C'è un tacito e implicito accordo tra artisti e pubblico che esiste da quando è nata l'arte nella sua accezione più ampia: l'uno non deve entrare nel recinto dell'altro. Il pittore dipinge e il pubblico giudica il dipinto. Può criticarlo, anche aspramente, può chiedere un certo soggetto in caso di committenza, ma non può prendere il pennello e modificarlo. Farlo sarebbe un atto di grande arroganza e finirebbe per danneggiare entrambi i soggetti. Nemmeno un Papa fu così sconsiderato da pretendere di sostituire Michelangelo mentre dipingeva la Cappella Sistina. I due discutevano, anche aspramente, ma i loro ruoli erano chiari e ben distinti. Ovviamente il principio non si applica soltanto alla pittura, ma a ogni forma espressiva conosciuta, videogiochi compresi. Certo, nella storia non sono mancati esempi di ingerenze inopportune da parte del pubblico e spesso la critica per uno spettacolo pessimo, o ingiustamente ritenuto tale, è trascesa in manifestazioni rabbiose e violente. Il confine tra i due mondi non è però mai stato superato o messo in discussione, almeno fino a oggi.
Il rapporto tra fan e autori sta diventando sempre più malato, cerchiamo di capire i danni che comporta
Il mondo che cambia
Internet ha messo in contatto diretto autori e fruitori, semplificando i modi di accesso ai contenuti e rendendo vago il limite tra la legittima critica e l'usurpazione. Questo vale in tutti gli ambiti, compreso quello dei videogiochi.
Pensiamo a come funzionava qualche anno fa il mercato: chi voleva un videogioco doveva per prima cosa apprenderne dell'esistenza da una delle poche fonti disponibili: riviste, amici e negozi. Una volta acquistato, spesso quasi alla cieca (una bella copertina, un commento entusiasta di un conoscente, nei casi più ottimisti una buona recensione), le possibilità di esserne delusi era altissima. C'era un maggiore spirito di adattamento, vero, ma le informazioni a disposizione erano così rarefatte che era difficile essere certi di ciò che si stava prendendo. In caso il gioco non piacesse, cosa si poteva fare? Nulla. Se non funzionava si riportava al negozio, altrimenti ci si giocava comunque. L'unica valvola di sfogo erano i soliti amici o una bella lettera scritta a mano e spedita per posta a una qualche rivista, con la speranza della pubblicazione due mesi dopo. La situazione odierna la dovreste conoscere bene: i giochi si possono avere nel momento esatto in cui vengono pubblicati e il loro lancio è spesso preceduto da anteprime, provati, filmati, interviste e quant'altro. Anche se la gestione delle informazioni è gestita in buona parte dai publisher, unici ad avere in mano il materiale da mostrare alla stampa, quindi al pubblico, sono rari i casi in cui con non ci si riesce a fare un'idea abbastanza precisa di cosa si andrà ad acquistare. I social network hanno inoltre reso possibile un contatto più diretto e immediato con i team di sviluppo, che spesso dialogano con il pubblico di caratteristiche e questioni tecniche, fornendo informazioni che anni fa ci saremmo sognati di poter avere fino al lancio. Sembra uno scenario idilliaco, vero? E allora come mai sempre più spesso il confine di cui parlavamo sopra viene annientato da manifestazioni di rabbia collettiva incontrollabili verso giochi che si rivelano essere deludenti, nonostante se ne sapesse praticamente tutto? Perché sempre più spesso il rapporto diretto diventa un incubo da cui è possibile uscire solo alzando barriere invalicabili con l'utenza, cercando cioè di sterilizzare il dialogo? Infine, perché è ormai quasi la regola che il pubblico voglia mettere bocca nel processo creativo, alterando le opere finite, con risultati mediocri e a volte insensati?
Torce e forconi
Dell'argomento hanno recentemente parlato il disegnatore Joss Whedon e il disegnatore/scrittore Neil Gaiman al recente ComicCon di San Diego, dove hanno notato come molti artisti abbiano deciso di abbandonare i social network in seguito a problemi avuti con il pubblico. Pensiamo ad esempio a Leslie Jones, una delle protagoniste del nuovo Ghostbusters, o a Whedon stesso. È proprio dalle motivazioni della fuga di Whedon che è nato quest'articolo. Ad averlo offeso non sono state tanto le critiche, quanto la pretesa dei fan di calarsi nel ruolo di autori per indirizzare le sue scelte.
