Aprile del 2025 è stato un mese reminiscente del fenomeno "Barbenheimer", perché numeri alla mano l'attenzione del pubblico si è egualmente divisa fra il ritorno in grande stile di The Elder Scrolls IV: Oblivion e l'esordio col botto di Clair Obscur: Expedition 33. Due videogiochi che, nonostante facciano parte d'ispirazioni creative totalmente agli antipodi, trovano un punto d'incontro in una particolare caratteristica: se da una parte la Remastered firmata Bethesda Game Studios e Virtuos è un vero e proprio tuffo nella settima generazione dei giochi di ruolo all'occidentale, l'avventura di Sandfall Interactive è invece figlia della tradizionale filosofia dei JRPG ad elevatissima fedeltà grafica, quella che solo Final Fantasy ha incarnato durante le generazioni PlayStation e PlayStation 2.
In sostanza, due formule da gioco di ruolo con radici piantate nel passato stanno monopolizzando l'attenzione del pubblico contemporaneo e sono state entrambe portate in trionfo dai rispettivi appassionati. In un'altra linea temporale sarebbe il caso di rimanere sorpresi, nella nostra si tratta di una situazione che sta diventando un'eloquente normalità. Come già accaduto con Baldur's Gate 3 e i CRPG, con Path of Exile e gli aRPG e in diverse altre occasioni, le produzioni che hanno scelto di rivolgersi specificamente all'audience di riferimento stanno lasciando un segno, mentre quelle che hanno tentato di cambiare faccia per abbracciare un pubblico diverso stanno facendo molta fatica a raggiungere l'assestamento. Che cosa sta succedendo? I videogiocatori sono all'improvviso diventati tutti boomer oppure c'è qualcosa di più profondo che è cambiato nel corso degli anni?
"I videogiochi... I videogiochi cambiano sempre"
I videogiochi cambiano costantemente. Probabilmente non esiste esempio più azzeccato per discutere tale processo di trasformazione che la saga di The Elder Scrolls, un'epopea che questa metamorfosi l'ha vissuta sin dall'istante della sua creazione. Nel 2006 i veterani di Morrowind hanno sofferto tantissimo il cambio di paradigma portato da Oblivion, dopodiché i veterani di Oblivion hanno dovuto incassare la forte semplificazione portata da Skyrim, infine i figli di Skyrim si sono a loro volta trovati a criticare diversi titoli recenti di Bethesda Game Studios, proseguendo l'annosa tradizione. Eppure, nonostante questo continuo rumore di fondo, nel corso del tempo la compagnia di Todd Howard ha dimostrato di avere spesso ragione riuscendo a incrementare continuamente la sua fetta di mercato, almeno finché il meccanismo non ha iniziato a rallentare.
È estremamente difficile tracciare una linea di demarcazione oltre la quale una formula videoludica arriva a sacrificare parte dei suoi pilastri nel tentativo di crescere, anche perché ogni appassionato tenderà a tracciare quella linea in una posizione molto personale. Per me, per esempio, è successo con Fallout 4: la scelta di offrire due protagonisti ben definiti, quella di doppiarne la voce e sfruttare una semplice ruota delle risposte, soprattutto quella di scommettere sul sistema di costruzione degli avamposti, sono state davvero molto difficili da mandare giù. Tuttavia, qualche anno prima avevo accolto positivamente la nuova struttura di Skyrim e la banalizzazione delle meccaniche da RPG che si portava appresso, cosa che invece era risultata a dir poco imperdonabile per altri veterani della saga di The Elder Scrolls.
La sfida più grande che gli sviluppatori di videogiochi AAA si sono trovati ad affrontare è stata quella di riuscire a incrementare la mole di pubblico per rispondere ai cambiamenti del mercato, portando ventate di freschezza che in certi casi si sono rivelate davvero molto efficaci. Un esempio emblematico è quello di Elden Ring, che ha segnato il culmine del processo di massificazione di FromSoftware attraverso l'adozione della struttura a mondo aperto e altre limature, riuscendo a moltiplicare i numeri delle vendite senza deludere i fedelissimi della prima ora. Lo stesso discorso vale per Monster Hunter World, per The Witcher 3: Wild Hunt, per Super Smash Bros. Ultimate, per tanti altri titoli molto diversi fra loro che sono stati in grado di ampliare la base installata apportando leggere modifiche che hanno preservato l'identità originale.
