Scesi dall'automobile che porta Signorina all'Hotel Letztes Jahr, ci troviamo già in un labirinto. Lorelei and the Laser Eyes si muove tra la Svezia, dove ha sede Simogo, l'Italia da cui proviene Renzo Nero, il leggendario cineasta che ha invitato a collaborare la nostra protagonista al suo capolavoro, e la Germania (o forse l'Austria?), perché il nome dell'albergo è in tedesco. Significa "l'anno scorso", ed è una citazione al cinema francese. Quindi c'è anche la Francia in questo non luogo, in questa foresta. In questo labirinto, per l'appunto.
Definire Lorelei and the Laser Eyes è complesso. Un videogioco che è un po' come quelle scatole rompicapo dove devi trovare il modo di interpretare i meccanismi per accedere al contenuto. Un puzzle in un puzzle, e d'altronde un'altra delle grandi influenze del videogioco è americana (così c'è anche l'America in questo buco nero), ed è lo scrittore Paul Auster che era solito incastrare nei suoi racconti altri racconti, confondendo fiction e non fiction, giocando a piegare la realtà fino a spezzarla in tanti frammenti e storie. Vere, false, poco importa.
Come la storia della crittografia ci insegna, cercare di decifrare un messaggio senza la chiave di cifratura è praticamente impossibile. Fortunatamente, per quanto riguarda Lorelei, è Simogo stessa a consegnarci un importante documento che ci permette di capire non solo i riferimenti estetici del loro videogioco, ma anche quelli tematici. Qualche giorno dopo l'uscita di Lorelei and the Laser Eyes, l'azienda ha pubblicato sui suoi social un'immagine in cui palesa tutte le ispirazioni del loro nuovo titolo. Un documento importante, la chiave per decifrare l'enigma. Il loro sogno in bianco e nero, ambientato tra Italia, Germania, Francia, Svezia, USA e un altro luogo, al di là di ogni comprensione.
L’anno scorso a Marienbad
C'è la Francia, prima di tutto. Perché lo stile, quel bianco e nero, e l'idea dell'albergo, ci riportano al 1962, alla Nouvelle Vague e ad Alain Resnais. Specialmente al suo film L'anno scorso a Marienbad. C'è ovviamente anche un altro particolare che ci suggerisce l'importanza del film francese, ovvero il nome dell'albergo. Come abbiamo già detto in apertura: Letztes Jahr significa proprio l'anno scorso.
Se l'enigma di Lorelei sembra inestricabile, tale è anche quello della protagonista di L'anno scorso a Marienbad: c'è un albergo, sì, c'è una donna francese (Delphine Seyrig) e un uomo italiano (Giorgio Albertazzi), ma nessun nome. L'uomo sostiene di aver conosciuto la donna un anno prima, a Marienbad. I due sono stati amanti. Ma lei non ricorda, e il film è costantemente ambiguo nel ricostruire i frammenti di una memoria danneggiata, si presume da un trauma. Il film di Resnais, che segue il più noto Hiroshima Mon Amour, è un esercizio di stile sulla narrazione non lineare, che mette in discussione la dimensione spaziale e temporale, cercando di simulare l'incertezza della mente umana. Un viaggio in un labirinto -spirituale prima ancora che fisico- con al centro un mistero.
Nel caso del film, però, ci manca la chiave per decifrarlo, ed è lì che sta il suo fascino. Se in Lorelei and the Laser Eyes possiamo agire per esplorare, risolvere, metterci in tasca una verità che nel finale diventa univoca realtà nascosta, incastrata in una mente spezzata dal trauma, in Marienbad l'esplorazione di questi personaggi resta celata tra la tangibilità dei corpi fisici e l'intangibilità del ricordo. Tanto che, nel corso degli anni, il film ha generato molte letture, diventando oggetto di studio formale e sostanziale di artisti in ogni campo. L'anno scorso a Marienbad è quasi un'opera astratta, è una trappola semiotica, si rischia di restarne intrappolati nel tentativo di ricostruire una memoria che, dopo qualche scena in cui le parole dell'uomo trovano spazio tra la realtà e la fantasia, comincia a dubitare perfino di se stessa.
Quello che ci interessa in relazione al videogioco è la proiezione dell'albergo come palazzo della memoria, dove il concreto di corridoi e scale e mezzi busti, porte, pavimenti e soffitti, diventa ricordo immateriale. Dove il labirinto fisico diventa psicologico. Il centro è il codice per decifrare l'enigma, ma il paradosso è che non ci si può arrivare senza conoscere la chiave. Infine, di Resnais e di L'anno scorso a Marienbad, ci interessa perché se ne scorge la visione frammentata in due maestri del cinema che figurano anche loro in quel prezioso documento fornito da Simogo: Stanley Kubrick e David Lynch.
