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Corto è bello

Siamo proprio sicuri che un gioco breve sia da considerarsi automaticamente peggiore di uno che duri in eterno?

SPECIALE di Rosario Salatiello   —   19/02/2017

Valutare un gioco in base alla sua durata è un meccanismo che fa parte del nostro giudizio su di esso, da qualche tempo a questa parte con maggior peso rispetto al passato. Si tratta di un parametro che merita sicuramente la sua importanza, soprattutto quando come in casi tipo The Witcher 3: Wild Hunt la lunghezza riesce ad andare di pari passo con la qualità. Ma se il titolo targato CD Projekt può fregiarsi dello status di capolavoro, lo stesso non si può dire purtroppo di altri videogiochi, che a volte pur di soddisfare la sete di ore giocate dei videogiocatori tendono ad allungare decisamente troppo il brodo. Imparare a mettere da parte la superficialità di un giudizio basata solo su un numero di ore è un qualcosa che più o meno tutti dovremmo imparare, perché di motivi per farlo ce ne sono.

Coi dovuti accorgimenti, un gioco breve può durare anche più di uno da 100 ore: ecco come!

Chi finisce i giochi lunghi?

Come già accennato, siamo ormai portati a valutare i giochi in base alla loro durata secca, arrivando nei casi limite a considerarla da sola come fonte di un prodotto di qualità o viceversa scadente. Ma non dovremmo essere così affrettati, se poi all'atto pratico non riusciamo realmente a finire i titoli che acquistiamo. Un talk proveniente dalla GDC 2014 ci offre dati molto interessanti in tal senso, rivelando per esempio che solo il 47% dei giocatori ha portato a termine Batman: Arkham City (circa 20 ore) e Portal 2 (circa 13 ore). Numeri importanti, dai quali possiamo evincere che in generale più o meno la metà di chi compra un gioco riesce poi a portarlo a termine, anche quando la durata non è poi così elevata.

Corto è bello

Guardando le cose da questo punto di vista, proprio la durata può anzi diventare un vero e proprio ostacolo: Mass Effect 2 (circa 35 ore) riesce perlomeno a far leva sulla trama per superare il 50% di giocatori che hanno visto la sua fine, ma il terzo capitolo della saga BioWare finisce invece per scendere al 42%. Il crescere dell'importanza data alla durata secca ha contribuito alla diffusione negli ultimi anni dei giochi di tipo open world, facili da pubblicizzare e vendere puntando su tempi di gioco in grado di sorpassare, e anche di parecchio, le 100 ore. Le statistiche su titoli del genere sono abbastanza impietose, ma in base a quanto detto finora non ci stupiscono: la linea di quest principale di Skyrim è stata conclusa solo dal 32% dei giocatori, mentre dando un'occhiata agli obiettivi su Steam la scena finale dello stesso The Witcher 3: Wild Hunt citato in apertura è pari al 26%. Quando dobbiamo comprare un gioco siamo dunque portati a selezionare in modo affannoso qualcosa che garantisca un impegno prolungato, ma poi è meno della metà di noi a essere in grado di garantire questo stesso impegno. Dietro a tutto questo c'è spesso la voglia di giustificare un esborso che può arrivare a toccare anche i 70 euro, ma allora perché quando andiamo al cinema non facciamo lo stesso ragionamento? Considerando che per 10 euro ci vengono offerte quando va bene 2 ore di film, in rapporto questo vuol dire che un gioco di 70 euro dovrebbe durare non più di 14 ore. Un tempo di gioco ormai da molti considerato breve.

Valore aggiunto

Stabilito che la larga maggioranza dei videogiocatori non sembra avere a disposizione il tempo necessario per completare i titoli più impegnativi, per giustificare un investimento importante bisogna dunque andare alla ricerca di altri fattori.

