Il primo Indiana Jones che guardai non fu "I predatori dell'Arca perduta", cioè il primo capitolo della serie, ma "Il tempio maledetto", il secondo. Fu uno dei primi film che affittai in una piccola e polverosa videoteca del mio quartiere dopo aver ricevuto in regalo per la Prima Comunione un videoregistratore nuovo fiammante, all'epoca oscuro oggetto del desiderio di molti perché non solo consentiva di riprodurre le videocassette, ma anche di registrare film dalla televisione. Eravamo nella metà degli anni '80 e guardando il film mi venne in mente che io quel professore universitario, interpretato da un Harrison Ford in grande spolvero, che riusciva a fermare un terribile culto dedito ai sacrifici umani, lo avevo già visto da qualche parte.
Due anni prima era entrato dentro casa il Commodore 64, il primo di tanti personal computer che da lì in poi avrebbero occupato il mio tempo libero (e anche lavorativo). Io e mio fratello eravamo dei bambinetti interessati soprattutto ai videogiochi (lui meno di me, in realtà, ma all'epoca non lo sapevamo ancora), anche se chi ci aveva regalato il computer favoleggiava di software educativi e di chissà quali altri miracoli resi possibili dalla rivoluzione informatica. Fattostà che un amico di famiglia ci regalò una cassetta con dentro diversi giochi piratati. Negli anni '80 era facilissimo trovare dei nastri vergini da registrare, solitamente usati per copiare LP musicali, ma anche per i videogiochi dei primi computer, dal Vic-20 al già citato C64, passando per lo ZX Spectrum e l'MSX.
Realizzare raccolte di giochi fatte in casa non era una rarità, tanto che molti acquistavano più registratori per fare prima e fare scambi con gli amici (quei pochi che avevano accesso ai videogiochi). Il concetto di pirateria era molto vago, considerando che i giochi piratati erano di fatto legali e si potevano acquistare comodamente in edicola e che etichette come la Armati prosperarono vendendo nei negozi opere di cui non avevano alcuna licenza.
Comunque sia, il primo gioco della raccolta unica "Giochi Turbo Tape di Piero" era Fort Apocalypse del 1982. Sviluppato da Synapse Software, chiedeva di guidare un elicottero stilizzato, ma ben disegnato, all'interno di un sistema di grotte per salvare alcuni uomini in pericolo. Un giocatore particolarmente bravo poteva finirlo nel giro di dieci minuti, ma io non ci riuscii mai perché era di una difficoltà che andava oltre la portata di un ragazzino e che oggi farebbe piangere calde lacrime al buon Hidetaka Miyazaki. Il secondo era invece uno strano gioco con protagonista un avventuriero che doveva andare in cerca di lingotti d'oro all'interno di un vero e proprio labirinto sotterraneo: Pitfall II: Lost Caverns. Eccoti qua, dottor Jones!
Un mare di insetti
All'epoca i videogiochi non erano abbastanza efficaci nel far vivere certe emozioni, ma potevano comunque suscitarne di nuove e diverse attraverso i mezzi che gli erano propri. Del secondo Indiana Jones il mio corpo ricorda ancora la sensazione di profondo fastidio che provai guardando la scena degli insetti, quella in cui Indy e Shorty vengono salvati da una riluttante Willie che deve infilare il braccio in un buco pieno di grossi entomi per tirare una leva, con altre creature striscianti che le camminano su tutto il corpo, insinuandosi sotto la veste di seta. Fu un momento ributtante, ma indubbiamente esaltante per il bambino che ero, tanto che guardai il film almeno sei volte prima di riconsegnarlo alla videoteca, appuntandomi nella mente quella e altre scene di cui ancora oggi ho ricordi vividi.
Pitfall 2 non era Indiana Jones, ma a suo modo era il miglior Indiana Jones videoludico possibile, con il protagonista Harry che saltava baratri, evitava scorpioni e pipistrelli, raccoglieva lingotti d'oro e afferrava palloncini per raggiungere in volo delle piattaforme altrimenti inaccessibili.
David Crane, designer geniale cui dobbiamo la fondazione, nonché parte del successo iniziale di Activision, conosceva bene i limiti dell'hardware da gioco di allora ed era riuscito a circoscrivere benissimo l'esperienza dell'essere un avventuriero in un ambiente pericoloso e selvaggio, descrivendola attraverso una manciata di meccaniche studiate e rifinite alla perfezione. Il suo Indiana Jones era molto diverso da quello dei primi giochi ufficiali, cui abbiamo dedicato uno speciale non molto tempo fa, in particolare Raiders of the Lost Ark per Atari 2600, con cui Howard Scott Warshaw aveva guardato soprattutto al lato avventuroso di Indy, provando a riprodurre alcune sequenze della pellicola in forma videoludica attraverso dei puzzle che richiamavano ad alcuni momenti iconici del film. Il suo e quello di Crane erano giochi a loro modo indicativi delle due tendenze principali che riguarderanno le traduzioni di Indiana Jones in videogiochi, siano esse ufficiali, siano semplicemente ispirate al personaggio.
