"No pain, no gain" dice il detto, giusto? Il duro lavoro paga e spesso per raggiungere un buon risultato bisogna impegnarsi ed essere talvolta pronti al sacrificio. Un concetto di per sé nobile e che vuole essere d'incoraggiamento nei momenti bui in cui si sta per buttare la spugna... però a tutto c'è un limite. Un limite che l'industria dei videogiochi non ha ancora ben chiaro visto che ciclicamente i riflettori si accendono sulla personalità di turno, che porta alle luci della ribalta le condizioni lavorative negli studi di sviluppo in cui esercitano la professione. Tempi stretti, stipendi stringati e il cosiddetto "crunch time", tutti fenomeni frequenti nel mondo dello sviluppo e recentemente è stata Amy Hennig a parlarne: partiamo quindi dalle sue parole per analizzare più a fondo il problema.
Quali sono le condizioni lavorative negli studi di sviluppo dei videogiochi?
A tutto c'è un limite
Amy Hennig, per chi non la conoscesse, è una veterana dello sviluppo con una carriera di oltre vent'anni, che l'ha vista occuparsi di titoli come Lagacy of Kain e Uncharted. In un recente episodio di Designer Notes, podcast del sito Idle Thumbs condotto da Soren Johnson (fondatore di Mohawk Games), la Hennig si è scucita un po' raccontando la sua esperienza durante lo sviluppo di Uncharted 3 presso Naughty Dog. Pare che con il terzo capitolo la situazione fosse più difficile rispetto al passato, perché in quel momento lo studio era diviso su due importanti fronti: consegnare Uncharted 3 rispettando i due anni di tempo pattuiti con il produttore, e nel frattempo dividere il personale in due team separati, in modo da poter gestire più situazioni contemporaneamente. Uno scenario da cui sono passati tanti studi prima di Naughty Dog ma che rimane comunque ostico da gestire. A quanto pare, stando alle parole della Henning, era abitudine comune lavorare nei momenti critici della fase di sviluppo sette giorni su sette per almeno dodici ore al giorno. E quel ritmo non era limitato esclusivamente ai membri del team di "alto rango" (direttori, creativi, eccetera...) come la Henning ma era esteso a tutti, programmatori compresi. Una situazione estrema che in un ambiente di lavoro tutelato farebbe andare in brodo di giuggiole qualsiasi sindacalista ma che nell'industria del gaming è tacitamente accettata da tutti, dall'umile programmatore appena arrivato fino al produttore di spicco. La Hennig poi continua parlando della sua situazione e del suo personale punto di vista, dicendo: "ho visto persone non andare mai a casa e non vedere le loro famiglie. Persone con figli che crescono senza che loro possano vederli. (...) Quando stavo facendo sacrifici, questo ha influenzato la mia famiglia? Sì, ma stava soprattutto colpendo me ed è così che ho potuto fare quella scelta. (...) Ma guardando gli altri, gente a pezzi o che ha dovuto farsi dare un controllata una volta terminato lo sviluppo del gioco. Oppure che ha divorziato. Questo non va bene, nulla di tutto ciò. Niente di tutto questo vale la pena". La dichiarazione, molto onesta, di una persona consapevole del suo stile di vita e delle sue scelte professionali, che si assume la responsabilità delle sue azioni ma allo stesso tempo conscia del fatto che questa non può essere la norma.
