I videogiochi dovrebbero costare di più? Probabilmente sì. Ovviamente si tratta di una provocazione, ma un'affermazione così perentoria e impopolare un senso ce l'ha, soprattutto se guardiamo ad alcuni fatti degli ultimi mesi. Per molti è difficile ammetterlo, ma l'industria dei videogiochi tradizionale è vittima di una crisi che allo stato attuale sembra irreversibile. Ammettiamolo: il modello classico di sviluppo e commercializzazione è morto e sepolto, almeno nel segmento di mercato dei tripla A, con le grandi produzioni che sempre più appaiono come mezzi per vendere servizi a lungo termine, in cui la fase di commercializzazione iniziale è solo una di quelle che accompagnano la vita di un titolo.
Anche i modelli economici alternativi sono pensati con finalità simili, ma attualmente offrono degli evidenti vantaggi, tra i quali i minori costi iniziali, che li rendono preferibili soprattutto per realtà medio piccole. Guardiamo in faccia alla realtà: quanti giochi tripla A che nel pacchetto base offrono un'esperienza completa sono arrivati sul mercato negli ultimi mesi? Quanti invece sono i titoli che per essere definiti completi richiedono investimenti monetari extra per DLC, Season Pass, acquisti in-app e cosi via? Di base è facile ribaltare la provocazione iniziale, affermando non tanto che i videogiochi dovrebbero costare, quanto che già costano di più, solo che sono saliti di prezzo in modo laterale e un po' infido, per non scontentare un'utenza refrattaria a spendere più soldi sul singolo titolo. Così gli si dà l'illusione che la spesa si sia mantenuta uniforme, mentre la verità è che acquistando solo la base di un videogioco ci si ritrova sempre più spesso con in mano qualcosa di incompleto. Non è giusto? No, ma è naturale che sia così, perché altrimenti il mercato tradizionale sarebbe semplicemente insostenibile. Anzi, sarebbe formato soltanto da una manciata di brand che si riproducono di anno in anno... Va bene, di fatto sembra già essere in pieno rigor mortis da serializzazione selvaggia... volete vedere che il mercato tradizionale è morto e non ce ne siamo accorti? Qualcuno ne ha per caso celebrato il funerale?
La fine dei giochi
Nelle ultime settimane il caso che più sta tenendo banco nel nostro settore è quello della lite tra Hideo Kojima e Konami. In realtà non si conoscono i termini precisi della faccenda, anche se alcune voci di corridoio hanno rivelato dettagli interessanti. Fino a poche settimane fa, pensando a Konami l'utenza tradizionale era portata a ritenerne intoccabili soltanto due brand: Pro Evolution Soccer e Metal Gear Solid, con il secondo saldamente nelle mani di Kojima Productions. Sinceramente, chi avrebbe mai potuto disgiungere un Metal Gear da Hideo Kojima, padre della serie sin dai tempi della sua nascita su MSX2?
In effetti tutto sembrava andare per il meglio, con l'approssimarsi dell'uscita del quinto capitolo della serie, The Phantom Pain, e il buon Hideo che continuava a twittare immagini e curiosità per i fan, rendendoli edotti del suo amore per le cosplayer poco vestite e per le basi rosa. Insomma, apparentemente era un idillio. Ma un giorno l'illusione è stata abbattuta nel modo più brutale possibile, con Kojima Productions cancellata e rimossa dalla serie, Hideo Kojima chiuso in un assordante silenzio e Silent Hills, il suo prossimo progetto, che vedeva il coinvolgimento anche di Guillermo del Toro, cancellato. Come già detto non è possibile rendere un quadro preciso della situazione, ma c'è da riflettere su alcuni punti sollevati dalle voci di cui sopra. Ad esempio pare che il CEO di Konami voglia far provare alla società business differenti e che non amasse troppo Kojima perché contrastava i suoi progetti. Da videogiocatori le nostre simpatie vanno evidentemente alla posizione di Kojima, ma dovendo fare una valutazione economica e riprendendo il discorso sui costi dei videogiochi, finisce per balenarci nella testa una domanda che non possiamo eludere: l'industria dei videogiochi può permettersi ancora un Hideo Kojima? Ossia, può permettersi qualcuno con una produttività così scarsa? E a seguire: dopo anni e anni di sviluppo, quanto dovrebbe costare Metal Gear Solid V: The Phantom Pain per dare a Konami prospettive concrete di rientro della cifra investita vendendo il giusto numero di copie? Siamo sicuri che la scelta del CEO di Konami non sia stata dettata banalmente dalla volontà di diminuire il rischio di fallimento della società, invece che dall'antipatia?
