I videogiochi non sono nati come promessa del racconto di una storia. Non che non possano farlo, perché la loro evoluzione ha dimostrato il contrario. Se dovessimo riassumere l'intero medium videoludico in una formula, lo definiremmo come un modo per entrare direttamente in quelle storie che per anni sono state soltanto narrate. Gli alieni minacciano la Terra? Space Invaders non ci chiedeva soltanto di seguire il racconto di come potevano essere respinti, ma ci dava i mezzi per farlo. Mezzi in buona parte simbolici, ma diretti, con soltanto la mediazione dell'immaginario degli sviluppatori a fare da barriera e da porta d'ingresso. Se ci pensate bene, il medium videoludico è la storia della rifinitura di questo concetto: ossia è lo sviluppo di un discorso simbolico sempre più complesso che rende la rappresentazione a schermo sempre più convincente. Qualcuno potrebbe obiettare che l'aumento della verosimiglianza è corrisposta a un impoverimento del ruolo del fruitore, ma questo discorso ce lo lasciamo per un altro articolo. L'importante è che sia chiaro il discorso di fondo: i videogiochi nascono con una potenzialità specifica, mai avuta da altri medium: far provare una vita altra da sé. Oppure, quantomeno, persuadere di stare vivendo un'altra vita.
Perché Metal Gear Solid V: The Phantom Pain vi piacerà proprio se non siete fan di Hideo Kojima?
Amore o no?
Chiariamo subito: chi ha scritto questo articolo non è un grande estimatore di Hideo Kojima, nonostante abbia giocato quasi tutti i Metal Gear, compresi quelli per MSX. Non è assurdo come sembra, perché riteniamo che per definirsi conoscitori dei videogiochi occorra seguire o recuperare alcuni titoli e autori a prescindere dai propri gusti e Kojima è tra questi. No, non basta giocare. Le critiche che possiamo muovere al game designer giapponese non sono molto originali, rispetto a quelle medie che potete trovare in giro per la rete. In realtà non consideriamo troppo corretto additarlo negativamente per l'eccesso di narrazione presente in alcune sue opere, come Metal Gear Solid 2 (per fare l'esempio più eclatante). Se pensiamo ad alcuni generi videoludici provenienti dal Giappone, come le visual novel, è chiaro qual è il filo che ha seguito in alcuni dei suoi titoli più noti, nonostante la maggiore ricchezza di mezzi. Kojima ama raccontare storie seguendo una precisa tradizione del suo paese, che ritroviamo in alcuni generi poetici e letterari, oltre che teatrali. Sarebbe interessante collegare alcuni celebri titoli proveniente dall'arcipelago del Sol Levante ai canoni del teatro Nō, ma se volete possiamo farlo in un altro speciale (e sono due). Accontentiamoci quindi di rilevare che ciò che ad alcuni sembra un assurdo eccesso di verbosità o, meglio, di cinematograficità, un suo senso ce l'ha, ed è anche molto profondo. Rimane in parte valida la critica che il buon Hideo sembra a volte voler fare film, più che videogiochi... anche perché affermò anche lui qualcosa di simile qualche anno fa. Detto questo, ossia stabilito che c'è una discreta comprensione dei suoi intenti autoriali, chi scrive ha molti motivi per non amare i suoi giochi. Alcuni trovano fondamento nella sopravvalutazione del Kojima game designer, i cui meriti sono stati spesso esaltati proprio in virtù del suo modo di raccontare storie. Ad esempio il gameplay di Metal Gear Solid aveva più a che fare con i titoli per MSX che con i moderni stealth, inventati da Thief: The Dark Project di Looking Glass prima, e massificati dalla serie Splinter Cell di Ubisoft poi. Kojima aveva semplicemente preso alcune meccaniche già sperimentate nei giochi 2D e le aveva arricchite a dismisura incastonandole in una cornice tecnologica e narrativa di altissimo livello. Sia chiaro che non vogliamo ridurne i meriti, ma soltanto inquadrarli meglio, contestualizzandoli in un discorso più generale che esuli dal solo quadro del mondo console e abbracci il mondo dei videogiochi nel suo complesso.
Meccaniche raffinatissime
Da questo punto in poi faremo riferimenti diretti e molto espliciti alla trama di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, svelandone alcune parti. Se non volete avere anticipazioni, non proseguite nella lettura.