È sempre stato lei il custode
Si salta in America, quindi, o meglio in altri non luoghi a metà tra il Missouri, il Regno Unito e la dimensione spettrale. Che l'albergo sia un personaggio, forse il personaggio più importante di Lorelei and the Laser Eyes, è fuori discussione. Il suo celare, nascondere in piena vista, chiudere gli spazi dietro lucchetti illogici, fa parte del suo carattere capriccioso. Sembra un luogo abitato da spiriti dispettosi, un grande piano ordito per risvegliare in Signorina un ricordo: attraverso la voce musicale dell'uomo con lo schermo al posto della testa, della bambina con la maschera da coniglio, dell'anziana che giace nel letto morente. Spiriti, quindi, che parlano al passato di Signorina. Al suo trauma, con l'obiettivo di farlo riaffiorare per evocare la verità. Per arrivare al centro del labirinto.
In Shining di Stanley Kubrick, il centro del labirinto è la morte. Lo è letteralmente dal momento che Jack Torrance, il protagonista del racconto, trova nella sua peregrinazione del dedalo dell'Overlook Hotel proprio l'ultimo respiro, ghiacciato, sopraffatto dal freddo della sua anima corrotta. Un destino diverso dal fuoco del libro di Stephen King. In entrambi i racconti, però, l'Overlook è un luogo della memoria. È tormentato dalle ferite inferte a colpi di accetta dagli avventori passati che hanno ucciso, massacrato, torturato. Non c'è un solo inquilino che abiti ancora quei corridoi dai tappeti geometrici, quelle stanze scarsamente illuminate che d'inverno si svuotano per via della tormenta, con il bianco accecante della neve che entra dalle finestre. Nessuno. Vivo, almeno.
Jack Torrance, come l'Overlook Hotel, è una collezione di fantasmi: è un ex alcolista, un violento, un sociopatico. Nella versione cinematografica sembra pazzo sin dalla prima scena nella quale sostiene un colloquio con lo staff dell'hotel, accettando di rinchiudersi in quel posto per mesi, isolato, in compagnia della sua famiglia. Sembra che in nuce ci sia già in lui il feroce piano che metterà in atto dopo un paio d'ore di film.
Il Jack Torrance di Stephen King era una proiezione: King stava buttando via la sua famiglia nel periodo di massimo abuso di droghe e alcol. Sua moglie Tabitha gli aveva perfino dato un ultimatum. Ed è inevitabile che Kubrick e King si scontrino: più interpretazioni della stessa storia; proprio come accade alle tante verità dell'Hotel Letztes Jahr. Kubrick però ci mette dentro anche una storia nella storia, confondendo i piani spazio temporali in quel finale ardito, impossibile come le geometrie di Escher. Passato e presente si piegano su loro stessi, rendendo tutto il film un ragionamento sulla persistenza e la transitorietà della memoria. Come L'anno scorso a Marienbad, e come Lorelei and the Laser Eyes.
Inland Empire
L'intangibilità dell'Hotel Letztes Jahr vive anche nei continui richiami al sogno. Che non sia un luogo del corpo lo si capisce in fretta: quale albergo nasconde l'accesso alle sue stanze dietro a complessi enigmi, puzzle basati sulla numerologia, sull'astrologia, le fasi lunari, sui numeri strobogrammatici? Da un certo punto di vista, il Letztes Jahr è un percorso, con un inizio e una fine, da un altro sembra un esercizio di stile, una rappresentazione della memoria che ha come unico scopo quello di immergerti in un labirinto. Renzo Nero, uno dei protagonisti del videogioco, dà una definizione suggestiva e puntuale di questo luogo: "un dedalo serve a perdersi, e noi ci siamo perduti". Verrebbe da chiedersi: dove? Perché nel suo viaggiare continuamente attraverso l'arte e la realtà, è difficile collocare questo spazio. Sembra un luogo a metà.
Nell'immagine che stiamo usando come chiave di decrittazione, spunta al centro una foto di I segreti di Twin Peaks, l'opera magna di David Lynch che racchiude un po' tutta la sua cinematografia. Anzi, l'abbraccia, dal momento che si estende dall'inizio degli anni '90 (la prima stagione è targata proprio 1990) fino agli anni duemila (con la terza che arriva nel 2017). In pratica inizia una decina di anni dopo il suo primo film, Eraserhead (1977) e finisce dieci anni dopo il suo ultimo, Inland Empire (2006). Ci interessa Twin Peaks perché, un po' come tutta la fiction di Lynch, è un'esplorazione della sottigliezza del reale. Uno sguardo curioso sugli spiriti che agiscono nella nostra vita, sul loro scopo misterioso, sul loro muoversi inseguendo obiettivi che non ci è dato sapere. Il centro del labirinto, in questo caso, è il mistero stesso rappresentato dalla mente umana.
