Ormai è passato quasi un mese da quando i Tale of Tales, studio di sviluppo formato dai due artisti Michaël Samyn e Auriea Harvey, hanno annunciato il loro abbandono del mondo dei videogiochi a causa dell'insuccesso commerciale di Sunset, la loro ultima opera.
Per molti le amare parole di commiato di Michaël Samyn, che ha lamentato il fallimento nonostante per Sunset siano stati seguiti tutti i crismi commerciali dettati dal manuale del bravo sviluppatore e il suo marketing sia stato affidato a un'agenzia di comunicazione professionale, sono risuonate come il de profundis per un'industria e un pubblico che non vogliono saperne di maturare e cercare delle alternative ai prodotti standard proposti dai grandi publisher. Sinceramente non vogliamo commentare il messaggio in sé. Semplificando possiamo riassumerlo come il classico lamento dell'artista deluso che si è visto rifiutato da un certo ambiente nonostante abbia fatto di tutto per entrarci e rimanerci. Fastidioso, ma lecito e in più di un senso comprensibile. Altrettanto francamente non vogliamo nemmeno fare quelli si atteggiano a profondi conoscitori del mercato e metterci a snocciolare i mille motivi per i quali il disastro economico dei Tale of Tales era abbastanza prevedibile. Al massimo possiamo spingerci verso una considerazione di massima su come abbiano interpretato ingenuamente il concetto di ciò che è commerciale e ciò che non lo è, perché se speravano di vendere centinaia di migliaia di copie con il racconto immaginario dei giorni di una cameriera di colore passati a servire nella casa di un ricco e misterioso uomo d'affari sud americano, all'epoca di una rivoluzione con forti richiami al golpe di Pinochet in Cile del 1973, solo per aver inserito un sistema di controllo stile sparatutto in prima persona, stavano davvero freschi.
Cosa hanno rappresentato i Tale of Tales per l'industria dei videogiochi? Scopritelo in questo speciale
La strada
Non fraintendeteci, perché Sunset ci è piaciuto davvero molto. Anzi, chi scrive è probabilmente uno dei massimi estimatori dei Tale of Tales in Italia. Questo però non toglie che c'era ben chiaro quale poteva essere il suo pubblico potenziale e che davamo per scontati i limiti del suo appeal per le masse: a prescindere dalla pubblicità, un gioco come Sunset devi sceglierlo e devi essere pronto ad accettarlo, non puoi aspettare che ti seduca all'acquisto, perché non riuscirà mai a farlo.
Quindi, nonostante le concessioni fatte a una concezione più mercantile del videogioco, da questo punto di vista Sunset non è molto diverso da un Bientôt l'été o da un Fatale, ossia ha comunque addosso quell'aura di forte sperimentalità che attrae pochi e respinge molti. Sinceramente, pensarlo come in competizione con un The Witcher 3 o un Batman: Arkham Knight, per fare due esempi di titoli tripla A molto recenti, ha poco senso. L'intera produzione dei Tale of Tales vive sull'emisfero opposto a quello dell'industria, un emisfero più freddo e brullo, sicuramente più spigoloso e difficile da vivere, capace di dare soddisfazioni solo a chi è disposto a compiere un certo sforzo per esplorarlo, abbandonando prima ogni pregiudizio.