Corto è bello

Sia per chi i gioca li compra che per chi li crea, perché altrimenti il rischio diventa quello di inciampare su sé stessi come ha fatto Metal Gear Solid V. Nell'ultimo capitolo della saga partorita dalla mente di Hideo Kojima, per assicurare qualche ora di gioco aggiuntiva sono state introdotte missioni ripetitive e slegate dal contesto narrativo, con unico apparente scopo quello di allungare il brodo di cui parlavamo in apertura. Non è poi detto che una durata elevata sia un elemento positivo per tutti i giocatori, e in base ai dati riportati nel paragrafo precedente siamo portati a pensare che questo ragionamento non sia legato solo ai cosiddetti casual gamer. Per chi ha meno tempo a disposizione, 10-15 ore di gioco possono rappresentare la lunghezza ideale che permetta di non lasciare le cose a metà. Ma non è solo questo a farci rivalutare una durata contenuta, visto che meno ambienti e meno situazioni da ricreare in gioco può avere più possibilità di tradursi in un prodotto di qualità, in cui appaiano allo stesso tempo meno ripetizioni e una maggiore attenzione per i dettagli. Mettendoci nei panni di chi sviluppa videogiochi, a questo punto bisogna però pensare anche a chi invece chiede un numero di ore elevato, potendo dedicare all'attività videoludica una quantità importante del proprio tempo. In che modo si può riuscire, dunque, a conciliare le esigenze di tutti quanti, assicurando al tempo stesso un'esperienza di valore, che abbia qualità e non scada nella ripetitività? Per fortuna, qualcuno si è già posto la domanda venti anni fa.

La lezione di Resident Evil

Anche se la serie Resident Evil è anch'essa inciampata in un sesto capitolo troppo stiracchiato, per fortuna con Resident Evil 7 siamo tornati ai tempi dei primi capitoli. Questi ultimi sono forse i migliori esempi di come si possa dare valore aggiunto a un gioco che non è dotato di una straordinaria durata, almeno per come ci siamo abituati a intenderla negli ultimi anni.

Corto è bello
Corto è bello

Sfruttando (e risfruttando) la qualità realizzativa dell'esperienza alla base, Resident Evil ha tradizionalmente offerto ai giocatori ottimi motivi per rivivere più di una volta un'avventura che in termini di durata pura non andava oltre le dieci ore. Il primo capitolo ci metteva davanti a diversi finali, ma il lavoro migliore in tal senso è stato fatto con Resident Evil 2. Il secondo episodio subordinava infatti il vero finale al completamento del gioco sia nei panni di Claire che in quelli di Leon, che ci portavano ad attraversare dinamiche e ambientazioni molto simili tra loro. Lo facevano presentando qualche differenza anche sostanziale, d'accordo, ma l'esperienza alla base restava la stessa. Nessuno di noi può però dire di essersi annoiato nel farlo all'epoca, ma anzi per molti il cambio di prospettiva offerto dal titolo uscito nel 1998 è stato uno dei fattori chiave verso il suo successo: in quanti saprebbero apprezzarlo al giorno d'oggi, senza accusare Capcom di riciclo? La serie Resident Evil ha inoltre saputo fare leva su un elemento alla base del videogioco: la sfida. Quando gli speedrun su YouTube ancora non esistevano, Resident Evil 2 incoraggiava per esempio i giocatori a provare a completare l'avventura in meno di due ore e mezza e senza salvataggi, offrendo una nuova adrenalinica esperienza. A quel punto si sbloccava il lanciarazzi a munizioni infinite, con conseguente nuovo incentivo a tornare ancora una volta in quel di Raccoon City per sfruttare la nuova potentissima arma e trasformare un'esperienza survival horror in uno shooter dove far saltare in aria zombi come popcorn. Un concetto ripreso anche da Resident Evil 7, alla fine del quale è possibile sbloccare la speciale pistola Albert, nettamente più efficace rispetto a quella normale e quindi in grado di allentare un po' la tensione per garantire un'esperienza che nel suo tendere verso il "God mode" meriti di essere rivissuta. Aggiungere idee che aumentino la rigiocabilità di un gioco può dunque rivelarsi più efficace rispetto all'introduzione di elementi che ne estendano la durata, spesso ripetitivi. L'unica condizione è che il prodotto che c'è alla base possa avere dalla sua una forza che solo una qualità elevata può garantire.