirito della serie. La sensazione è che il lavoro non sia ancora finito e le patch, prima delle inevitabili espansioni, si susseguiranno nei mesi a venire. Insomma non sarà certo questo l'ultimo post mortem dedicato Diablo III...