Il problema è che, al di fuori delle mosche bianche, molte delle IP che hanno cercato di reinventare la ruota sono quantomeno scivolate nel processo. Si potrebbero fare esempi molto inflazionati come quelli di Dragon Age e Mass Effect, ma merita attenzione anche l'esperimento open world di Halo Infinite, o ancora l'onnipresente serie di Final Fantasy che ha vissuto un trend negativo nei numeri delle vendite, per restare nell'orbita delle sole serie pluridecennali. A preoccupare, tuttavia, è ciò che è accaduto fuori da quell'orbita, perché nell'ultimo lustro il pubblico vocale ha lamentato sempre più spesso una banalizzazione delle formule dei videogiochi, un abbassamento della qualità dei sistemi, soprattutto la perdita di contatto fra i grandi publisher e gli appassionati, al punto tale da animare moti così estremi da risultare indifendibili.
Il ritorno di Oblivion, l'evoluzione e l'involuzione degli RPG
La pubblicazione di The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered ha messo nero su bianco il grande dilemma dell'industria AAA: ricevendo questa edizione l'utenza si è spaccata esattamente a metà, separando da una parte le persone che non vedevano l'ora di tornare a esplorare Cyrodiil con tutte le tradizionali limitazioni del caso e dall'altra coloro che ormai lo vedono come un fossile decadente. Ciò detto, in questo caso il brusio di fondo è stato costretto a piegarsi di fronte all'impatto della pubblicazione, perché l'opera è riuscita a raggiungere oltre 4 milioni di giocatori nell'arco di una manciata di giorni e ha riportato l'Eroe di Kvatch al centro della discussione internazionale.
Lasciando per un attimo le sponde di Tamriel, la pubblicazione di Kingdom Come Deliverance 2 di Warhorse è stata accompagnata dalla celebrazione - sia sul fronte della critica sia su quello del pubblico - del grande ritorno della filosofia tipica dei giochi di ruolo della vecchia scuola, quelli radicati nella simulazione di un mondo realistico e nella coerenza della vita che si svolge all'interno dei suoi confini. Una formula che era sparita davvero da troppi anni dai radar dell'industria e che sembrava esser stata bollata dai publisher AAA come troppo complessa da costruire, destinata a una nicchia troppo piccola di utenti, troppo poco chiara nell'esposizione per un pubblico di massa che è stato per lungo tempo accarezzato con guanti di seta.
Il recente caso della vernice gialla utilizzata per suggerire il percorso corretto, le lunghe liste di obiettivi da completare, la riduzione ai minimi termini dei meccanismi di scelte e conseguenze impattanti, la costante limitazione dell'agenzia del giocatore nella costruzione del proprio personaggio virtuale e l'enorme banalizzazione della scrittura, giusto per fare qualche esempio, sono state tematiche al centro di ricorrenti polemiche del settore, portando di riflesso alla celebrazione dei fenomeni che si muovevano nella direzione opposta, spesso guardando al passato. In tempi non sospetti - durante i primi anni 2010 - gli esordi di Demon's Souls e Dark Souls hanno avuto un impatto fortissimo proprio a causa dell'atmosfera del mercato dell'epoca, che gli permise di intercettare una grossa fetta di appassionati orfani delle "care vecchie meccaniche di una volta", quelle che l'industria AAA aveva smesso di offrire.
