Ormai è una specie di guerra. Combattuta a colpi di verbi, aggettivi, frasi taglienti e parolacce. Ma sempre "guerra" è. Dura, selvaggia, talvolta rozza nei contenuti. Basta fare un giro in un qualsiasi forum di un giornale, blog o social network nazionale o internazionale per rendersene conto: oggi tutti possono e si sentono in dovere di dire la loro su un qualsiasi argomento, e molti sono convinti di poterlo fare anche offendendo o utilizzando un linguaggio scurrile, in barba alle leggi e al rispetto dell'opinione e della persona altrui. La verità è che un po' tutti ci stiamo imbarbarendo e tra le tante forme di questa barbarie comportamentale che ci fa regredire, la lingua che parliamo, i concetti che esprimiamo e il modo di farlo, sono un segnale più che significativo. Le opinioni personali, specie quelle espresse dai lettori e pubblicate da un giornale digitale, rientrano nel diritto di critica e sono concettualmente legittime. Come tali è tra l'altro impensabile pretendere che siano obiettive, dato che risentono sempre del punto di vista soggettivo di chi le manifesta. Però possono spingere a stimolare un dibattito, che se "vissuto" in maniera naturale può risultare costruttivo. Il problema è che ciò avviene sempre più di rado e anzi molte volte, in breve, una discussione si trasforma in una battaglia campale virtuale dove non mancano i colpi bassi e gli interventi "pesanti", coi quali alcuni utenti credono di dare più forza alle proprie asserzioni. Ma fino a che punto è lecito spingersi nel commentare le considerazioni di un altro individuo senza per questo scadere nell'offesa personale o in un atteggiamento arrogante che impedisce un confronto civile? Sono domande che ci siamo posti da tempo e alla quali vorremmo tentare di dare una risposta in queste righe.
C'è un limite al diritto di critica? Fino a che punto ci si può spingere nell'esprimere un'opinione?
La furia di Umberto Eco
Secondo i dati pubblicati dal Gruppo di lavoro sui ''Giornalismi'' del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti italiani, nel mondo ci sono più di 2 miliardi e 405 milioni di utenti di internet. Di questi, nel 2016, ce ne saranno 1 miliardo e 300 mila che utilizzeranno uno smartphone per connettersi, e 383 milioni con almeno un tablet. Quasi la metà di chi si collega alla rete in Italia cerca informazione: 14,1 milioni di individui leggono notizie online, circa il 67% degli utenti attivi. Numeri impressionanti, che mostrano l'importanza sempre maggiore che sta assumendo la rete anche nel Bel Paese nell'ambito dell'informazione.
La ragione per cui si va sui siti è perché si è alla ricerca di notizie fresche e di articoli dettagliati per la volontà di approfondire un argomento, di diversificare le fonti, di certificare l'informazione di cui si è magari venuti a conoscenza un attimo prima alla radio o alla TV. Vedendo immagini e video, trovando notizie collegate, diventa più facile per chiunque ricostruire una vicenda, comprenderne taluni aspetti anche attraverso i commenti di altra gente, con la quale partecipare a delle discussioni. Ma proprio qui sta il rovescio della medaglia: alcuni utenti vedono infatti il web come una sorta di terra di confine, un luogo dove credono che si possa fare e dire ciò che si vuole, impunemente. Non vogliono confrontarsi ma sentenziare. C'è gente che nell'anonimato della rete scambia la maleducazione per chiarezza e l'aggressività o l'offesa gratuita per "onestà intellettuale". Così può capitare che anziché ottenere delle risposte o parlare su un argomento che interessa, gran parte degli avventori di un sito si ritrovi a dover litigare o a doversi sorbire gli attacchi di un perfetto sconosciuto. Di essere letteralmente bombardati dai messaggi stizziti di qualche "tuttologo" che la sa lunga su qualunque questione, e ha da dire qualcosa su tutto e su tutti in preda alla possibilità e alla libertà che gli viene data.