Macigni che rotolano
In effetti a pensarci bene all'epoca non era difficile incontrare Indiana Jones nei videogiochi. La fame di avventura era tanta e diffusa tra i videogiocatori e la possibilità di vivere certi momenti in modo diretto era impareggiabile. La ricerca dell'immaginario cinematografico all'interno dei videogiochi è del resto una costante nella storia del medium. Lasciandomi guidare dal flusso dei ricordi, quindi senza alcuna pretesa storicistica, mi vengono in mente lo strano Jack the Nipper 2: In Coconut Capers, in cui l'avventuriero che si inoltrava in un dedalo di grotte pieno di trappole, rovine, massi rotolanti e selvaggi pronti a ucciderlo era un bambinetto particolarmente molesto vestito solo da un pannolino, già protagonista di un arcade adventure urbano corrosivo, a dirla tutta un contesto decisamente più adatto al personaggio.
Montezuma's Revenge è invece un ricordo troppo facile di un gioco che copiava palesemente lo stile Indy, con il protagonista Panama Joe (già il nome...), che doveva trovare il tesoro di Montezuma infilandosi in una fortezza azteca piena di trappole.
Un altro ricordo facile è quello del primo Rick Dangerous di quella Core Design che fonderà poi la serie Tomb Raider. Il gioco iniziava con un riferimento talmente diretto a Indiana Jones da poter essere scambiato per un gioco ufficiale, con il protagonista, un avventuriero con cappello armato di pistola e candelotti di dinamite, che veniva inseguito da un macigno che poteva ucciderlo immediatamente. Dal punto di vista del design era una scelta atroce, con l'onboarding che risultava particolarmente traumatico, ma da quello dell'immaginario era efficacissima, tanto era diretto il richiamo al primo film della serie, parto congiunto di un George Lucas allora ancora in stato di grazia e del suo amico Steven Spielberg che era sulla cresta dell'onda grazie ai successi planetari di Lo Squalo e Incontri ravvicinati del terzo tipo.
A quell'epoca il mondo dei videogiochi aveva una profonda fame di avventura e Indiana Jones era diventato un modello da seguire, cui guardavano in molti. Lucasfilm, poi Lucasarts, stessa se ne rendeva conto e non faceva mancare giochi ufficiali, che cercavano di soddisfare entrambe le tendenze videoludiche legate al personaggio, sia quella action adventure, sia quella adventure pura, tanto che quando uscì al cinema Indiana Jones e L'ultima crociata, i tie-in finanziati furono due: un'avventura punta e clicca pura, realizzata da Lucasfilm Games e scritta da un trio esplosivo, Noah Falstein, David Fox e Ron Gilbert, e un platform con elementi adventure in realtà non molto riuscito (ma lo si amò lo stesso, in qualche modo), che mirava a coinvolgere un pubblico più vasto.
Lo stesso avvenne con Indiana Jones and the Fate of Atlantis, di cui l'avventura grafica, sempre realizzata internamente da Lucasfilm, è probabilmente il miglior videogioco di Indiana Jones che sia mai stato realizzato, mentre l'action adventure... esiste, vi basti sapere questo. Purtroppo con gli anni il genere delle avventure grafiche sarà abbandonato e prevarrà l'altro, con Lucasarts che finirà per copiare lo stile dei già citati Tomb Raider, serie che a Indiana Jones (e Prince of Persia, diciamolo) deve la sua essenza stessa.
Indiana Jones e il quadrante del destino
Con l'uscita di "Indiana Jones e il quadrante del destino" è giusto chiedersi che fine abbia fatto la fame di avventura dei videogiocatori. Il film è un'operazione strana e per certi versi molto discutibile, che trasmette un grosso senso di inadeguatezza, in particolare nella figura di Indy stesso, interpretato da un vecchio Harrison Ford cui il personaggio ormai sembra scivolare addosso. Già in "Indiana Jones e il teschio di cristallo" era evidente lo sfasamento tra attore e personaggio, ma qui è decisamente urlato e poco può la computer grafica per mascherarlo (anzi, finisce per accentuarlo). Per quanto Hollywood possa provare a tenere in vita alcune serie, a prescindere dall'opportunità storica di farlo, la vita ci mette del suo trasfigurando l'immaginario e creando maschere e icone grottesche, lì dove si cerca a tutti i costi di modellare un'epicità artefatta attraverso ammiccamenti ai bei tempi che furono. Il tempo è un giudice impietoso e molto cinico e irride facilmente la stupidità di alcune produzioni. Del resto la tendenza necrofila di una grossa fetta dell'intrattenimento contemporaneo è cosa nota, vista la difficoltà di generare nuove mitologie per generazioni che padri cinici vorrebbero condannare a vivere in perpetuo epoche non loro, soffocandole con la loro ingombrante nostalgia.
Anche l'industria dei videogiochi è profondamente cambiata ed è diventata più cinica. Negli anni '80 Indiana Jones si sposava benissimo con il nuovo medium, perché era in qualche modo metafora della sua ingenuità; di quel gettarsi a capofitto dei pionieri in un mondo in cui ancora non esistevano standard e si seguiva soprattutto l'istinto, andando continuamente alla ricerca di tesori nascosti cui nessuno aveva ancora avuto accesso. L'avventura non era solo nei videogiochi ma erano i videogiochi stessi, la frontiera irraggiungibile di un futuro senza confini in cui tutto era possibile. Oggi Indiana Jones non può che essere inevitabilmente diverso. Nutro grandi speranze per il titolo di Machinegames, ma allo stesso tempo sono convinto che sarà necessariamente, e giustamente aggiungerei, altero rispetto a quello che era l'Indiana Jones originale, di cui potrà essere una grossa, si spera splendida, celebrazione, ma che in qualche modo guarderà il suo oggetto dall'ineluttabile distanza che divide l'oggi dalla ricerca dell'arca perduta, la stessa che passa tra le magnifiche rughe sul volto di Harrison Ford.