Probabilmente molti scettici rispetto alla figura autoriale di Kojima condivideranno le nostre parole. È proprio per questo che consigliamo loro di giocare Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, dove il "tocco Kojima" è più un disturbo che un'incombenza vera e propria. Chi scrive ha finito il quinto Metal Gear Solid spendendoci sopra più di settanta ore e non rimpiange un momento passato in Afghanistan o in Africa in compagnia di Snake o chi per lui. Il ritardo con cui esprimiamo il nostro punto di vista serve a togliere di torno il pregiudizio di farlo per seguire una certa moda o la scia creata dal lancio del gioco.
La polvere si è ormai posata e possiamo parlarne serenamente. La storia di The Phantom Pain non ci è piaciuta. Anzi, a ben vedere la consideriamo inadeguata in più parti, iniziando dall'assurdo modo in cui è stata gestita la questione del virus alle corde vocali, per arrivare a come sono state annodate tutte le storie. Non parliamo poi del finale tronco, rappresentazione plastica della morte di un certo modo di intendere i videogiochi, non più supportato dall'industria dei tripla A. Proprio per questo però, consideriamo il quinto Metal Gear Solid a suo modo un capolavoro, unico della serie a non volere o riuscire a celare la sua natura. Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è un videogioco nel senso più alto del termine. Lo è perché offre una quantità di meccaniche rifinitissime introvabili altrove. Lo è perché l'intero tessuto del gioco permette al giocatore una libertà di approccio impressionante. Lo è perché alle meccaniche d'azione sono state collegate un'enorme quantità di meccaniche di contorno che non si subiscono come un peso, ma risultano un arricchimento (a parte qualche spigolatura). Lo è anche perché ci tiene a chiarire in ogni modo che quello che ci viene narrato conta poco o nulla. Se avete visto il finale saprete che la vera storia è altrove. Quello che viviamo nel gioco è soltanto una cortina fumogena, l'illusione di essere un personaggio che in realtà non siamo. Non si tratta solo di un assunto tematico, ma di un vero e proprio assioma: tu sei il protagonista, ma nello stesso tempo non sei nessuno. Stai giocando, tutto qui. Il vero The Phantom Pain non ci viene narrato dalle cutscene, ma dal suo gameplay, che ci rende partecipe della natura meccanica del medium videoludico, piazzandoci ad esempio la ripetizione a difficoltà estrema di alcune missioni già vissute insieme a quelle principali e relegando la trama a un miscuglio disordinato di missioni secondarie ed eventi improvvisi, fino al finale che "selezioniamo", rivivendo l'introduzione al netto delle bugie che ci sono state raccontate fino a quel momento. Rigiochiamole quelle missioni. Sono davvero ripetute? Oppure le varianti contro le quali ci troviamo a combattere le rendono diverse da ciò che abbiamo già fatto?
Fine della regia
Insomma, Metal Gear Solid V è da apprezzare perché ci racconta di un virus creato da un indiano americano appassionato di Hamburger? Oppure perché per liberare un nostro compagno ci siamo infiltrati in una base afghana costruita su una parete di roccia, strisciando tra nemici e edifici per non farci scoprire?
Dobbiamo amarlo per la sciocca spiegazione della nudità di Quiet, o perché con la pratica siamo riusciti a ripulire un intero villaggio africano da un gruppo di guerriglieri? Insomma: dobbiamo amarlo per ciò che ci racconta, o per ciò che ci permette di essere, grazie alle sue meccaniche? I fan di Kojima sono stati delusi dal finale, ma a quanto pare non si sono resi conto di quanto quel finale fosse necessario per rivelare la vera natura del gioco e la pessima regia che lo caratterizza. Sì, perché in un videogioco la "regia" non è la scelta delle inquadrature con cui mostrare l'azione, ma la creazione di una tessitura ludo-narrativa che determina il gameplay nel suo complesso. Quindi regia non è solo il lungo piano sequenza nel finale del primo capitolo in cui Skull Face unisce i puntini dell'intera trama, ma anche la pessima decisione di spezzare in due alcune missioni, permettendo a Snake di andarsene in giro a fare altro nel mezzo di un climax narrativo. L'esigenza è chiara: si tratta di scontri difficili e il videogiocatore potrebbe non essere preparato ad affrontarli, se ha corso per risolvere le missioni principali. Il problema vero è però più sibillino e ci ribadisce lo stesso compromesso emerso per il finale tagliato: non avendo il controllo dell'intero gioco, Kojima e i suoi hanno dovuto ripiegare su soluzioni di compromesso, che da una parte ci mostrano quanto sia difficile tenere in mano la narrazione dando libertà al giocatore, dall'altra quanto Metal Gear Solid V: The Phantom Pain non avesse bisogno della sua storia per essere grande, con buona pace sua e dei fan a lutto.