Ci sono due agenti Cooper, due Laura Palmer, anzi, tutti i personaggi di Twin Peaks (che si traduce proprio come Cime Gemelle, per l'appunto) hanno una doppia vita. Una oscura, nascosta, l'altra in piena luce. E spesso queste due esistenze non si parlano, vanno in direzioni opposte. Una è il doppelganger dell'altra: buio e luce, protagoniste di una lotta che dall'inizio dei tempi insegue l'equilibrio. Passato e presente non hanno importanza per gli spiriti che gestiscono questo scontro. Il loro viaggiare attraverso il tempo gli dà la possibilità di apparire da vivi e da morti, di ripresentarsi con venticinque anni di ritardo, identici, mossi dallo stesso obiettivo: risolvere il mistero. Ma in Lynch il mistero, per sua stessa definizione, è inestricabile.
Signorina si muove inseguendo una bambina con la maschera da coniglio in un Paese delle Meraviglie che la fa saltare attraverso una serie di anni ricorrenti: 1932, 1953, 1973, 1982, solo per citarne alcuni. Come in un vero e proprio viaggio nel tempo, spostandosi avanti e indietro, Signorina incontra una donna nell'impero della mente, dove una buona storia è abbastanza forte da sovrascrivere la realtà. Ma cos'è la realtà se non un intricato insieme di storie, suggestioni e personaggi? Lorelei and the Laser Eyes sembra volersi immergere in questi mondi sommersi, in queste scatole (un elemento ricorrente nel videogioco) metareferenziali, dove film, libri e videogiochi bucano pellicola, carta e schermo. È l'essenza del cinema lynchiano, fatto di falsi ricorsi, false esistenze, realtà che vivono dentro a un sogno, come in Mulholland Drive, o che si creano e si disfano in un battito di ciglia come in Strade Perdute.
Questa confusione sono io
C'è un'altra grande influenza che spicca nel prezioso manifesto di Simogo: Federico Fellini, e in particolare, il suo film 8 ½. C'è un'immagine del nostro Marcello Mastroianni nei panni di Guido Anselmi che fuma. D'altronde che Renzo Nero, regista, artista, forse amante, sia ispirato all'attore italiano è chiaro sin da subito. Ma non è solo l'estetica che Simogo ha cercato di catturare nel suo personaggio, e non è un caso che abbia scelto il film più concettuale del regista romagnolo come fonte d'ispirazione.
Tanto 8 ½ quanto Lorelei and the Laser Eyes sono ragionamenti sul potere taumaturgico dell'arte. Se sia l'arte che influenza la vita o se sia la vita che influenza l'arte resta uno dei costanti crucci che Guido Anselmi, grande regista italiano in cerca d'ispirazione per il suo ennesimo capolavoro, cerca di capire nel corso del film. La sua esistenza al di fuori del set si sbriciola, si fonde con le presenze artistiche della sua vita, in un gioco di rimandi tra reale e onirico che ben presto perde il senso del tempo e dello spazio: Guido parla con i suoi genitori morti da tempo, si rivede ragazzino, vive e rivive le sue storie d'amore. Un po' come l'hotel per Signorina, 8 ½ è un pretesto per Guido (e per Fellini) per viaggiare in se stesso.
Questo è il punto: Guido Anselmi è tormentato dalle risposte alle domande che gli fanno. Non riesce a trovarne una che lo soddisfi, e così mente, e scappa, e si nasconde. Al centro del suo labirinto c'è il senso di ciò che ha fatto, di ciò che dovrà fare. La sua è una esistenza fragile, d'altronde Fellini inventò questa storia perché afflitto dalla stessa crisi artistica. Per superarla scrisse di un regista che deve girare un film che non ricorda. Un inseguirsi di espedienti metanarrativi che ricordano la prosa postmoderna di Italo Calvino.
È l'inquietudine artistica il fil rouge di 8 ½, il tentativo disperato di razionalizzare l'irrazionale, di dargli delle regole, una struttura, un libretto d'istruzioni. Ironico che sia proprio questo il primo oggetto che troviamo in Lorelei and the Laser Eyes, nel cruscotto dell'automobile. Un foglietto stiracchiato che ci ringrazia di aver scelto di giocare al nuovo titolo di Simogo e ci fornisce istruzioni sommarie su ciò che ci aspetta. Di nuovo, però, non dà risposte, è invece fonte di interrogativi: perché nel videogioco si parla del videogioco? Qual è il confine tra il reale e il virtuale? Per la risposta, bisogna imbarcarsi in un viaggio, complesso, a volte incomprensibile, e raggiungere il centro del labirinto. Lì sta, in attesa, il segreto. Trovarlo potrebbe mettere la parola fine a questo viaggio, ma non è forse il tormento di una risposta mancata, di un mistero irrisolto, a darci la forza di andare avanti?