Come vedete siamo ritornati al problema iniziale, ossia quello della sostenibilità dell'attuale settore tripla A, diventato fin troppo rischioso anche per i grandi operatori. È vero che andrebbe fatto un discorso a parte per il mercato giapponese, ma in un'ottica generale è facile affermare come un Metal Gear, inteso come prodotto tradizionale di grande richiamo, ogni sette anni non sia più concepibile in un mondo in cui si fallisce per un lancio sbagliato. Aggiungiamo: non è più concepibile pensare a un prodotto tripla A che viva da sé, ossia con il sogno che faccia rientrare i costi di produzione e guadagni al lancio. Alcuni casi ci sono, ovvio, ma sono appunto casi e appartengono a serie ben impiantate nella cultura di massa, come quella Call of Duty o quella Grand Theft Auto, entrambe comunque obbligate dai tempi che corrono a dotarsi di un mercato interno e autosufficiente, che spinga i giocatori a spendere altri soldi oltre a quelli del titolo base, e che abbia prospettive economiche a lungo termine.
I videogiochi dovrebbero costare di più? Cerchiamo di scoprirlo in questo speciale
Echi e nebbie
Insomma, vi sarete resi conto che il discorso "prezzo dei videogiochi" è molto più complesso di quello che sembra e va a toccare dinamiche economiche spesso semplicemente ignorate dal pubblico (anche da molti specialisti del settore, a dirla tutta). L'industria dei videogiochi è ormai immersa nelle dinamiche comunicative necessariamente ipocrite proprie di ogni macro sistema, in cui le parole di realtà vengono sempre fraintese dal pubblico che, semplicemente, non le accetta.
Nessun publisher potrebbe uscire allo scoperto e affermare: "guardate che il prezzo base che vi facciamo pagare per l'acquisto di un videogioco tripla A è fin troppo basso, quindi tacete invece di starnazzare sui social di quanto siamo avidi ogni volta che pubblichiamo un DLC o che annunciamo un free-to-play. Siamo qui per guadagnare soldi, mica per pettinare bambole." Non potrebbe farlo perché, pur essendo semplicemente la verità, sarebbe linciato in pubblica piazza da un'utenza che nutre ancora l'infantile sogno degli anni d'oro del medium, in cui ci piaceva percepire il disinteresse dietro alle software house. Va detto cheil disinteresse economico non c'è mai stato, ma era più facile crederci perché i rapporti all'interno dell'industria erano meno mediati. Adesso tra la folla e il palazzo si è creata la nebbia, nebbia da cui esce solo ciò che il palazzo vuole. Nelle segrete stanze la ristrutturazione del mercato tradizionale dei tripla A viene data per scontata, come cosa in realtà già fatta. Non c'è stato bisogno dell'assenso del pubblico, che, anzi, con il tempo si è abituato a pagare di più, pura accorgendosene solo in parte. Basta osservare le attuali dinamiche di mercato, fuori dalla retorica delle magnifiche sorti e progressive, per rendersene conto. Inoltre, con l'invecchiare dei videogiocatori storici e l'arrivo delle nuove generazioni, quelli che oggi percepiamo come segni di decadenza diverranno la normalità. Presto ci sarà un videogiocatore che darà per scontate certe pratiche commerciali che molti di noi percepiscono come abusi. Così si chiuderà il cerchio e molte delle polemiche di questi ultimi anni diverranno l'eco di un incomprensibile vociare, di cui non si ricorderà davvero nessuno.