Paradossalmente crediamo che se avessero speso una frazione di quanto investito in Sunset per un titolo sperimentale come The Graveyard, o come Luxuria Superbia, avrebbero comunque ottenuto risultati commerciali simili, perché il loro pubblico non cercava altro ed era portato ad accettare senza troppe discussioni i sistemi di controllo ameni e l'ermetismo concettuale dei loro giochi. Poco ci interessa anche della simpatia del duo, effettivamente discutibile (almeno in pubblico). Pensate che uno degli obblighi del buon Samyn per la campagna marketing di Sunset era il silenzio, ossia ha dovuto evitare le sue solite uscite da burbero sui social network, che già in passato gli avevano causato più di qualche screzio. Detto fra noi, Michelangelo era simpatico come una clistere caldo ma ha scolpito il David, la Pietà, il Mosè e ha affrescato la Cappella Sistina; Van Gogh era un orso, ma gli dobbiamo l'espressionismo (insieme a Cezanne), Stanley Kubrick sul set era un mostro (chiedetelo alla povera Shelley Duvall, la protagonista di Shining), ma ha realizzato alcuni dei più grandi capolavori della storia del cinema... Michael Bay invece è simpatico. Potete chiudere da soli il cerchio. Con questo non vogliamo sottintendere chissà cosa, ma solo dire che chi li giudica per il loro carattere è quantomeno superficiale.
L'eredità perduta
A interessarci maggiormente di tutta questa faccenda è la brutale conclusione di un'esperienza che ha dato tantissimo a tutta l'industria videoludica, ben oltre quanto è immediatamente visibile. Spesso i profeti del commercio non si rendono conto che ciò che vendono non è riassumibile nei loro fogli excel e contiene molto di più di quanto appare a uno sguardo superficiale.
Una qualsiasi opera nasce da un lungo e complesso processo di rielaborazione culturale, generalmente invisibile al fruitore finale. Vi suonerà strano, ma, nonostante lo scarso successo, l'eredità dei Tale of Tales è ritrovabile in una miriade di altri titoli, a partire da alcuni ultra commerciali come Uncharted 2, in cui la sequenza del villaggio tibetano è stata ispirata da The Graveyard, come ammesso dello stesso Richard Lemarchand di Naughty Dog. Ovviamente la si trova anche in videogiochi più attinenti e vicini allo stile dei due artisti, nonostante la maggiore fruibilità, come Dear Esther, The Stanley Parable, Journey e una miriade di altri che hanno abbracciato, completamente o in parte, il loro manifesto Notgames. Ad esempio, in quanti titoli si ritrovano le atmosfere di The Path o quelle di The Endless Forest? Quanti ne sono stati contagiati e hanno trovato il coraggio di esprimersi attraverso i videogiochi proprio grazie a loro? Non si tratta di una questione da poco, perché stiamo parlando di un humus di cui magari il grande pubblico vede solo dei pallidi riflessi che non sa neanche riconoscere, ma che comunque finisce per arricchire l'intera industria. Volendo fare un paragone azzardato, possiamo considerare i Tale of Tales e ciò che rappresentavano come una forma di scienza pura dell'industria videoludica, che di suo vive di scienza applicata.
La scienza pura non produce risultati facilmente commercializzabili, che d'altronde non sono il suo obiettivo, ma di fatto la scienza applicata se ne nutre. Insomma, la scienza applicata senza scienza pura, che è soprattutto fatta di costi (parlandone in termini economici), rischierebbe di fermarsi venendogli a mancare le basi su cui si regge. Ovviamente con l'uscita di scena dei Tale of Tales la sperimentazione videoludica non si ferma, ma è indubbio che ne esce impoverita o, peggio, ferita. Ed è qui che è giusto chiedersi come mai l'industria non trovi altro discorso da opporre ad avvenimenti del genere che quello commerciale. Sacrosanto e logico, certo: se non vendi il giusto per recuperare quanto hai investito fallisci; ma limitante in un quadro complessivo che miri a essere un pochino più lungimirante della prossima riunione con gli azionisti. Senza sperimentazione i mercati si chiudono in formule paludate che funzionano nel breve periodo ma che finiscono per soffocarli sulla lunga distanza. Con questo non vogliamo apparire apocalittici, ma solo affermare che sarebbe il caso di riflettere maggiormente sul concetto di standardizzazione e su come produca storture, anche economiche, non immediatamente afferrabili. Il rischio è di privare il pubblico del gusto del nuovo, formando generazioni di videogiocatori che appassiranno più velocemente delle vecchie, assuefatte a delle forme ludiche senza sbocchi.