Il più grande di quei fenomeni, probabilmente, è stato Baldur's Gate 3 di Larian Studios, un'opera che si è ispirata a un passato addirittura antecedente i videogiochi stessi, ovvero quello dei giochi di ruolo pen & paper. Alzando il sipario su oltre un milione di linee di dialogo, su dozzine d'incantesimi che il giocatore medio non utilizzerà mai, nonché su un inesauribile buffet di scelte dialogiche e conseguenze estremamente impattanti, ha scelto di mettere radici proprio in quell'architettura da PC RPG che aveva conosciuto la sua età dell'oro fra la fine degli anni '90 e l'inizio dei 2000. Sulla carta Baldur's Gate 3 era quanto di più lontano potesse esistere dall'idea della produzione di massa, quella pensata per un'utenza ineducata al videogioco e al gioco stesso, ma alla fine è proprio lì che è riuscita a fare breccia, fra l'altro coinvolgendo una delle comunità più eterogenee mai incontrate nel medium.
Tornando a Oblivion, se da una parte la resurrezione del suo antico mondo ha inevitabilmente puntato i riflettori su tutti i limiti dell'epoca, dall'altra ha spinto orde di nostalgici a rimpiangere il passato creativo di Bethesda Softworks e addirittura a rivangare il ricordo della rivoluzione portata da The Elder Scrolls III: Morrowind, interrogandosi sì sull'entità dell'evoluzione alla base di Skyrim, ma anche su tutte le qualità che sono andate perdute con lo scorrere dei decenni. L'atto di guardare al passato e rimpiangere "i bei tempi andati" è sempre stato una costante della discussione videoludica, ma oggi sta trovando riscontri nei risultati.
In mezzo alle pieghe di questa saga sembra nascondersi il nocciolo della questione: mentre in passato ai processi di banalizzazione e di massificazione delle formule era sempre corrisposto un netto incremento dei numeri delle vendite e delle valutazioni - basti pensare a Skyrim, che triplicò i risultati del predecessore - di recente è stato oltrepassato un plateau che sembra avere invertito la tendenza. Ora sono i videogiochi che guardano indietro ad avere successo, quasi a segnalare che il pubblico attratto nel corso degli anni abbia ormai maturato le stesse esigenze dei veterani. Se così fosse sarebbe un problema non da poco per tutte le compagnie che sono andate incontro a forti ristrutturazioni e hanno stravolto i processi per allargare il proprio bacino d'utenza anziché continuare a scommettere sull'originale target audience.
Clair Obscur, Final Fantasy e la sostituzione del pubblico di riferimento
È inevitabile, non ha importanza quale posizione si abbia nei confronti dei moderni capitoli della saga, come si sia recepita la grande operazione Remake o cosa si pensi dell'attuale stato della casa madre: il successo di critica e la strepitosa accoglienza riservata dal pubblico a Clair Obscur: Expedition 33 non possono far altro che spostare l'attenzione sull'elefante nella stanza, ovvero la saga di Final Fantasy.
È dal periodo antecedente la pubblicazione di Final Fantasy XIII che eminenze di Square Enix - come Yoichi Wada, Yoshinori Kitase, Daisuke Watanabe e ora Naoki Yoshida - discutono della necessità della saga di cambiare formula, di trasformarsi in qualcosa di diverso per adeguare l'ambizione ai tempi che corrono. Da quell'istante in avanti questa filosofia ha guidato le mani di Tetsuya Nomura e Hajime Tabata con Final Fantasy XV e più di recente quelle del Creative Studio 3 con il sedicesimo episodio; facendo due calcoli, sono ormai oltre diciannove anni che l'intera Square Enix sta cercando una nuova strada per replicare i fasti dell'età dell'oro, e finalmente con Final Fantasy VII Rebirth sembra trovarsi a un passo dalla risposta.