Il problema, purtroppo, è che più l'industria dei videogiochi si spinge verso il futuro, più è difficile arginare il problema: con una corsa sempre più rapida e degli investimenti sempre più grandi non c'è tempo per fermarsi e pensare a come poter garantire un ambiente di lavoro più sano negli studi di sviluppo, perché finito un gioco si riparte con quello dopo, in una folle corsa contro il tempo. Non stupisce quindi che nella primavera dell'anno scorso tutti i giornali titolassero "Allarme droghe spremi-cervello nella Silicon Valley", facendo riferimento alle Nootropiche, le droghe "intelligenti" capaci di rendere la mente della persona che ne fa uso più scattante e più concentrata senza subire affaticamento. Una situazione comune a tanti sviluppatori americani e non, anche al di fuori dell'industria dei videogiochi, che stende però un velo agghiacciante sul mercato dell'intrattenimento. Eppure questa pare essere la situazione più o meno normale di molti studi di sviluppo da tanto tempo: fu eclatante nel 2004 lo sfogo di un programmatore EA che sotto pseudonimo raccontò le condizioni in cui versava il suo lavoro. "Il nuovo, lucido e brillante marchio aziendale di EA recita 'Challenge Everything'. Ma all'atto pratico non è chiaro cosa voglia dire. Sfornare un gioco di calcio con licenza uno dopo l'altro mi sembra sfidare il nulla; suona più come uno sfruttamento. Per qualsiasi dirigente di EA che sta leggendo, ho una sfida per voi: che ne dite di pratiche di lavoro sicure e sane per le persone che sfruttate per fare i vostri milioni?" Un'introduzione al vetriolo per una persona che racconta come tutto il lavoro fatto per EA in quell'anno fosse cominciato con delle losche interviste dove veniva chiesto ai dipendenti: "come ti trovi a lavorare per tante ore al giorno?" Il racconto, che lasciamo qui qualora voleste leggerlo, continua descrivendo momenti stressanti ed intensissimi, straordinari richiesti ma non pagati e via dicendo.
L'arte non retribuita
I problemi di fondo sono sostanzialmente due, uno di tipo pratico e uno sociale. Come dicevamo prima il mercato dell'intrattenimento videoludico è in crescendo ma c'è una dolorosa contraddizione: se giochi più "grandi" hanno bisogno di più persone per essere sviluppati, ma risorse e tempi non cambiano, come si può ovviare al problema? Certo, mettere al lavoro un team sia pur numeroso ma affiatato paga molto di più in termini di qualità che non avere centocinquanta persone che non si parlano per due anni e sfornano il solito gioco copia - incolla, ma non è quello che serve per capitalizzare gli investimenti.
A questo problema di tipo economico va affiancato un tipo di lavoro, chiamiamolo sociale. Partiamo dal presupposto che in generale l'uomo medio non ha la minima percezione del lavoro altrui: quante volte al giorno ci chiediamo quante persone sono state coinvolte per produrre gli oggetti che usiamo o che collaborano a far funzionare i servizi di cui usufruiamo quotidianamente? Appunto. Così come il giocatore medio non sa cosa significhi dormire tre settimane sotto la propria scrivania per rispettare la consegna del gioco. Ma il problema non è questo, quanto il fatto che anche alla luce di ciò il sacrificio non viene riconosciuto, anzi, è normale e la lamentela non è accettabile perché tu sei uno di quelli "che ha realizzato il sogno". Il problema della passione in relazione alla professione è vecchio come il mondo ed è tragico che ancora oggi l'amore per la propria professione debba essere la prima, se non a volte l'unica retribuzione. C'è chi poi ha un po' perso la testa come Alex St. John, co-creatore delle DirectX di Microsoft e fondatore di Wildtangent, publisher di giochi web scaricabili. Secondo St. John "Fare videogiochi non è un lavoro - è un'arte" ed esorta le persone a "non lavorare nell'industria dei videogiochi se non puoi amare un lavoro da 80 ore alla settimana - stai rubando il lavoro a qualcuno che lo desidera veramente". Che lavorare in un studio di sviluppo non risponda esattamente a modalità di lavoro da ufficio più classiche questo è vero, come è vero che chi decide di intraprendere questa carriera sa bene cosa significhi e quanto a volte venga richiesto un sacrificio personale, però dal prendere in esame la situazione al "tu stai facendo arte quindi non puoi pretendere ritmi dignitosi", arrivando addirittura ad insinuare che "stai rubando il lavoro ad altri" è francamente assurdo. Siamo certi che St. John tiene molto al suo lavoro, come ci tiene molto la Hennig, che però ha l'onestà di distinguere ciò che va bene per lei con ciò che deve andare bene per tutti. È necessario che tutti i produttori e sviluppatori aprano gli occhi sulla questione e che cerchino di creare piani di sviluppo più sostenibili e più etici, mentre noi nel nostro piccolo possiamo ricordarci che dietro a tutti i giochi c'è sempre un gruppo di persone che vi ha lavorato sopra. Se non altro almeno il rispetto glielo dobbiamo.