Contro di loro (e non contro tutti coloro che frequentano il web, come erroneamente riportato da qualche organo di stampa), si è recentemente scagliato il semiologo, filosofo e scrittore italiano Umberto Eco. A Torino per ritirare la laurea honoris causa in "Comunicazione e Cultura dei media", conferitagli dall'università piemontese con la motivazione di essere artefice, con la sua opera, dell'arricchimento della "cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell'analisi della società contemporanea e della letteratura", l'intellettuale alessandrino ha infatti dichiarato: "i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l'invasione degli imbecilli". La competenza per il professor Eco è fondamentale perché un giudizio sia credibile e, appunto, autorevole. Ma la vita sociale evolutasi col Web 2.0 ha aperto a chiunque la possibilità di giudicare, senza vincoli, senza censura e, in taluni casi, senza "conoscenza". Noi in tal senso preferiamo non esprimerci, perché se da un lato condividiamo alcuni passaggi dell'intervento del filosofo e scrittore italiano, dall'altro siamo contrari a generalizzare i comportamenti della gente e quindi convinti che tutti abbiano diritto di dire la loro senza pregiudizi di sorta. Internet non è il "male" e anzi ha il pregio di aver consentito a milioni di uomini e donne di potersi esprimere liberamente, cosa impossibile fino a qualche tempo fa, quando potevano solo ambire al rango di lettori, spettatori, ascoltatori.
Valutare, ragionare, rispettare
Il problema a nostro parere non è quindi nello specifico di dare voce alla gente, pure a quella che il professor Eco considera per certi versi "meno meritevole", ma quello di insegnare ad alcuni di loro a esporre le opinioni in maniera civile e nel rispetto di quelle altrui. Abituandoli a non varcare quella sottile linea rossa che divide il diritto di critica dall'offesa gratuita e immotivata. Perché il dibattito, anche acceso, ci sta, fa parte della natura umana. Ma è inaccettabile che, al netto dei troll che frequentano certi spazi solo per provocare, si possano incrociare come accennato prima utenti che abbiano un progressivo scadimento dell'autocontrollo o un'eccessiva sicurezza di sé, fino al punto di esplodere per un nonnulla al primo parere contrario al loro.
Anche sul nostro sito, oggi si fa a gara a trovare l'errorino nell'articolo: una virgola fuori posto, un passaggio estrapolato dallo stesso pezzo che non piace o non si comprende, per il gusto di fare polemica. A volte si ha la sensazione che alcune persone abbiano smesso di giocare sul serio, di dedicare ore ed ore a un titolo per sviscerarlo fino in fondo, per scoprire l'ultima arma potente o risolvere l'enigma impossibile che dà tanta soddisfazione risolvere. E che passino invece più tempo a scannarsi sui social network su questo o quell'argomento, spesso per partito preso. Non si cerca nemmeno di dialogare, di capire il "perché" di una certa valutazione o di un certo giudizio. A volte capita di imbattersi in lettori che nemmeno hanno letto una recensione per intero e segnalano mancanze che in realtà non ci sono. Persone che offendono le famiglie del recensore o di altri utenti di idee opposte alla loro fino alla quarta generazione. Possibile che non ci si riesca a fermare? Su qualsiasi quotidiano online, ormai, perfino i redattori più scafati e i giornalisti più famosi cadono vittima di pesanti attacchi verbali, e appellativi come "stronzo" o "venduto" finiscono quasi per risultare ben poca cosa a confronto di altri epiteti. Ma non è un problema di parolacce, quanto piuttosto la mancanza di rispetto per le opinioni diverse, il voler per forza di cose imporre le proprie idee come verità assolute. Perché se uno pensa di avere la ragione assoluta, se non vuole sentire i pareri altrui o li giudica a prescindere da tutto errati in partenza, che senso ha allora partecipare a un forum? Che senso ha il concetto stesso di social?
