Dopo l'incredibile popolarità delle prime due stagioni (in realtà un unico ciclo poi diviso) arriva il 19 luglio su Netflix La casa di carta 3 di cui state leggendo la recensione, con otto nuovi episodi. Acquistata dal colosso dello streaming da Antena 3, la serie ideata da Alex Pina ha avuto un successo incredibile grazie al passaparola: a inizio 2018 non si parlava d'altro sui social e per strada, tanto da ricordare i tempi in cui tutti si chiedevano chi avesse ucciso Laura Palmer o se l'isola di Lost fosse in realtà l'Inferno.
L'idea è semplice quanto efficace (e diabolica): unire la struttura di Inside Man di Spike Lee (o di un classico heist movie) ai flashback dedicati al passato dei personaggi (sistema introdotto proprio da Lost), aggiungendo al tutto un colore che attira l'attenzione, il rosso, e un simbolo riconoscibile, in questo caso una maschera che riproduce la faccia di Salvador Dalì (e che ricorda molto quella di V per Vendetta). Tra i riferimenti c'è anche Robin Hood, che qui è Il Professore (Alvaro Morte), che riunisce una squadra di persone dalle capacità peculiari a cui dà il soprannome di città: abbiamo la bella Tokyo (Ursula Corbero), il leader Berlin (Pedro Alonso), Rio (Miguel Herran), Denver (Jamie Lorente), dalla risata che non si dimentica, Helsinki (Darko Peric) e Nairobi (Alba Flores). Il loro compito è entrare nella Fabbrica Nacional de Moneda y Timbre di Madrid, per stampare due miliardi e mezzo di euro con cui poi sparire nell'anonimato.
La casa di carta: il gulty pleasure per eccellenza
Azione, relazioni pericolose con gli ostaggi, deliri di onnipotenza, Bella ciao: le prime due stagioni hanno conquistato il publico con continui colpi di scena e personaggi accattivanti, ma la realtà è un'altra: La casa di carta piace tanto perché alla base e nel cuore è sostanzialmente una soap opera. All'inizio colpisce la squadra, la curiosità di scoprire quale sarà la prossima mossa sulla scacchiera del Professore prende poi il sopravvento, ma sono le dinamiche esagerate (e al limite dell'isteria) tra i protagonisti che catturano totalmente.
Chi è cresciuto macinando serie che hanno segnato la Golden Age della tv, da Twin Peaks e I Soprano a The Wire, passando per Mad Men a Breaking Bad, può fare solo due cose: abbracciare i toni volutamente sopra le righe di La casa di carta, o interrompere la visione dopo pochi episodi. Se state leggendo probabilmente appartenete alla prima categoria, se invece fate parte della seconda e cercate una conferma alla vostra impressione, ovvero che la serie di Netflix sia un prodotto di intrattenimento ma non un titolo da Emmy, allora tranquilli, non siete soli. In ogni caso tutti gli spettatori che, nel bene e nel male, non riescono più fare a meno del broncio di Tokyo o dell'incapacità investigativa dell'ispettore Raquel Murillo (Itziar Ituno), possono tirare un sospiro di sollievo: la terza stagione conferma lo status di guilty pleasure di La casa di carta. Anzi, lo aumenta in modo esponenziale.
La terza stagione: più ambiziosa, più spettacolare, ma sempre soap
La fine della seconda stagione di La casa di carta è l'equivalente delle scappatelle negli ascensori di Grey's Anatomy: sai che sono inverosimili, sai che in certi casi sono anche sbagliate, ma non puoi fare a meno di guardarle. Senza svelare nel dettaglio la trama, diciamo che la banda, più o meno intatta, scappa col malloppo per raggiungere ognuno il proprio paradiso personale. Finali, contro finali, non manca niente per creare l'effetto "Ciranda de pedra" (telenovela brasiliana anni '80). All'inizio dei nuovi episodi ritroviamo tutti come li avevamo lasciati, due anni dopo: felici, lontani da tutto e pieni di soldi freschi di stampa. Il rapimento (e la tortura) di uno di loro da parte del governo spagnolo costringerà però la banda a riunirsi: questa volta il colpo sarà ancora più spettacolare. E pericoloso.
Il primo episodio del terzo ciclo comincia con un pianosequenza che ti fa dire: "Però, Netflix ha proprio preso in mano la situazione!". Le spiagge della Thailandia, con Tokyo che corre nella giungla come nemmeno Lara Croft, fanno ben sperare. Ma poi eccolo lì, arriva inevitabile il momento trash: due personaggi si tirano i capelli come chi litiga al mercato del pesce; una new entry affranta dal dolore un momento prima piange e si dispera, quello dopo balla con mosse improbabili; il personaggio di Monica (Esther Acebo), ostaggio che durante la rapina si è fatta conquistare dal fascino di Denver, si fa ora chiamare Stoccolma, come la nota sindrome. Non si va tanto per il sottile in La casa di carta. Però forse è proprio questo il suo segreto: per 40 minuti non si pensa, si spegne il cervello, si accetta il comico volontario quanto quello involontario, la buona recitazione e quella più scarsa, i colori desaturati per far risaltare su tutto il rosso. Possiamo dirlo: la banda del Professore è tornata. E, grazie alla cura di steroidi di Netflix, è più in forma che mai.
Conclusioni
Multiplayer.it
6.5
La terza stagione di La casa di carta, grazie alla "cura Netflix", evidenzia pregi e difetti della serie con protagonista la banda del Professore: chi ama questo formidabile guilty pleasure, che sa mischiare sapientemente dramma e kitsch, sarà soddisfatto, perché è tutto più grande, più spettacolare, più ambizioso. Chi invece non riesce a sopportare il fatto che a un momento drammatico sia costantemente abbinata una clamorosa caduta di stile, continuerà a non apprezzarlo. Nel bene e nel male è però innegabile che questi personaggi, grazie anche alla, ormai iconica, maschera di Dalì, siano riusciti a inserirsi nell'immaginario collettivo.
PRO
- La terza stagione è girata meglio e ha più mezzi a disposizione
- Al cast si aggiungono nuovi personaggi interessanti, come Palermo e Marsiglia
- Lo spirito di guilty pleasure è intatto, anzi, è sotto steroidi
CONTRO
- Questa natura da soap, che l'ha resa molto popolare, potrebbe però rendere indigesta la serie agli spettatori più esigenti
- La scrittura, le dinamiche e alcune situazioni sono ancora sopra le righe