Non si può creare dovendo seguire gli umori della massa, che ritiene sue le opere di cui fruisce, anche per colpa di una certa retorica dell'industria dell'intrattenimento che mira da anni a vendergli ogni peto colorato come un'esperienza unica, quando nella realtà dei fatti si tratta soltanto di cattiva digestione. Ma non allontaniamoci troppo dal tema e torniamo sul nostro problema, lanciando nel mucchio una domanda: è giusta la pretesa del pubblico di considerare suo ciò di cui fruisce? Se negli ultimi mesi non siete "andati a comandare", conoscerete sicuramente alcuni celebri casi di ingerenze che hanno sorpassato il limite: fumettisti linciati per una storia ancora incompiuta (il rilancio di Capitan America); strepiti contro una copertina di Spider-Woman disegnata da Milo Manara con accuse grottesche fatte da incompetenti; film massacrati e sbeffeggiati per via della scelta del sesso delle protagoniste (Ghostbusters); videogiochi distrutti per un paio di battute su migliaia di altre (Baldur's Gate: Siege of Dragonspear) e così via. Nel nostro ambiente fu particolarmente sentito e a posteriori dannosissimo, il caso del finale di Mass Effect 3, fatto cambiare a colpi di lamentele dei fan, trasformatesi in un'onda incontenibile di odio. Se ricordate la situazione divenne grave al punto che BioWare fu costretta a riscriverlo, per cercare di placare la ferocia che gli stava piovendo addosso in diverse forme. C'è chi addirittura arrivò a scrivere il suo finale alternativo pretendendo che il team di sviluppo lo implementasse. Voci accreditate vogliono che fu per la rabbia mostrata verso Mass Effect 3 che Valve ha bloccato lo sviluppo di Half-Life 3. Il rischio, nel caso in cui la conclusione delle vicende di Gordon Freeman non fosse piaciuta, era che anche Steam, il negozio digitale di Valve, rimanesse coinvolto nell'ondata di rabbia che ne sarebbe susseguita. Neil Gaiman ebbe a dire sull'argomento, già nel 2009, con un lungo post sul suo blog, di cui rimane la celebre affermazione: "George R.R. Martin is not your bitch." (traduzione: "George R.R. Martin non è la vostra puttana.")
Si trattava di una frase a effetto che faceva parte di un ragionamento più ampio, legato a una domanda precisa: "Quando si scrive una serie di libri, come Martin con Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, quali responsabilità si hanno di concludere la storia? È irrealistico pensare che non scrivendo il capitolo successivo Martin mi stia abbandonando, anche se il quando e il come lo farà spetta solo a lui deciderlo?" La risposta a Gaiman il pubblico l'ha data qualche anno più tardi, quando la serie televisiva Il Trono di Spade, tratta dalla saga di Martin, ha superato i libri. Alcuni si sono lamentati dell'infedeltà ai testi, altri hanno però affermato che siccome la serie è arrivata prima, allora il vero proseguo della storia è quello. Martin in sostanza non è più proprietario del suo mondo e, anzi, ne è diventato l'usurpatore. Nei fatti non è così, ma i fatti poco contano quando ci sono di mezzo le aspettative collettive. Qualcosa di simile è successo anche a George Lucas, aspramente criticato per aver toccato l'ultimo film di Star Wars, Il Risveglio della Forza. Lui ha venduto/tradito quell'universo che ora è diventato proprietà di Disney e del pubblico: non si azzardi più a metterci bocca!
Conformismo
Il pubblico per sua natura è conservatore e conformista. Più è numeroso e più tende ad appiattire le aspettative e le reazioni. Facciamo un salto e andiamo a un concerto che ha fatto il pieno di gente. Il pubblico si affolla nella platea in preda a una grossa eccitazione per l'imminente spettacolo. Inizia lo show e l'adrenalina inizia a pompare nei corpi. L'esaltazione individuale viene alimentata da quella collettiva. Da una parte c'è il cantante, dall'altra il pubblico. Arriva il momento del brano più celebre dell'artista, quello che lo ha reso famoso. Il pubblico lo canta in coro. Ora, se ci astraiamo un attimo, blocchiamo la scena e ci mettiamo a pensare alla folla come alla somma dei suoi individui, possiamo ipotizzare che ogni persona che la compone abbia i suoi motivi per amare quel brano e abbia dei ricordi legati a esso. C'è chi si sarà fatto trascinare dalla moda, chi lo avrà reso la colonna sonora di una sua storia d'amore, chi lo collega a una serata tra amici particolarmente riuscita e così via. Insomma, ognuno ha le sue motivazioni per amarlo o anche odiarlo, motivazioni che però vanno completamente perse nella folla. La folla unifica le reazioni. L'artista dal palco non può percepire le singole motivazioni, ma soltanto una forte eccitazione collettiva dentro cui si perde tutto il resto.