La critica è il sale della comunicazione, l’insulto no
Stabilire però l'esatto confine tra critica e ingiuria non è facile, specie nella concitazione di una discussione nata a commento di una notizia o della recensione di un videogioco, dove la foga del momento fa dire frasi che in altre circostanze non si direbbero mai, o perlomeno ci si penserebbe più di una volta prima di proferirle. Ebbene, in questo quadro, converrebbe segnare subito, e farla comprendere ai diretti interessati, una linea di demarcazione tra il lecito e l'illecito. La legge e la giurisprudenza ritengono legittimo esprimere un'opinione personale o delle critiche utilizzando un linguaggio deciso, purché non denigratorio o insinuante e, soprattutto, senza la volontà e la consapevolezza di offendere.
L'articolo 21 della Costituzione enuncia infatti che "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Ma specifica anche che tale diritto incontra dei limiti specifici qualora l'opinione espressa giunga a ledere l'onore e la reputazione altrui. Il diritto di critica e la libertà di opinione non possono quindi essere equivocate con la libertà di offesa, di ingiuria, di diffamazione di un'altra persona. Così come la critica dovrebbe continuamente evolversi culturalmente, senza adagiarsi su certi meccanismi valutativi, sviluppando conoscenze e strumenti tali da permetterle di riconoscere ciò che si trova di fronte, alcuni lettori dovrebbero fare altrettanto, deporre le armi e iniziare non solo a motivare le proprie idee non nascondendosi dietro a epiteti gratuiti, fanatismi o saccenteria, ma anche a esporre civilmente le proprie idee, le proprie impressioni. Solo così i giudizi tutti, giusti o sbagliati che siano, manterrebbero comunque una loro fondatezza logica, e anche i voti, spesso causa scatenante di lunghe diatribe sui forum, assumerebbero un senso più rilevante. Inoltre si rivelerebbero davvero utili. Quanti prima di acquistare un videogioco, prima di andare a mangiare in un locale o di scegliere un albergo, vanno a spulciare la rete per leggerne le recensioni degli esperti, e soprattutto i giudizi degli utenti per farsi carico della loro esperienza per la scelta finale?
E quanti magari anziché chiarirsi le idee vanno in confusione perdendosi fra pagine e pagine di litigi, pareri diametralmente opposti dove non è chiaro se la valutazione alla fine sia stata negativa o positiva per fattori esterni a quanto proposto da un prodotto o da un servizio? Può capitare così che un videogioco sia stato considerato "una schifezza" solo perché caratterizzato da un livello di difficoltà sopra la media, oppure che un locale venga giudicato positivamente nonostante il cibo pessimo perché "il personale è troppo simpatico", o un film "fantastico" perché la protagonista è sexy e mostra le tette. E che da queste considerazioni siano nate una serie infinita di diatribe fra utenti o contro un recensore, che sono servite solo a generare un'estrema confusione in tutti coloro che erano andati su quella pagina per chiarirsi le idee. Da un dibattito civile invece, può solo guadagnarci la comunità virtuale di cui si fa parte, visto che la critica è per chi scrive il sale della comunicazione, del confronto, della crescita individuale o professionale. I lettori sono il bene più prezioso per una rivista e per i suoi redattori, pertanto criticate quando lo ritenete giusto, date il vostro sostegno se lo meritano. Ma fatelo, come detto più volte, in maniera motivata, senza pregiudizi, aprendovi al dialogo, alla riflessione, esprimendo i vostri concetti in maniera schietta ma cordiale, in ossequio di quelli degli altri. In fondo dall'altra parte dello schermo non ci sono nemici, ma persone come voi. Perché il diritto di critica, e a questo punto dell'articolo lo avrete capito, per noi non va limitato, va solo veicolato all'interno di un percorso di crescita comune fatto di tolleranza e di rispetto delle idee di tutti.