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I videogiocatori fanno ribrezzo e paura?

È ora che il mito del mondo dei videogiochi come isola felice venga messo in soffitta

NOTIZIA di Simone Tagliaferri   —   26/09/2017

Circa tre anni fa, chi scrive provò a ottenere un'intervista con uno sviluppatore di una nota software house del Regno Unito. Lui sembrava entusiasta all'idea di parlare un po' del suo lavoro, ma quando chiese l'autorizzazione al suo capo gli fu impedito, nonostante il titolo cui aveva lavorato per anni fosse ormai da mesi sul mercato. Come giustificazione del rifiuto gli fu detto che temevano fraintendimenti, ossia che alcuni concetti tecnici, pur se bene espressi, potessero diventare oggetto di polemiche a non finire tra i videogiocatori. "Ne hanno paura", mi disse, citando i casi di Alien: Colonial Marines e Watch Dogs. Ovviamente non se ne fece niente, perché non poteva certo rischiare il posto di lavoro per una semplice intervista, ma il fatto ci lasciò con l'amaro in bocca: possibile che i publisher abbiano così paura dei videogiocatori?

La stessa situazione si è ripresentata quasi identica l'anno scorso. Questa volta non si trattava solo di un'intervista, ma di affidare una rubrica sulla realizzazione dei videogiochi a uno sviluppatore che da anni lavora in studi che si occupano di produzioni tripla A. L'obiettivo era ovviamente quello di rendervi un minimo edotti sull'argomento, ma non se ne fece niente nonostante la disponibilità delle parti. Indovinate perché? L'autorizzazione a collaborare con noi, anche fuori dall'orario di lavoro, fu rifiutata. Il motivo risultò particolarmente inquietante, visto che era identico a quello illustrato per l'aneddoto precedente: la paura che i videogiocatori potessero fraintendere qualcosa e iniziare una guerra sui social e sui forum.

Sempre chi scrive, giusto l'altro ieri ha iniziato a leggere il libro "Blood, Sweat, and Pixels" di Jason Schereier, che racconta storie relative allo sviluppo di videogiochi. Uno dei capitoli è dedicato a Uncharted 4: Fine di un Ladro. Intervistando dei membri di Naughty Dog, la software house che l'ha realizzato, Schereier ne ha ricostruito il travagliato sviluppo, che in una fase particolarmente critica ha portato a un cambio completo della direzione, con l'allontanamento di Amy Hennig, che a quanto pare aveva perso un po' la bussola del progetto, e l'entrata in scena del duo Straley / Druckmann, reduce dal successo di The Last of Us (nota a margine: pare che Straley sia scappato da Naughty Dog proprio per l'eccesso di stress causato dal crunch continuo cui è stato sottoposto per più anni di fila). Il cambio di direzione non ha comportato solo un avvicendamento di ruoli, ma anche la modifica dell'intero gioco, con l'accantonamento di una gran quantità di lavoro già fatto, compresi alcuni sistemi (sapevate che inizialmente Uncharted 4 era stato pensato dalla Hennig per non farvi sparare un colpo per almeno metà avventura?)

Quando fu pubblicato il primo teaser, quello dell'E3 2014, praticamente Uncharted 4 ancora era in alto mare, perché Straley e Druckmann lo stavano letteralmente ribaltando da cima a fondo, rivedendone ogni aspetto. Non per niente fu rinviato di un anno (inizialmente doveva uscire nel 2015) e solo per un colpo di fortuna c'è stato abbastanza tempo per rifinirlo a dovere (leggete il libro per saperne di più). Comunque, uno dei drammi più grandi fu la realizzazione della prima demo: cosa mostrare ai videogiocatori visto che di definitivo c'era davvero poco? Il materiale doveva essere esaltante, ma allo stesso tempo mostrare elementi che sicuramente sarebbero finiti nella versione finale. Mostrare qualcosa che rischiava di essere tagliato avrebbe causato l'apocalisse. Indovinate un po'? Anche loro avevano paura delle reazioni sui social, per questo della vecchia versione non è stato mai mostrato nulla e per questo con la nuova hanno ponderato ogni passo. In pochi riflettono sul fatto che per uno sviluppatore, spesso impegnato in turni lavorativi massacranti di quattordici ore al giorno per più settimane (quando non mesi) consecutivi, leggere commenti pieni di bile e frustrazione personale su questioni di cui chi parla dimostra di non capire nulla, può essere deleterio per il morale e andare a incidere sull'intero progetto.

Insomma, quando ieri Charles Randall ha parlato apertamente di quanto gli sviluppatori temano i fraintendimenti dei videogiocatori più tossici, almeno per chi scrive non ha detto davvero niente di nuovo o di incredibile, ma ha solo descritto una situazione che di fatto è palese da molti anni. Si potrebbero citare altri casi, ma la realtà appare sempre più quella da lui raccontata: alcune reazioni smodate piovute sui team di sviluppo tramite social (una delle ultime quella nei confronti di Mass Effect: Andromeda), a volte giuste nel merito, ma sproporzionate rispetto al problema reale, hanno costretto publisher e sviluppatori a erigere dei muri, impedendo la comunicazione tra autori e fruitori, a tutela del lavoro di tutti e dei prodotti. Insomma, il comportamento della comunità dei videogiocatori intimorisce, facendoci somigliare più a tossici in crisi d'astinenza cui è stata negata una dose, che a consumatori delusi, che in quanto tale potrebbero semplicemente astenersi dal consumare per dimostrare il proprio disappunto. Certo, si potrebbe anche ragionare su come i publisher stessi sfruttino e alimentino più che volentieri questa irrazionale e infantile bestialità del giocatore medio per vendergli i loro prodotti; ma questa, come si suol dire, è un'altra storia. Intanto non si può che registrare questa paura diffusa tra gli operatori del settore e iniziare a ragionare su come cercare di tornare a dei rapporti più aperti e umani, da entrambe le parti.