È inevitabile che sia così e in un certo senso positivo, perché crea un'armonia completa tra ciò che avviene sul e sotto il palco. Ora, rapportiamo il tutto con quello che avviene su internet quando al pubblico non piace qualcosa verso cui aveva grosse aspettative e pretende che sia modificata. Quello che si crea non è un dialogo, magari anche acceso, tra due soggetti intelligenti. Chi riceve l'ondata collettiva di lamentele non le percepisce come critiche, ma le subisce in modo indistinto, percependole come un'unica, immensa massa d'odio (gli americani parlerebbero di tossicità). Torniamo al nostro concerto e immaginiamo che l'artista scelga di non suonare il suo brano più celebre, indisponendo il pubblico. Il "brano celebre" rappresenta un momento fortemente catartico di ogni concerto, uno di quelli che si attendono per poter "esplodere", in senso figurato ovviamente. Il brano celebre chiede che si canti a voce più alta, che si tenda maggiormente il corpo, che, insomma, si manifesti una maggiore partecipazione emotiva, con relativa dissipazione di energia. Il brano celebre è il climax, l'orgasmo, il momento per cui si è pagato il biglietto del concerto. Non si spendono decine di euro per ascoltare degli inediti, a meno di casi e persone particolari, ma per partecipare a un rito collettivo consolatorio, di cui possiamo ignorare lo svolgimento superficiale (ordine dei brani, scenografia e così via), ma di cui pretendiamo che sia sempre mantenuta una certa struttura profonda. Le aspettative disattese creano insoddisfazione. Una messa richiede la remissione dei peccati e la promessa di vita eterna, perché solo di fronte alla salvezza si riescono ad accettare dei precetti che limitano la nostra natura. Così l'arte promette una soddisfazione che il pubblico pretende di avere e che dà assuefazione. La moderna industria dell'intrattenimento non ci ha resi più coscienti del suo funzionamento, ma ci ha trasformati in tossici della fuga dalla realtà che devono consumare ogni prodotto in modo compulsivo, ogni volta come se fosse l'ultimo, ma sempre con un occhio puntato al prodotto successivo. Ne è conseguito che le delusioni si trasformano in forme violentissime di astinenza, e l'artefatta eccitazione che ci governa muta immediatamente in una rabbia improvvisa, opportunistica e incontrollabile. Per accorgersene basta osservare gli eccessi del linguaggio che adoperiamo per descrivere un singolo videogioco in contesti non formali: o è un capolavoro assoluto e intoccabile, o è, scusate l'espressione, merda che non merita di essere toccata neanche con un bastone. Non ci troviamo di fronte a due diverse valutazioni, ma a una bieca forma di tifoseria.
Il gioco delle parti
La radicalità e la violenza delle reazioni finisce per influenzare tutto: crea mostri, normalizza i processi creativi e apre sempre più spesso la porta a ingerenze esterne. Le opere finiscono per essere plasmate in base alle aspettative del pubblico, malate di un conformismo peloso e senza scampo, con le produzioni terrorizzate dal commettere ogni passo falso e gli autori repressi e privati di ogni possibilità di sperimentare. La paura è che quel pubblico sovreccitato decida di mettere bocca sulla creazione, la pretenda come sua per il solo fatto di consumarla e richieda la distruzione di tutto ciò che non accetta.
Insomma, il pubblico deluso ormai può salire sul palco, imprigionare e picchiare il cantante e costringerlo a eseguire il brano celebre tanto atteso, pur non previsto. In fondo ha pagato per la sua dose di eccitazione quotidiana, quindi la pretende. Nel caso il cantante si rifiuti, è il pubblico stesso che si mette a cantare, magari cambiando anche qualche parola, partendo dalla pretesa che ormai quel brano è diventato suo. Negli anni abbiamo visto intere serie cancellate o mutate a seconda della rabbia popolare. Ormai basta anche solo un piccolo fraintendimento per scatenare l'ira sui social network e l'influenza di questa modalità di interazione tra pubblico e autori è diventata palese nelle produzioni maggiori, sempre più anestetizzate e appiattite verso modelli mediocri e convenzionali, che hanno l'indubbio vantaggio di limitare i rischi. Chiediamoci come mai sempre più spesso gli autori fuggono dai social network e si rintanano nella loro privatezza, limitando i contatti con il pubblico, diventato un dittatore che non accetta dei no come risposte e che manda a morire chi non si adegua al suo punto di vista. Insomma, molti di quelli che pretendono di essere Van Gogh, pur non avendo mai toccato un pennello, nei fatti somiglia più a Kim Jong-un, con tutto ciò che ne deriva. In questo modo si finisce anche per perdere quanto di buono può nascere dal dialogo tra autori e pubblico, lì dove alcuni desideri vengono espressi in forma legittima e diventano forme di rilancio o di miglioramento. Basti pensare al proficuo dialogo che spesso nasce tra studi di sviluppo e pubblico su piattaforme come Kickstarter, con casi come Pillars of Eternity o Wasteland 2 a fare da testimoni degli ottimi risultati che si possono ottenere.