Ma il caso ha voluto che oggi ci trovassimo qui, diciannove anni dopo, nel pieno dei festeggiamenti del team esordiente di Sandfall Interactive, che ha offerto agli appassionati un sistema di combattimento di matrice tattica, un party di personaggi giocabili, una narrazione ancorata al tema del viaggio, una mappa del mondo da esplorare, scontri segreti, superboss opzionali, insomma, esattamente gli stessi identici ingredienti alla base delle pietre miliari risalenti agli anni '90 e ai primi 2000, e per inciso l'ha fatto ponendo l'enfasi sulla fedeltà visiva e sui valori produttivi che seppero distinguere Square Enix dal resto dell'offerta, rendendola colosso che è oggi. Del resto il direttore Guillaume Broche ha dichiarato esplicitamente che l'obiettivo dello studio francese era quello di creare proprio il "JRPG" che l'industria AAA aveva smesso di produrre.
Clair Obscur: Expedition 33 è un videogioco che non s'inventa nulla, per certi versi ha preso a modello la formula di Squaresoft esattamente come Hollow Knight aveva fatto con i metroidvania, ma è proprio per questo che risulta così efficace, perché è un videogioco del passato che si presenta in trionfo ai cancelli del presente. Senza nulla togliere agli altri straordinari JRPG pubblicati nel corso degli ultimi anni, lui incarna quella ricetta lì, quel piatto cucinato dalla nonna che il pubblico ha sempre sognato di mangiare ancora una volta ma che, per qualche strana ragione, non è più stato proposto. Square Enix esce particolarmente toccata da questo confronto perché sua è l'ispirazione di Sandfall Interactive, ma non è assolutamente l'unica ad aver cercato di trasformare la sua formula classica per effettuare una sorta di "sostituzione" del pubblico di riferimento. Non esiste nulla di più complicato di accontentare un'utenza di veterani che è passata attraverso svariati capolavori, ma è triste che tante IP stiano rinnegando le proprie origini.
Qual è, davvero, il pubblico dei videogiochi?
La questione che l'industria AAA si è posta da tempo è davvero molto semplice: con tutte le criticità che investono i processi di sviluppo, dai costi esorbitanti ai tempi di produzione biblici, per arrivare anche alla saturazione del mercato e alla difficoltà di andare in pareggio, raggiungere un pubblico nuovo è l'unico modo per mantenere attiva l'attuale filiera senza effettuare stravolgimenti potenzialmente fatali. Ultimamente, tuttavia, sembra che questo tentativo d'allargamento del bacino d'utenza abbia toccato generi, ispirazioni e modelli che sono ancora trainati dal loro pubblico specifico, un'utenza che è lievitata nel tempo e che sembra sempre più attratta dalle opere che trovano radici nel passato, al punto tale da trasformare anche edizioni remake e remastered in potenziali blockbuster moderni. Il mantra è sempre lo stesso: a volte quei mutamenti hanno funzionato, in altre occasioni hanno finito per allontanare la target audience alle fondamenta dei franchise con risvolti disastrosi, mentre nella maggior parte dei casi l'enorme pubblico moderno non si è mosso dalla sua dimensione, quella di Roblox, dei gacha per mobile, di esperienze totalmente diverse dagli standard AAA.
E quando le IP a cui sono affezionati cambiano così tanto da smarrire la propria identità, i giocatori affezionati migrano su nuovi lidi per ritrovare quello che hanno perso, scrivendo storie di successo come quelle di Larian Studios, di Grinding Gear Games, dei Platinum Games, di 11 Bit e di tutti gli studi indipendenti e AA guidati dalla loro passione bruciante per una formula specifica del passato che si trovava in crisi d'identità. Clair Obscur: Expedition 33 è l'esempio perfetto di questa fattispecie, ovvero quella di uno studio di sviluppo emergente che ha scelto di creare il Final Fantasy che gli sarebbe piaciuto poter giocare, mentre The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered è sì un prodotto della nostalgia, ma è anche un sintomo della fame verso un certo tipo di esperienza dalla quale persino la casa madre ha scelto di allontanarsi. Quando Swen Vincke ha dichiarato che "i team che vincono il GOTY sono quelli che creano i videogiochi a cui vorrebbero giocare" a molti è sembrata una banalità, una favoletta: forse il problema è proprio che al management di oggi sfuggono persino banalità assolute.